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I Savoia nella Bufera di Giorgio Pillon

I Savoia nella Bufera. Parlano i testimoni – di Giorgio Pillon – 1958 – 11

By Aprile 6, 2020Gennaio 24th, 2022No Comments

LE DRAMMATICHE GIORNATE CHE DOVEVANO MUTARE IL DESTINO DELLA PATRIA

Vittorio Emanuele voleva abdicare il 25 luglio, ma fu da tutti sconsigliato

Togliatti latore e interprete delle istruzioni del Cremlino per l’abbattimento della monarchia

Un governo quasi esclusivamente composto da repubblicani

Le prove definitive del broglio elettorale: votarono 4 milioni in più degli iscritti

Il nostro ultimo incontro con Umberto è di data recente. Avvenne una ventina di giorni fa, il 5 settembre all’Hotel Plaza di Madrid. Più che un incontro si trattò di un vivace, simpaticissimo “scontro”. Val la pena raccontarlo non solo perché riteniamo sia giusto e sia doveroso cancellare dal ricordo dei nostri lettori l’ormai solito clichè di un Sovrano estremamente gentile con tutti, pronto a ricevere chiunque, a regalare foto con dedica, però altrettanto pronto a congedare i visitatori senza aver detto nulla d’interessante, senza essersi lasciato andare in confidenze; ma anche perché è forse la prima volta che un giornalista si trova a dover discutere con il proprio Re, in nome della verità storica e in difesa del proprio mestiere.

A scanso di equivoci dichiariamo subito che noi continuiamo a professare per il Sovrano un affetto che non conosce tentennamenti, una devozione senza limiti. Ma è in nome di questa fede che abbiamo sempre detto pane al pane, e dichiarato bianco il bianco. Chi più di noi conosce Umberto, chi gli è stato vicino per lunghi anni, assicura che egli ha una dote rara e preziosa nei governanti: è un eccellente psicologo che riesce a comprendere la sincerità e il valore di una persona dopo un breve colloquio. Ci auguriamo che sia proprio così. In tal caso noi siamo già stati assolti con formula piena.

Appuntamento a Madrid

Erano diverse settimane che noi dovevamo incontrarci con Umberto. L’appuntamento, fissato per Cascais, subì continui cambiamenti, finché l’ultimo rinvio lo spostò definitivamente per il giorno 4 settembre a Madrid. Accettammo con un lungo cablogramma che venne spedito da Roma il 4 settembre; avvertivamo però che, non essendo riusciti a trovare posto in aereo per il giorno stabilito, saremmo arrivati a Madrid il giorno 5.

Ma è destino che anche i Re siano mal serviti. I1 nostro telegramma non venne recapitato tempestivamente per cui Umberto non avendoci visti arrivare il 4 si preparò a lasciare Madrid. All’ultimo momento però il Re ebbe un dubbio: possibile che questo giornalista non si facesse vivo magari con un semplice biglietto? Così decise di attendere un altro giorno.

Fummo fortunati. Arrivammo a Madrid proprio in tempo per ottenere il tanto atteso colloquio. «Sua Maestà», ci disse subito il commendatore Olivieri che era a Madrid con il Re, « non riesce a spiegarsi lo spiacevole contrattempo. La riceverà subito». Più tardi, dopo il nostro arrivo, giunse anche il famoso telegramma che da Cascais era stato rispedito a Madrid per posta normale, dentro una comune busta affrancata come una semplice lettera.

Una sfuriata in piena regola

Comunque, il fatto che Umberto ci avesse atteso tanto a lungo, che avesse per noi rinviato una partenza. spostato impegni importantissimi, ci lusingò non poco. Ma dopo i primi convenevoli, dopo che noi gli recammo i saluti di Giovannino Guareschi, del direttore di Candido e di tutti i nostri lettori, Umberto entrò subito in argomento con estrema vivacità.
«Seguo con profonda attenzione» ci dichiarò il Sovrano. «Gli articoli “I Savoia nella bufera: parlano i testimoni”. Devo riconoscere che si tratta d’un assai serio e originale tentativo di ricostruire avvenimenti storici di eccezionale importanza. Per questo mi sembra imperdonabile una  gravissima inesattezza che ho riscontrato nel numero 35 del 31 agosto u.s. Nel vostro giornale si parla di una lettera che Giorgio VI avrebbe diretto a mio padre  per riaffermare l’appoggio della Corona inglese a Casa Savoia, nonché il desiderio che nessun mutamento dinastico si dovesse verificare in Italia.
Ebbene quella lettera esiste solo nella vostra fantasia. Proclamarne l’esistenza è lo Stesso che dichiarare: “a un certo momento Vittorio Emanuele si mise ad armeggiare di nascosto con Giorgio VI per salvare la Monarchia”.

