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I Savoia nella Bufera di Giorgio Pillon

I Savoia nella Bufera. Parlano i testimoni – di Giorgio Pillon – 1958 – 10

By Aprile 7, 2020Gennaio 24th, 2022No Comments

VITTORIO EMANUELE ABDICA


Un banale episodio provocò il senile rancore di Croce verso la Monarchia

Il Governo deplora pubblicamente una coraggiosa intervista di Umberto al “Times”

Il Luogotenente costretto a cambiare la sua Casa Militare

I singolari doni degli americani generale Truscot e cardinale Spelmann

Il Sacro Collegio auspica il mantenimento dell’istituto monarchico

L’improvvisa convocazione per l’abdicazione

La fedele “madama” Rosa, cameriera della Regina, descrive la tristissima ora della partenza per l’esilio

 

 

Sì, io credo di essere stato il primo in Italia a rivolgermi direttamente a Umberto con l’appellativo di Maestà. Erano le 19,30 del 9 settembre 1946. Umberto era divenuto Re d’Italia da poche ore perché Vittorio Emanuele aveva firmato l’abdicazione alle 15,30, con una breve e triste cerimonia, innanzi al notaio Angrisani, al duca Acquarone, al generale Puntoni e al tenente colonnello De Buzzaccarini». Il dottor Michele Avalle si interrompe, guarda lontano quasi volesse raccogliere ancora negli occhi e nel cuore la visione di un avvenimento storico che ha mutato le sorti del nostro Paese.

Un brillante aviatore

Michele Avalle è un’altro dei personaggi giornalisticamente «sconosciuti» da noi avvicinato nel corso di questa inchiesta. Negli ambienti vicini a Casa Savoia però Avalle non è il primo venuto perché nessuno ignora la parte da lui avuta durante la Luogotenenza di Umberto e i successivi 35 giorni di regno. Avalle dal 14 giugno 1944 al 13 giugno 1946 fu ufficiale d’ordinanza di Umberto, assieme a Enzo Caratti di Lanzacco, a Oscar Galloni e a Balbo di Vinadio. Com’è noto la Casa Militare del. Principe prevedeva nel suo organico sei ufficiali d’ordinanza, successivamente ridotti a quattro dallo stesso Luogotenente.

Avalle era a quell’epoca (così ce lo ha descritto un suo superiore) « un tipo da Tre Moschettieri, un tipo da romanzo di cappa e spada ». Aveva 27 anni, era capitano d’aviazione in SPE, era decorato con tre medaglie d’argento, una di bronzo, aveva ottenuto una promozione per merito di guerra, ed era riuscito, in circostanze avventurose, a lasciare l’Albania, raggiunta il 9 settembre, per essere accanto al generale Rosi, comandante del gruppo Sudest Balcanico quale ufficiale di volo.

Le successive, drammatiche vicende che videro i nostri reparti sbandarsi, lottare contro i tedeschi, iniziare la lotta partigiana, portarono Avalle sulle montagne albanesi con altri ufficiali e soldati finché non gli fu possibile attraversare l’Adriatico con una barchetta a remi, attrezzata all’ultimo momento con una rudimentale vela, e arrivare miracolosamente a Uggiano La Chiesa, verso Otranto. Presentatosi a Lecce al nostro comando militare, venne inviato a Brindisi e qui nominato aiutante di volo di Umberto. Ma il Principe di Piemonte, per quanto disponesse di un vecchio nostro aereo militare, non poteva spostarsi a suo piacimento perché gli Alleati non davano il necessario placet. Così Avalle finì per chiedere di rientrare in qualche reparto combattente. E fu nel primo gruppo di caccia bombardieri che si formò al Sud con apparecchi alleati, al comando dell’eroico maggiore Erasi che doveva, mesi dopo, immolarsi per la Patria in un’azione contro i tedeschi.