Mio padre, invece, ha avuto solo e sempre un’unica ambizione: il bene, la prosperità dell’Italia. La Monarchia, la Famiglia, l’intero destino della nostra
dinastia passarono in secondo ordine innanzi al bene, della Patria.

A questa lunga sfuriata noi non restammo affatto con il capo chino e lo sguardo basso. Replicammo, invece, alquanto vivacemente: «Vostra Maestà ci perdoni. Smentiremo su Candido l’esistenza di questa lettera; ci permettiamo però fare notare a Vostra Maestà che questo documento non è stato inventato da noi, dal momento che ne accenna Benedetto Croce nel “Diario” e dal momento che Artieri lo esamina nel libro ” Il tempo della Regina”.

Umberto ci guardò evidentemente sorpreso. «Questa lettera non esiste», replicò. Avrebbe voluto aggiungere qualche altra osservazione ma preferì cambiare argomento, sempre mantenendo vivacissimo il tono polemico del discorso.
«Ho visto annunciato per il prossimo numero “Il diario segreto del Re”. (Sua Maestà non aveva ancora letto il nostro articolo pubblicato nel numero 37, e la lunga testimonianza del senatore Bergamini che narra come ebbe da Vittorio Emanuele il permesso di leggere il diario del Sovrano). «Come fate a dire», proseguì Umberto: «Sono mille pagine con giudizi favorevoli su, Mussolini, Ciano, Cavallero e Grandi ed estremamente duri per Badoglio, De Gasperi e Sforza?». Chi le ha detto simili “bestialità”? Chi le ha parlato di questo diario? E poi, perché segreto? Nessuno lo ha visto, è vero. Ma lo sa perché? Il diario non esiste. Esistono, è vero, carte, appunti lasciati da mio padre ma non un “diario”, non un “memoriale”, non, insomma, un lavoro organico come lei lascia intendere.

La testimonianza di Bergamini

Questa volta sorridemmo. Perché ci venne alla memoria una lettera di Vittorio Emanuele (Candido l’ha riprodotta nel numero 37) con la quale l’ex Sovrano, ormai in esilio, smentisce categoricamente di aver scritto un diario o aver dettato “memorie”, dimenticando di proposito di aver mostrato un lungo memoriale al senatore Bergamini che in cinque ore riuscì a leggerne meno della metà (vedi il racconto del senatore Bergamini pubblicato sul nostro giornale nel numero 37). Ma soprattutto ricorderanno una frase di Pio XI: « I re e i papi possono dire bugie “diplomatiche” a loro piacere: non commettono neppure peccato veniale». Pio XI disse questa boutade quando, a proposito delle trattative in corso tra Mussolini e il Cardinale Gasparri per il Concordato gli fu fatto osservare che proprio lui, il Papa, aveva smentito l’esistenza di simili contatti con l’ambasciatore di Francia.
Non staremo a distrarre i lettori raccontando la lunga schermaglia da noi sostenuta quel giorno. Anche perché Umberto, sceso ormai in polemica con noi a spada tratta ci narrò poi episodi di eccezionale importanza. Un giorno  forse potremo liberamente raccontarli. Ma per il momento riteniamo di dover tacere. Su di un punto però non siamo disposti a rimanere con le labbra serrate. E confermiamo esplicitamente quanto pubblicammo su Candido a proposito delle carte lasciate da Vittorio Emanuele. Si tratta di due distinti “blocchi”. Uno contiene il diario propriamente detto (un rapido annotare di avvenimenti, senza alcun commento), l’altro è formato da centinaia di fogli formato protocollo: è il lungo memoriale che fu in parte letto dal senatore Bergamini. Umberto però ritiene – per motivi che noi assolutamente ignoriamo – che non sia giunto ancora il momento di dare alle stampe il diario e il memoriale.
I preziosi documenti resteranno dunque segreti chissà per quanti anni ancora.
Ma noi eravamo andati in Spagna non certo per sostenere una polemica con il nostro Re. Avevamo fatto il viaggio perché la serie di articoli che si intitola “I Savoia nella bufera: parlano i testimoni” non poteva dirsi completa se fosse mancata la più sicura, la più illustre di tutte le testimonianze: quella appunto dell’ultimo Sovrano d’Italia.