“Liberata” Roma, Avalle, (sono parole sue) venne prelevato da Buscaglia (uno degli assi della nostra aviazione e uno degli eroi più puri) e portato nella Capitale alla presenza del Luogotenente. Umberto gli chiese se avesse voluto divenire suo ufficiale d’ordinanza. «Ho deciso intatti», gli chiarì il Luogotenente, «di rinnovare l’intera mia Casa Militare». Umberto non aggiunse, altro, ma Avalle non tardò a scoprire la verità senza volerlo. A chiedere insistentemente questa vera e propria epurazione erano stati Badoglio, Sforza, Croce. Anche Vittorio Emanuele, secondo quanto racconta nel suo diario il generale Puntoni, aveva espresso al figlio l’opportunità di cambiare i suoi aiutanti di campo e gli ufficiali di ordinanza.

All’origine di tutto v’è un incidente poco noto, anzi assolutamente sconosciuto nei dettagli. Val la pena raccontarlo perché e alla base di due fatti fondamentali: la triste storia dell’epurazione e la inspiegabile ostilità di Benedetto Croce (che si dichiarava monarchico) verso Vittorio Emanuele e verso Umberto.

Un’intervista coraggiosa

Nell’aprile del 1944, il Principe di Piemonte accettò di vedere a Napoli il corrispondente del Times maggiore Lumby. L’intervista venne accordata dopo che il giornalista aveva promesso di far approvare l’articolo prima dell’inoltro a Londra. Lumby tra le tante domande che rivolse, chiese anche perché il Re avesse firmato la dichiarazione di guerra alle Nazioni Unite. Umberto precisò allora che sarebbe stato impossibile nel giugno del ’40 opporsi ai disegni germanici senza provocare l’immediata invasione dell’Italia da parte dei tedeschi. «Per di più », aveva aggiunto il Principe, «alla Corona era mancata una utile indicazione: non c’erano stati indizi di opposizione tali da far credere e che il pensiero della Nazione divergesse da quello di Musolini. Nessuna voce si era levata a protestare contro le decisioni del Duce».

Era stato uno sfogo sincero ma anche alquanto ingenuo o per lo meno poco «politico», poco «diplomatico». Ma Umberto (che parla benissimo l’inglese) non aveva usato mezzi termini, non aveva pesato ad una ad una le parole, sicuro com’era che Lumby gli avrebbe fatto rivedere il testo. Il giornalista fu di parola. Il giorno dopo consegnò al Principe l’articolo. Umberto, a sua volta, lo mise in una busta e lo mandò in visione, a mezzo di un suo Ufficiale a ordinanza, a Benedetto Croce. Il filosofo stava in quei giorni meditando su El convidado de piedra di Tirso de Molina. Lesse l’intervista, non l’approvò se non in parte e si accinse a portarvi le necessarie aggiunte e i necessari schiarimenti. Ma Croce, era uno scrittore lento. Tenne sul suo tavolo per tre o quattro giorni l’articolo e si accinse a restituirlo al Principe, riveduto e corretto, proprio il 30 aprile quando il Times appariva, inaspettatamente, con l’intervista concessa da Umberto, pubblicata con un titolo su due colonne: un risalto eccezionale per un quotidiano che aveva «osato» anni prima annunciare la dichiarazione di guerra alla Germania su tre colonne. Mentre gli altri giornali l’avevano sparata naturalmente a piena pagina.

Benedetto Croce si offende

Perché questa intempestiva pubblicazione? Lumby contemporaneamente ad Umberto, aveva mandato la seconda copia dell’intervista a Londra, annunciando eventuali ritocchi per l’indomani, a mezzo cablogramma. La direzione del giornale, dopo aver atteso tre giorni, ritenne che il testo dovesse considerarsi definitivo dal momento che le promesse varianti non erano giunte. E lo pubblicò. Apriti cielo! Benedetto Croce credette di essere stato giocato. Mandò a chiamare Cecil Sprigge e gli dettò una serie di astiose contestazioni alla intervista di Umberto. Poi protestò con Sforza e con Badoglio. Parve in quei giorni che la guerra non esistesse, che gli alleati avessero smesso di bombardare l’Italia del Nord, che nessuno più morisse sui campi di battaglia: tutto si restrinse a quella sfortunata intervista. L’11 Maggio il Consiglio dei ministri si riunì per discutere sugli incidenti provocati dalla ormai famosa dichiarazione di Umberto. Fu votato un ordine del giorno che deplorava il gesto compiuto dal Principe, definito, nel comunicato «il rappresentante della Corona».

In mezzo a questo marasma nessuno volle udire la voce di Lumby, autore involontario di tutto quel pasticcio. Il giornalista chiarì l’incidente, discolpò il Principe, si addossò l’intera responsabilità dell’incidente, ma Croce continuò ad essere crucciato come un’olimpica divinità, il ministro Omodeo seguitò a sputare veleno insieme con Sforza, Cianca e Badoglio.

Il 12 Maggio i ministri Arangio Ruiz, Sandalli, Orlando e De Courten andarono da Vittorio Emanuele. Il Sovrano si intrattenne a lungo, specialmente con De Courten e Orlando. Parlò del!’incidente, biasimò la deplorazione espressa dal Consiglio dei ministri e nello stesso tempo domandò se fosse vero che Badoglio avesse in animo di chiedere l’immediato allontanamento di tutta la Casa Militare del Principe. Ma la realtà era ancora più grave. L’intervista di Umberto aveva suggerito al Governo la necessità di estendere la epurazione come «metodo di cura», a molti altri ambienti. Da quel momento, osserva Ugo d’Andrea ognuno trovò che sarebbe stato facile occupare un certo posto col convincere un proprio amico al Governo o un’autorità alleata della opportunità di rimuovere dal suo ufficio un tale che era stato fascista o sciarpa littorio o seniore della Milizia o aveva scritto come professore di ginnasio, un’ode a Mussolini, aveva domandato, come ufficiale, di combattere in Spagna o aveva fatto visita in un certo giorno al federale della propria provincia indossando la sahariana. Ne nacque una sarabanda in cui lo spirito fazioso, l’invidia e la proverbiale miseria degli italiani si disfrenarono.

Rancore senile

Da allora, inoltre, fu chiaro che anche Croce avrebbe dato ogni aiuto per fare lo sgambetto alla monarchia il suo rancore senile doveva essere fatale a Umberto.
Abbiamo voluto dilungarci su questi episodi non soltanto per chiarire la stranissima fede monarchica di Croce e il suo sicuro odio verso Vittorio Emanuele e verso Umberto, ma anche per spiegare una clamorosa «rottura». Da allora il senatore Bergamini amico fraterno di Croce, troncò ogni legame con il filosofo. «Voglio che si sappia» – ci ha detto Bergamini, « che la causa fu una sola: il livore di Croce verso il Principe reo di avergli mandato in visione un’intervista apparsa successivamente senza l’  imprimatur».

Su di un punto però tanto Vittorio Emanuele quanto Umberto furono inflessibili. Essi se erano disposti, come cercarono di fare, di chiarire l’incidente con Croce, non erano affatto disposti a congedare valorosi aiutanti di campo e generosi ufficiali di ordinanza, rei – agli occhi del Governo – di congiurare contro Badoglio, contro Sforza e contro Croce.

Un mese dopo, rientrato a Roma Umberto (era divenuto Luogotenente il 5 giugno) rinnovò la sua Casa Militare. Al posto del generale Gamerra chiamò il generale Infante che divenne così primo aiutante di campo generale insieme con l’ammiraglio Garofolo e con il generale Cassiani Ingoni, nominati, a loro volta, aiutanti di campo. Poi Umberto scelse i suoi ufficiali d’ordinanza, quelli che lo avrebbero dovuto accompagnare dovunque. E non dimenticò quel bel tipo di moschettiere che era il capitano Michele Avalle. Qualcuno gli fece presente che Avalle era capitano, che il regolamento prescriveva che gli aiutanti di campo fossero ufficiali superiori, ma il Luogotenente rispose: «Non importa. Comunque lo faremo promuovere». Così Avalle entrò al Quirmale.