Dal 9 maggio al 13 giugno

E dalla viva voce di Umberto apprendemmo il resoconto delle drammatiche giornate che dovevano mutare i destini della Patria, quelle che vanno dal 9 maggio 1946 (abdicazione di Vittorio Emanuele III e assunzione al trono di Umberto II) al 13 giugno (partenza di Umberto da Ciampino).
«Furono giorni tremendi, tempestosi», ci ha detto il Sovrano ricordando con noi alcuni episodi significativi, oggi purtroppo dimenticati da molti, persino da coloro che seguitano a considerare la Monarchia come la nostra unica ancora di salvezza.

 A questo punto apriamo una parentesi. Prima di continuare a narrare il nostro colloquio con il Re, riteniamo necessario tornare con la memoria al 1946, quando la lotta tra Corona e Governo (già in atto dal 5 giugno 1944 allorché il Principe di Piemonte venne nominato Luogotenente del Re) si scatenò ancora più apertamente non appena si diffuse la notizia della abdicazione di Vittorio Emanuele. Era, purtroppo un’abdicazione alquanto tardiva che aveva dato luogo all’equivoco della Luogotenenza, aveva permesso cioè che in Italia seguitasse a rimanere un Re che ormai non regnava più, e si installasse in Quirinale un Principe Ereditario che aveva le mani doppiamente legate suo malgrado: con il padre e con il Governo, i cui ministri consideravano il Luogotenente come il rappresentante non della Corona (non cioè “Luogotenente del Re”) bensì del Regno.

Molti hanno accusato Vittorio Emanuele, di essere stato sempre ostinatamente geloso dei trono, di non aver voluto abdicare il 25 luglio 1943, quando Mussolini venne deposto. Oggi dopo che sono stati pubblicati documenti e libri risulta chiaro che Vittorio Emanuele prese in esame la possibilità di lasciare il trono subito dopo l’arresto di Mussolini. L’ambasciatore Guariglia ci ha raccontato (citiamo su questo argomento a mo’ di esempio un solo testimone tra i più autorevoli per essere stato ministro degli Esteri con Badoglio): ” Un giorno (non ricordo bene la data precisa ma fu certo verso i primi giorni d’agosto) il Re mi disse spontaneamente: Sono pronto ad abdicare in qualsiasi momento se ciò servirà a facilitare le trattative ora corso con gli Alleati e la conseguente uscita dell’Italia dalla guerra nel miglior modo possibile. Lei, signor ministro che ne pensa? Risposi (è sempre Guariglia che parla) che io ero di parere contrario, Abdicando in quel momento il Re avrebbe accettato delle responsabilità che non erano sue, avrebbe dato l’impressione al Paese di non sentirsi in grado di condurre a termine l’opera di salvataggio che aveva iniziato con la defenestrazione di Mussolini, avrebbe infine rischiato di interrompere quella continuità della sovranità italiana che egli aveva il supremo dovere di garantire, proprio quando più difficile, anzi tragica era la situazione in Italia.

L’abdicazione del Re (concluse Guariglia) non avrebbe migliorata tale situazione nei riguardi degli Alleati, né l’avrebbe migliorata in seguito, come purtroppo gli avvenimenti hanno chiaramente dimostrato. Ma il Re in quei giorni non si limitò solo a sentire il parere del suo ministro degli Esteri. Rivolse identiche domande a Badoglio, ad Acquarone, a Orlando e a molti altri. Tutti furono concordi nel ritenere l’abdicazione inutile, intempestiva, dannosa anzi per il bene della Patria.