Il primo giorno che fu di servizio ( ogni  «turno» durava 15 giorni) Avalle si sentì dire dal Luogotenente: «Domattina la Messa sarti alle 8, nella cappella piccola. Avverta per piacere tutti e non dimentichi mio zio il duca di Genova. Domenica scorsa non è venuto in chiesa ».

Avalle eseguì. «Cristo!» disse il duca di Genova andando su tutte le furie, «alla mia età devo ancora ricevere l’ordine di andare a Messa. Dica al Luogotenente che io a Messa non ci vado». Ma all’indomani il duca di Genova era anche lui in chiesa alle otto in punto,

La pistola con una pallottola

Un altro giorno Avalle accompagnò il Luogotenente a cena dal generale americano Truscot, considerato il migliore specialista in sbarchi militari. In casa del generale non c’erano altri ospiti tranne l’ufficiale d’ordinanza. Fu una cena intima simpatica anche se sorretta da cibi freddi non troppo eccellenti. In compenso il generale innaffiò ogni boccone con lunghe sorsate di Chianti. Alla fine Truscot tolse dalla fondina la sua pistola d’ordinanza e la regalò a Umberto dicendogli: «Questo è quanto mi è di più caro. M’ha accompagnato in Africa, in Normandia, ad Ansie. L’offro a Vostra Altezza. Ma attenzione: la pistola è carica. C’è una pallottola, una sola. E lo sa perché? Io penso che la vita sia proprio bella, Quando, per disgrazia, comincia a divenire brutta, è necessario avere una pistola e una pallottola».

Meno singolare l’omaggio di Spelmann. Il cardinale venne introdotto da Avalle in udienza con una grossa stecca di sigarette sotto il braccio. Prima ancora che Umberto gli baciasse l’anello piscatorio, Spelmann offrì il suo dono. Ma subito dopo si sentì imbarazzato. Non per il regalo ma per che il Luogotenente gli confessò di non fumare.

Ben altri episodi sarebbe in grado di raccontare Avalle (oggi amministratore unico, a Roma, di uno stabilimento tipografico. avendo rassegnato le dimissioni dall’Arma Azzurra lo stesso giorno della partenza di Umberto per l’esilio) se egli potesse riavere il «diario storico». Era questo un grosso registro sul quale venivano annotati pedissequamente gli avvenimenti del giorno. I compilatori erano, a turno, gli stessi ufficiali d’ordinanza. Ma Avalle, a differenza di altri che facevano le annotazioni in duplice copia, per conservare un esemplare, non ha mai tenuto registrati gli avvenimenti per sé. Ecco perché, a volte, i suoi ricordi non sono molto precisi o esatti circa date e nomi. Un episodio però è rimasto impresso nella memoria del dottor Avalle come se fosse accaduto ieri: l’abdicazione di Vittorio Emanuele. Racconta il generale Puntoni (pag. 331 di Parla Vittorio Emanuele): «9 maggio 1946 – senza preavviso alle 12.45 arriva il Principe di Piemonte accompagnato dal Duca Acquarone, generale Cassiani e dal capitano Avalle… »,

A sua volta il dottor Avalle precisa:« Con noi non venne né Acquarone, né Cassiani. Partimmo da Roma in quattro: il Luogotenente, io (quel giorno di servizio, con la fascia azzurra a tracolla), il maggiore degli Alpini Enzo Caratti di Lanzacco (che era di sottoservizio) e l’autista, sergente Polverigiani. Partimmo da Roma verso le dieci. Sua Altezza, come al solito, prese posto accanto all’autista. Era stanchissimo. Da diverse notti non dormiva. Cominciava a ricevere gente alle sette del mattino e seguitava ad avere colloqui o a spostarsi di continuo in visita a un reparto, a un ospedale per l’intera giornata fino a notte avanzata.

«Imboccata l’Appia, il Luogotenente si appisolò. Ogni tanto si scuoteva, diceva qualche cosa, poi tornava ad assopirsi Caratti ed io eravamo di eccellente umore. Ignoravamo il motivo di quel viaggio improvviso. Pensavamo che si trattasse di una delle ormai solite visite che Sua Altezza faceva agli augusti suoi genitori. Nessuno in Quirinale ci aveva parlato di abdicazione. Anzi la voce corrente era diversa: Vittorio Emanuele non avrebbe atteso i risultati del referendum. Se questo fosse stato favorevole alla Monarchia, il Re sarebbe rientrato a Roma e dalla Capitale avrebbe rivolto un proclama annunciando l’abdicazione».

I cardinali della monarchia

Caratti era molto religioso. Umberto lo aveva nominato, scherzosamente, public relation per i rapporti con la Santa Sede e il clero. Era stato Caratti a preparare il 25 febbraio un ricevimento in Quirinale in onore di 32 nuovi cardinali creati in un Concistoro che era stato il primo del dopoguerra. Caratti, beninteso, si era limitato alla parte organizzativa perché il ricevimento che vide riuniti attorno al Luogotenente tanti Principi della Chiesa era stato ideato dal ministro della Real Casa Falcone Lucifero. Era stata una abilissima mossa politica perché alla fine tutti i trentadue cardinali avevano pubblicamente espresso la speranza (al ricevimento erano stati invitati anche i membri del Governo, e tutti gli ambasciatori non escluso quello sovietico) che la monarchia fosse conservata all’Italia.

Quel giorno Caratti era stato proprio instancabile e aveva finito col dover sopportare le frecciate del suo inseparabile amico Avalle. Ogni tanto, anzi, Avalle gli ricordava scherzando quella che era stata, tra gli ufficiali di ordinanza del Luogotenente, «la grande giornata dell’alpino».

A villa Maria Pia

Andando verso Napoli nel fatale maggio Avalle aveva ripreso (sottovoce  per non disturbare Uniberto che dormiva) a punzecchiare l’amico.
«Non avrei mai supposto», ci ha raccontato Avalle, «che quel viaggio doveva segnare la fine di un’epoca storica. Arrivati a villa Maria Pia, il Luogotenente ci disse “Aspettate un, momento qui, in questo salotto può darsi abbia bisogno di voi”.  Umberto parlò con il padre. Dopo circa mezz’ora uscì e ci disse: “Siete liberi ma restate qui, nei giardini della villa. Ripartiremo molto presto”. Fu solo più tardi che comprendemmo il motivo di quella attesa nel salotto della villa, quando uno staffiere ci domandò perché il commendatore Scalici avesse ordinato di preparare subito i bagagli dei Sovrani.

«Da quel momento la situazione parve precipitare. Verso le 14 fu chiaro che Vittorio Emanuele stava per abdicare. Capimmo allora che Umberto ci aveva portati a Napoli perché gli facessimo da testimoni in un atto che avrebbe dovuto essere registrato da un notaio. Il Re però aveva fatto presente al Figlio che i testimoni sarebbero stati scelti da lui ».

Intanto il commendatore Gaetano Scalici telefonava a Roma per richiamare la Contessa Calvi, l’amministratore privato Frascati, il commendatore Olivieri. Scalici fece poi una quarta telefonata al notaio napoletano Nicola Angrisano.