Un segreto note a tre solo persone

Così il Re non abdicò. Più tardi il Sovrano si irrigidì nel suo atteggiamento non per mera cocciutaggine, non per senile ostinazione, ma per un motivo noto forse a non più di tre persone, al Luogotenente, all’ammiraglio Stone e al duca Acquarone.
Togliatti (rientrato in Italia con il beneplacito degli Alleati) aveva ricevuto da Mosca istruzioni segrete per dare lo sgambetto alla Monarchia. Il modo era tutt’altro che ingenuo. Bisognava: 1) ottenere l’abdicazione di Vittorio Emanuele a favore del figlio, promettendo ogni appoggio del partito comunista; 2) una volta proclamato Re Umberto, affidare a un partito francamente repubblicano (il partito d’azione) una manovra che sostenesse la nullità della successione al trono, giacché a norma dello Statuto il Re è tale quando ha giurato dinanzi alle due Camere. Poiché le due Camere non esistevano, occorreva (così si suggeriva da Mosca) « accantonare il Sovrano – in attesa della fine della guerra, delle elezioni generali politiche, del referendum istituzionale. Intanto una giunta al Governo, formata dalla coalizione antifascista, condotta dal PCI, avrebbe assunto i poteri, dirigendo il Paese verso una trasformazione sovietizzante»

Queste istruzioni segrete ricevute da Togliatti (il Re ne ebbe tempestivamente una copia dall’ammiraglio Stone, il quale, a sua volta, l’aveva avuta dal controspionaggio americano), spinsero Vittorio Emanuele a «tenere duro», mentre uomini politici come Croce, Sforza, Badoglio continuavano a chiedergli a gran voce di abdicare, di lasciare l’Italia, di andarsene.
Perché si decise ad abdicare nel maggio del ’46? Pochi lo hanno spiegato con chiarezza. Un argomento di stretto carattere giuridico pesò in particolare su questa grave determinazione. Il 16 marzo 1946 (si noti la data: meno di due mesi prima dell’abdicazione) Umberto di Savoia, Principe di Piemonte, Luogotenente Generale del Regno (leggiamo nel testo del decreto) sanzionò e promulgò la legge sul referendum. All’ultimo capoverso del l’articolo 2, si legge: Qualora la maggioranza degli elettori votanti si pronunci a favore della Monarchia, continuerà l’attuale regime luogotenenziale, fino all’entrata in vigore delle deliberazioni dell’Assemblea sulla nuova Costituzione e sul Capo dello Stato ». Che voleva dire ciò? Per Umberto: «L’Assemblea apporterà modifiche allo Statuto Albertino, come esigono i tempi mutati».

Lo smemorato “Times”

Ben diverso significato avevano quelle parole per i repubblicani «L’Assemblea può disporre a suo piacere della Corona, magari affidandola a persona di altra dinastia o a un reggente completamente estraneo ».
Occorreva staccare questa « spada di Damocle ». Per uscire dall’equivoco non c’era che una soluzione: trasformare il Principe Ereditario da Luogotenente in Re. In tal modo si sarebbero strappate agli oppositori altre « armi »: si sarebbe tolta la Monarchia dalla quarantena, si sarebbe liberato Umberto da ogni , paralisi », si sarebbe allontanato dal trono un Sovrano che non vi sedeva più, un Re sul quale era stato fino allora estremamente facile concentrare il fuoco delle accuse.

Ecco perché le sinistre, subito dopo l’annuncio dell’abdicazione e della partenza di Vittorio Emanuele per l’esilio, gridarono al colpo di Stato. In realtà nulla di simile era successo poiché secondo la Costituzione il Re poteva abdicare in qualunque momento soltanto pronunciando le parole « Io abdico».

Gli inglesi parvero fare il gioco dei comunisti italiani, perché sull’autorevole Times si parlò subito di « ingloriosa fine di un Sovrano vecchio e screditato, di un Luogotenente che , assumeva un titolo privo di significato». Il Times, dimenticando la storia della propria Monarchia, concludeva aspramente: Nelle dinastie i peccati dei padri ricadono sui figli ».

Su l’Unità Togliatti echeggiò: «Abbiamo cacciato Vittorio Emanuele. La nomina di Umberto a re è illegittima». Il «migliore» , aveva pubblicato l’articolo di fondo pronto da molti mesi, come Mosca aveva ordinato. Per il momento, però, la manovra era destinata a fallire.

Il vero tesoro

Invece ebbero successo altre insinuazioni, subito raccolte da quasi tutta la stampa dell’epoca: «Vittorio Emanuele era partito per l’esilio portandosi dietro casse di argenteria, quadri di valore e tutti i gioielli della Corona» (per la storia di questi gioielli vedi il numero 29 di Candido). I preziosi erano contenuti in una cassettá che era stata portata sul l’incrociatore Duca degli Abruzzi dal Conte Calvi di Bergolo.
Il particolare della cassetta era vero. Ma chi l’avesse aperta non vi avrebbe trovato gioielli, bensì una vecchia bandiera, piegata con estrema cura: il tricolore che Vittorio Emanuele aveva sempre tenuto con sé, il tricolore che aveva sventolato a Trento e a Trieste e che era destinato ad avvolgere, diciotto mesi più tardi, la bara del Sovrano.