Il notaio (che ha ora lo studio a Napoli in vico Corrieri) aveva in quel tempo i suoi uffici in via San Carlo n. 6, proprio di fronte alla reggia. Fu forse per questa vicinanza che egli era stato scelto come notaio di Casa Savoia dopo il ’44. In tale veste aveva registrato numerosi atti privati, numerose procure che avevano permesso a Vittorio Emanuele e alla Regina di effettuare alcune vendite di immobili. L’ultima registrazione era anzi servita per la vendita di sei villini a Formia di proprietà personale di Vittorio Emanuele.

Manca la carta bollata

Quel mattino, dunque, il notaio Angrisano stava preparandosi a chiudere il suo studio (erano le 13,30) quando Scalici lo avvisò che il Re lo desiderava con la massima urgenza. Pensando di dover registrare una delle solite procure, il notaio si affrettò a chiudere nella sua borsa alcuni fogli di carta bollata e il suo timbro notarile.

Giunse a villa Maria Pia con l’auto che Scalici gli aveva mandato incontro. E comprese subito che qualcosa di veramente grave stava accadendo (Angrisano ci ha raccontato l’avvenimento dopo essersi fatto promettere, con mille raccomandazioni di esattezza, che non avremmo tentato di fotografarlo). Il personale di servizio era indaffaratissimo. Dovunque si scorgevano casse e valigie. Il notaio venne introdotto in una piccola sala. Qui seppe dalla viva voce di Scalici il motivo di quell’improvviso invito. Il Re stava per abdicare. Occorreva registrare l’atto.

Alle 15 il Sovrano scese nel salotto (1’appartamento occupato dal Re era al piano superiore della villa). Aveva già redatto lo storico documento su carta semplice. Angrisano fece allora notare che l’atto non era valido. Bisognava fosse redatto su di un foglio di carta bollata da 12 lire. Ma il notaio non aveva tra le sue carte un foglio da 12 lire. Fu Scalici a procurarlo. Poi il Re risalì al piano superiore. Dopo pochi minuti riapparve con l’abdicazione in mano. Sembrava calmo e sereno ma chi lo conosceva capì che faceva sforzi per dominare l’emozione. Era pallido, muoveva nervosamente gli angoli della bocca. Rivoltosi al generale Puntoni osservò: « Ha visto? E’ successo più presto di quello che credevamo »,

Angrisano si accinse a postillare l’atto. Vittorio Emanuele intanto osservava, quasi tra sé: « Ho adoperato la stessa formula usata da Carlo Alberto nel 1849 ».

Poi Angrisano incominciò a leggere a voce alta scandendo con estrema chiarezza le poche parole contenute nel documento. E fu allora che il notaio, prima di far sottoscrivere l’atto al generale Puntoni e al colonnello De Buzzaccarini, scelti dal Re quali suoi testimoni, osservò: “Faccio notare a Vostra Maestà che sull’atto è stata posta la data del 6 maggio anziché quella del 9 . Era vero. Vittorio Emanuele, tratta dal taschino esterno della giacca una penna stilografica nera, corresse la piccola svista. Subito dopo aggiunse: « Credo che adesso tutto sia in regola». Angrisano accennò con la testa di sì.

Allora Vittorio Emanuele gli tese la mano. Poi salutati i due ufficiali che si erano irrigiditi sull’attenti, colui che era stato per quarantasei anni il Sovrano d’Italia si allontanò con passo stanco. Sulla soglia però ristette un attimo, si voltò, tornò a salutare il notaio con un cenno della mano; infine risalì nel suo appartamento.

L’imbarco sull’incrociatore

Tre ore più tardi Vittorio Emanuele, Elena di Savoia, il Conte Calvi (che aveva all’ultimo momento sostituito il conte di Vigliano, scelto in precedenza dal Re come unico dignitario destinato ad accompagnare in esilio coloro che sarebbero divenuti i Conti di Pollenzo), il commendatore Olivieri, la contessa Jaccarino Rochefort, dama di compagnia di Elena di Savoia, e i fedeli camerieri Pierino Masetti e Rosa Gallotti, si imbarcavano sull’incrociatore Duca degli Abruzzi.

Fu una partenza triste, accompagnata da un commiato affettuoso. Per udirne il racconto dalla viva voce di uno dei partenti ci siamo recati la scorsa settimana a Nettuno dove vive colei che fu dal 1925 in quotidiano contatto con la Regina: Rosa Gallotti.

Madama Rosa (cosi la chiamava Vittorio Emanuele, rivolgendosi a lei solo ed esclusivamente in piemontese) è nata a Pinerolo nel 1898, A  scoprirla  fu la Contessa Calvi quando soggiornò a Pinerolo con il marito, ufficiale di cavalleria. Un giorno la Contessa le disse: «Bella mia (l’ha sempre chiamata così e ancora oggi le si rivolge in questo scherzoso modo) perché non va con Maman?».

«Altezza Reale», rispose la buona Rosa,  « sarei capace di servire una Regina? ».

« E che crede », le rispose la Contessa. «che Maman non abbia anche lei bisogno di una che sappia stirare a dovere, rammendare rifare i letti con cura?».

Così Rosa divenne la cameriera della Regina. Conobbe monsù Luigi Gallotti, autista della Sovrana, lo sposò, non ebbe figli, rimase vedova nel 1941. Quando la Principessa Giovanna di Savoia divenne Regina eh Bulgaria, Rosa accettò di accompagnare la nuova Sovrana in viaggio di nozze. Le rimase accanto poi per circa sei mesi finché domandò di rientrare a Roma.
Rosa potrebbe svelare non pochi segreti di Corte. Ma è estremamente riservata. Inoltre ha perduto il suo diario che aveva affidato la mattina del 9 settembre all’autista della Regina, Moneta, rimasto a Ortona, dopo la partenza dei Sovrani sulla corvetta Baionetta.

«Quel 9 maggio» , ci ha raccontato Rosa Gallotti, «colse tutti alla sprovvista, lo sapevo che saremmo partiti, che con ogni probabilità saremmo andati in Egitto. Ma non pensavo a un viaggio tanto precipitoso. La Regina (che non aveva con me segreti) mi alleva narrato con infinita tristezza che Vittorio Emanuele era stato consigliato di trasferirsi in Portogallo. Ma il Re aveva osservato, alludendo a Carlo Alberto: “Così si finirebbe di accostarmi sempre più al mio bisnonno E’ un accostamento che forse non mi giova”. Vittorio Emanuele intendeva forse riferirsi ad alcuni tentennanti atteggiamenti che erano valsi a Carlo Alberto l’aggettivo di amletico? Forse .

Perché fu scelto l’Egitto

Per il suo esilio il Re, dopo aver studiato le tabelle climatiche di vari paesi europei e africani. aveva ristretto la sua scelta a una sola nazione. Esclusa la Spagna per il regime falangista, esclusa la Svizzera per la prossimità alla frontiera italiana (che avrebbe potuto indurre quel colei a imporre limitazioni nel ricevere determinate persone e nel visitare determinati luoghi). Scartati i Paesi nordici, Vittorio Emanuele si era convinto chel’Egitto avrebbe rappresentatelo la residenza ideale. Il clima era mite il Sovrano si preoccupava moltissimo della Regina sofferente per una grave malattia agli occhi) e l’ospitalità sarebbe stata sicuramente aperta e generosa. Faruk, conosciuta l’intenzione del nostro Re, si era affrettato a scrivergli mettendo a sua disposizione il principesco palazzo Antoniadis, ad Alessandria d’Egitto. Il gesto era stato apprezzato, anche perché Faruk non aveva mancato, scrivendo, di accennare alla cordiale amicizia che aveva sempre contrassegnato i rapporti tra il padre suo, Re Fuad, e Vittorio Emanuele, nonché l’ospitalità veramente regale offerta da Umberto I al Khedivé Ismail, quando esule aveva cercato rifugio e assistenza in Italia.