A smentire il Times, a rendere ridicolo lo scritto di Togliatti su l’Unità bastò un solo avvenimento: la spontanea manifestazione popolare che il 10 maggio raccolse in piazza del Quirinale migliaia e migliaia di romani. Il nuovo Re, la Regina Maria Josè e i principini apparvero più volte al balcone (sul quale venne distesa per la prima volta, in luogo del tradizionale tappeto rosso, una grande bandiera con lo stemma sabaudo). Fu una manifestazione travolgente.

Pochi giorni dopo il Re, cedendo alle insistenze dei suoi collaboratori, iniziò una serie di «Incontri con gli italiani» che impressionarono e allarmarono ancora di più quasi tutti i membri del Governo. Umberto era stato decisamente restio a compiere quello che gli avversari definirono subito «uno sfacciato giro di propaganda elettorale». «Io sono il Re. Non sono un candidato politico», ripeteva ad ogni insistenza di Falcone Lucifero. suo ministro della Real Casa.

Tuttavia Umberto comprese alla fine che non avrebbe potuto estraniarsi completamente dalla lotta, anche perché il farlo avrebbe forse potuto sembrare un gesto di indifferenza nei riguardi del popolo. E così cedette. Il 18 Maggio, perciò, si recò in Sardegna dove una tremenda invasione di cavallette aveva portato devastazione e miseria. L’accoglienza fu al di sopra di ogni ottimistica previsione: dovunque, da Cagliari a Sassari e in tutte le località intermedie tra i due capoluoghi, entusiasmo indescrivibile, dovunque scene commoventi di devozione e di attaccamento. Lo stesso accadde nei giorni seguenti a Napoli, in Sicilia, a Reggio Calabria.

In questa ultima città, Umberto fu addirittura portato in trionfo; la folla se lo contese accanitamente. Uscì dalla mischia (che di vera e propria mischia occorre parlare) con la camicia letteralmente a brandelli. Falcone Lucifero, ministro della Real Casa (che era stato il fautore di tutti questi « incontri » e accompagnò sempre il Sovrano) fu costretto a notte tarda a cercare un camiciaio. Ma il commerciante era a letto. Però quando seppe che il cliente notturno era il Re, si precipitò giù in pigiama e in pantofole, aprì il negozio. buttò all’aria scatole e scatoloni, cerco la camicia migliore e la consegnò. Lucifero dovette insistere vivacemente per pagarla, giacché il rivenditore si intestardiva a dire: « Non voglio un soldo. Il mio Re è il padrone di tutto… ».

Umberto in trionfo

L’entusiasmo con il quale Sardi, Siciliani, Napoletani e Calabresi avevano accolto il nuovo Re risollevò enormemente il morale dei monarchici più pessimisti. E, naturalmente, impressionò De Gasperi, Romita, Nenni, Togliatti. Anche dal nord giungevano per i repubblicani notizie non troppo rassicuranti. Se le grandi città erano repubblicane le campagne erano monarchiche. Ma allora non sarebbe stato più opportuno rinviare la data del referendum?

Togliatti e Nenni ne parlarono a De Gasperi. Bisognava in tutti i modi « bloccare Umberto», intensificare la campagna repubblicana nel sud e intanto prendere tempo. Parrà strano ma questo era (per altri motivi) anche il pensiero dei più fidati consiglieri di Umberto. Un rinvio del referendum – sostenevano Falcone Lucifero, Enzo Selvaggi, Carlo Scialoja, per nominare solo tre fra i più autorevoli consiglieri del Re – avrebbe sicuramente rasserenato gli animi, diradato la paura, schiarito le idee. Forse nel frattempo avrebbe anche potuto verificarsi una crisi nel gabinetto De Gasperi. Il Sovrano, allora, avrebbe potuto giocare un’altra carta: far includere nel Governo qualche ministro che non fosse decisamente repubblicano come invece lo erano quelli che Umberto era stato costretto ad accettare.