«Io dunque» , ci ha detto Rosa riprendendo il filo del suo racconto, «ero una delle cinque o sei persone che erano state informate delle intenzioni del Re. E non avevo avuto esitazione alcuna. Quando la Regina mi aveva detto (come già mi aver a raccomandato la notte dell’8 Settembre 1943, prima di lasciare la Capitale): “Rosa, lei è libera di venire con noi o rientrare a Roma” io avevo risposto: “Vostra Maestà sa che io senza la mia Regina non potrei vivere. Verrò sempre e dovunque andrà Vostra Maestà”.

«Ma quando la Regina mi disse: “Rosa, tra un paio di ore partiremo, mi parve che qualcosa si spezzasse dentro di me. Anche io andavo in esilio Anch’io lasciavo forse per sempre l’Italia, i miei morti, i miei parenti, i miei adorati nipotini. Inoltre pochi giorni prima mi era stato fatto sapere da una persona addentro alle segrete cose del Ministero della Real Casa, che se io mi fossi allontanata dall’Italia sarei stata automaticamente cancellata dal personale di ruolo. Avrei cioè perduto tutto, compresa la pensione maturata in vent’anni di servizio, con la qualifica non di “cameriera della Regina  ma di “guardarobiera”.

«Quel giorno, dunque, ero tanto impensierita che non mi interessai di quello che stava succedendo attorno a me. Feci le valigie, controllai che quanto mi aveva detto la mia Regina fosse eseguito a puntino. Inoltre mi preoccupai che. nella immancabile confusione che avrebbe preceduto l’imbarco, non rimanesse Diana, la cagnetta del Re. Così Diana si imbarcò con noi, anche se i cronisti dell’epoca dimenticarono di registrarne la partenza ».

Giunse l’ora del commiato. Davanti alla Villa, nelle acque di Posillipo, attendevano l’incrociatore Duca degli Abruzzi e il cacciatorpediniere Granatiere. Due motoscafi erano attraccati al piccolo molo della villa. Cominciarono gli addii. Il viso di Vittorio Emanuele era impenetrabile. La Regina invece era commossa. Ogni tanto si asciugava una lacrima.

Un misterioso pacchetto

«Vittorio Emanuele», ci ha raccontato il dottor Michele Avalle, « si avvicinò a me e a Caratti di Lanzacco. Ci strinse la mano e formulò gli auguri per una luminosa nostra carriera militare. Più affettuosa fu la Regina. A Caratti (che, sapeva estremamente religioso)  donò il suo libro di preghiere, a me il suo occhialino che ogni tanto adoperava quando doveva osservare qualcosa da lontano. Poi mi chiamò in disparte e mi disse consegnandomi con fare misterioso un pacchetto: “C’è un po’ di cioccolato e un pacchetto di fichi secchi. Li faccia mangiare a mio figlio mentre tornerete a Roma. Ho visto che è tanto pallido, tanto magro. E mi raccomando: gli sia vicino.

«Non piansi», ricorda Avalle, «perché un militare non deve piangere. Ma se avessi potuto, se l’etichetta non me lo avesse vietato, avrei voluto buttarmi in ginocchio vicino a quella Donna che non era più Regina ma restava angosciosamente Madre. Invece mi irrigidii sull’attenti mentre rispondevo: “Sarà fatto”».

« Restammo sul molo fino a quando il Duca degli Abruzzi che trasportava in esilio Vittorio Emanuele e Elena di Savoia non sparì all’orizzonte. Poi Umberto mi disse: “Avalle, chiami il sergente Polverigiani. Partiremo subito”.

«”Va bene, Maestà”, risposi. E chiamando così quello che poche ore prima era ancora il Luogotenente feci uno sforzo con me stesso. Mi parve che anche a Umberto quell’appellativo suonasse strano o, perlomeno, infinitamente triste ».