Quando nacque la Repubblica

La Repubblica, infatti, non nacque con il referendum del 2 giugno 1946 ma l’11 dicembre 1945, quando Alcide De Gasperi presentò al Luogotenente la lista dei nuovi ministri. Val la pena rileggerla. Comprendeva tre socialisti (Nenni, vice presidente e ministro per la Costituente; Romita, ministro degli Interni, Barbareschi, ministro del Lavoro), tre comunisti (Togliatti, guardasigilli, Scoccimarro alle Finanze, Gallo all’Agricoltura), tre del partito d’azione (Lusso, Lombardi, La Malfa), tre democristiani, (De Gasperi, Gronchi e Scelba), tre demolaboristi (Molè, Gasparotto e Cevolotto), due liberali (Corbino e Brosio).

Ebbene, con questi nomi, con queste persone, poteva mai la Monarchia vincere?  Bisognava proprio essere dei sempliciotti per credere a Romita il quale assicurava parlando in Quirinale con qualche fedele collaboratore di Umberto, « La consultazione popolare sarà assolutamente libera, assolutamente indipendente »; mentre poi proclamava nelle piazze d’Italia: «O la Repubblica o il caos!» Oppure:  Nessuno in Italia potrebbe impedire la rivoluzione nel caso che il referendum fosse favorevole alla Monarchia! .

Dunque se tutti, repubblicani e monarchici, volevano un rinvio perché il referendum si fece il 2 giugno? La risposta e abbastanza semplice. Quando De Gasperi propose di spostare il referendum chiese che fosse mantenuto il 2 giugno come data per la consultazione popolare sulla Costituente. Era una manovra subdola, come fece notare a Umberto il ministro Falcone Lucifero, dopo aver sentito i pareri di Orlando, Bonomi, Nitti, Scialoja, Visconti Venosta e altri. La Costituente sarebbe stata monarchica o repubblicana? Il buon senso avvertiva che sarebbe stata in gran parte repubblicana. E allora non si sarebbe potuto verificare il caso di una Costituente che dichiarava decaduto il Re? Il pericolo era gravissimo. Bisognava perciò spostare la data e per il referendum e per la Costituente.

Umberto conferma: ci fu la frode

Ma De Gasperi non accettò questo punto di vista del Sovrano. Romita (che era sempre stato contrario a qualsiasi cambiamento) disse vivacemente: “O la Repubblica la facciamo ora o mai più. Non lasciatevi impressionare dalle manifestazioni di Roma, di Napoli, di Reggio Calabria. Il nord è in gran parte repubblicano. Mussolini è stato per noi il migliore agente di propaganda. Diciotto mesi di Repubblica di Salò hanno sepolto definitivamente la Monarchia .

Così gli italiani si recarono a votare il 2 giugno.  E fu una data fatale per noi. ci ha detto Umberto. Approfittammo di questa aperta confessione per domandare al Sovrano: Vostra Maestà conferma dunque l’inganno.

La risposta di Umberto fu chiarissima: «Partendo, io lanciai un proclama, agli italiani. Lei lo ricorda? Diceva, tra l’altro: Sento il dovere, come italiano e come Re, di elevare la mia protesta contro la violenza che si è compiuta: protesta nel nome della Corona e di tutto il popolo, entro e fuori i confini… Poco prima, sempre nel proclama del 13 giugno 1946. ero stato ancora più esplicito: Non volendo opporre la forza al sopruso, né rendermi complice dell’illegalità che il Governo ha commesso, lascio il suolo del mio Paese, nella speranza di scongiurare agli italiani nuovi lutti e nuovi dolori. «Ebbene», concluse Umberto con un tono fortemente polemico, «a dodici anni di distanza da quelle roventi giornate confermo in pieno quel proclama».

Sua Maestà non ha una ma mille ragioni per parlare così. Le illegalità, i soprusi commessi dal Governo dell’epoca risultano oggi, anche per le prove che in seguito non pochi fedeli monarchici sono andati raccogliendo.

Una strana teoria di Romita

Parlando con il generale Adolfo Infante, primo aiutante di campo generale di Umberto, Romita osservò: « Ha fatto benissimo il Re a promettere un nuovo referendum. La Repubblica può reggersi anche con un solo voto di maggioranza, ma la Monarchia ha bisogno di centinaia di migliaia di voti in più ».

Infante non rispose anche perché Romita aveva dichiarato il vero ma per motivi non certo leali: i repubblicani erano pronti a trasformare il referendum in una guerra civile mentre questo non era di certo il desiderio del Re. D’altronde alla Consulta l’onorevole Sereni, comunista, aveva dichiarato testualmente: «Se per lontana ipotesi la Monarchia dovesse prevalere per scarsa maggioranza si avrebbe la guerra civile». Il che in altre parole significava né più né meno che quello che era stato detto a Bologna in un comizio: «Se la Monarchia vincerà andremo noi comunisti dal signor Umberto e lo prenderemo a pedate».

Questo fu il clima di  libertà democratica » che caratterizzò la giornata del 2 giugno. Non staremo a ripetere quanto altri hanno detto e dimostrato circa le schede non pervenute o ripetute. Nel ristretto ambito della Reggia, per esempio, si erano verificate bizzarre irregolarità circa l’invio dei certificati elettorali. Umberto e la Regina ne avevano ricevuto due ciascuno.
Un altro era pervenuto per la principessa Mafalda, da tempo deceduta in un campo di concentramento tedesco. Venne telefonato a Romita (e a farlo fu il generale Infante). Caro generale », rispose Romita, « questo le dimostra la regolarità del referendum: noi repubblicani non abbiamo alcun timore: prova ne sono i quattro certificati elettorali di Umberto e di Maria José».

«Può essere vero», rispose Infante,  «ma io mi permetto di farle notare che personalmente non ho ancora ricevuto alcun certificato». «Provvederò subito », rispose secco Romita. Poche ore dopo Infante si vide portare non uno ma tre certificati: era stato inserito in tre liste aggiunte!

Quanti italiani avrebbero votato? L’Istituto Centrale di Statistica calcolò che la popolazione italiana residente, valevole agli effetti elettorali, fosse al 31 dicembre 1945, quarantatre milioni, escluse le province di Bolzano e la Venezia Giulia. Le stesse statistiche rivelarono che i cittadini aventi diritto al voto costituivano il 60 per cento della popolazione. Pertanto i presumibili elettori erano, al 31 dicembre 1945. circa 25.800.000.

Il gioco dei bussolotti

Da questa cifra però dovevano essere defalcati: i sottoposti a epurazione, i morti nel frattempo, gli ufficiali che prestavano servizio nei campi di concentramento, i prigionieri di guerra non ancora rimpatriati, gli sfollati non iscritti, gli abitanti delle colonie.

Un totale di circa 1 milione e 800 mila persone. Facciamo un piccolo calcolo. I Vottanti avrebbero dovuto esser 25.800.000 meno un milione e 800 mila. Avrebbero dovuto essere circa 24 milioni. Invece furono effettivamente molto meno perché negli uffici elettorali (la cifra è ufficiale) rimasero giacenti quasi tre milioni di certificati (solo a Roma furono 250 mila). Dunque gli elettori che si recarono a votare non furono più di 21 milioni.
Come fu che dalle urne uscirono 25 milioni di schede? I casi sono due, osserva Mario Viana nel suo libro La Monarchia e il Fascismo: o furono introdotte furtivamente quattro milioni di schede nella notte sul 5 giugno (una strana notte come racconteremo nella nostra prossima puntata) oppure 4 milioni di persone votarono per interposta persona, la quale votò anche senza documenti, facendosi riconoscere da scrutatori amici, in pieno accordo con i componenti i seggi che in
molti comuni, specie dell’Italia settentrionale, erano composti esclusivamente da repubblicani o da persone intimorite dal terrore rosso.
Mario Viana esclude una terza ipotesi che noi, invece, vogliamo segnalare. Gli uomini dell’Ufficio Centrale di Statistica che fecero a suo tempo i calcoli sulla popolazione italiana erano degli incompetenti, degli idioti che sbagliarono il conteggio di ben quattro milioni di votanti.
Comunque i primi a esserne sorpresi, conosciuti i risultati, furono forse Togliatti e De Gasperi. Dimenticarono di proposito d’aver accettato per buoni i dati forniti dall’Istituto Centrale di Statistica nel corso di alcune dichiarazioni rese a corrispondenti italiani e stranieri, quando essi affermarono che i votanti sarebbero stati circa 24 milioni. Fecero marcia indietro e si affrettarono a comunicare che l’afflusso alle urne era stato dell’89 per cento calcolato su un totale di 28 milioni di elettori iscritti.
Tanta disinvoltura era stata superata da Romita la notte delle sorprese», il 5 giugno, quando una brusca, incomprensibile sterzata rovesciò la situazione delle cifre portando di colpo la Repubblica a un incolmabile vantaggio.