Skip to main content
I Savoia nella Bufera di Giorgio Pillon

I Savoia nella Bufera. Parlano i testimoni – di Giorgio Pillon – 1958 – 12

By Aprile 5, 2020Gennaio 24th, 2022No Comments

LA REPUBBLICA NATA DA UN COLPO DI STATO


I retroscena dei referendum costituzionale: dalla prevalenza monarchica a quella repubblicana nel giro di poche ore

Minacciato l’intervento armato dei titini e dei comunisti

Il popolo napoletano tenta d’impedire l’imbarco per il Portogallo della Regina e dei Principi

Pressioni sui magistrati

L’ultima notte di regno rievocata da Umberto

L’integerrimo presidente della Cassazione, Giuseppe Pagano, ci dice che vi furono “non poche irregolarità” e che la legge per il referendum era “assurda”

“Che grande Re” disse De Gasperi accomiatandosi

Il consiglio dei ministri proclama la repubblica prima della deliberazione della Magistratura

L’ultima notte di regno rievocata da Umberto

«Già, quella strana notte sul cinque giugno… ». Umberto si interrompe e scuote la testa, poi continua: « Fu una notte indubbiamente singolare, sotto certi aspetti assolutamente inspiegabile… ».

Forse il Re vorrebbe dire di più ma si trattiene. Ciò che avvenne tra il quattro e il cinque giugno 1946, quando si passò da una sicura vittoria della Monarchia a una altrettanto certa e purtroppo definitiva sconfitta, resta avvolto nel mistero. Forse un giorno sarà non solo possibile narrare la vera storia segreta di quelle drammatiche ore ma anche documentare con prove sicure ciò che tutti sanno: il referendum del 2 giugno non fu sfavorevole a Umberto. Lo divenne due giorni dopo quando le cifre – in virtù delle «calcolatrici» di Romita – subirono spostamenti, alterazioni che di colpo permisero ai repubblicani un vantaggio incolmabile.

La verità storica trionferà

Umberto preferisce tacere su questo argomento. Sa che il tempo lavora per lui, che la verità storica finirà coi trionfare. D’altronde noi, chiedendo di essere ricevuti dal Sovrano, non volevamo porre sul tappeto una questione tanto grave, ma cogliere gli aspetti intimi, umani della tragedia che tolse all’Italia la più antica e la più gloriosa Monarchia d’Europa.

L’incontro (come già abbiamo narrato nel numero precedente) avvenne a Madrid all’Hotel Palace qualche settimana fa. Trovammo Sua Maestà estremamente vivace, energico, pronto a rispondere a tutte le nostre domande, senza quella costante circospezione che di solito accompagna le interviste quando chi le concede è un sovrano, solito a veder falsato il suo pensiero o a scoprire più tardi che a certe frasi viene data una interpretazione assolutamente arbitraria.

Prima però di narrare quanto Umberto ci disse, è necessario riandare con la memoria alle giornate del referendum. Ci sarebbe difficile, per non dire impossibile, «inquadrare» le risposte del Sovrano senza rievocare episodi poco noti o addirittura dimenticati.

Dunque il 2 giugno gli italiani si recarono alle urne. Si votò per il referendum istituzionale e per le elezioni all’Assemblea Costituente. Le operazioni si conclusero il giorno dopo ed immediatamente ebbero inizio gli scrutini. I primi spogli riservarono a De Gasperi, Romita, Togliatti e Nenni grosse sorprese. La Monarchia era in testa.
Il quattro a mattina la prevalenza della Monarchia era netta. La maggioranza risultò di oltre 700 mila voti.

Umberto commentò con il ministro della Real Casa Falcone Lucifero: «Ho l’impressione che si stia attuando l’ipotesi prevista nel messaggio agli Italiani rivolto da Genova. Offrirò dunque a breve scadenza il secondo referendum ».

Una promessa del Sovrano

Sua Maestà si riferiva a una precisa promessa che egli aveva fatto il 31 maggio: in caso di riaffermazione dell’Istituto Monarchico, un nuovo referendum sarebbe stato indetto perché tutti i cittadini, anche quelli dei territori di frontiera, esclusi dal diritto di voto il 2 giugno, nonché i prigionieri di guerra, potessero partecipare alla scelta della forma istituzionale che avrebbero guidato l’Italia.

Ma Umberto era forse troppo fiducioso. Credeva veramente che il conteggio dei voti seguitasse ad essere fatto al Viminale con correttezza. Qualcuno gli aveva riferito questo episodio. Un generale si era trovato nel pomeriggio del 4 giugno da Brosio, ministro della Guerra. Era stato così involontariamente testimone di questa telefonata: «   Brosio:  Ciao, Romita. Sì, dimmi… Come? Molto male? Possibile?..» Una breve pausa; poco dopo: «Ma insomma, non c’è più nulla da fare? ».

Un episodio analogo ebbe come testimone Raffaele Paolucci di Valmaggiore. Il compianto chirurgo era il 4 giugno in casa di V. E. Orlando, quando squillò il telefono. Dalle prime battute Paolucci comprese che chi aveva chiamato il «presidente della Vittoria» era Romita, il ministro degli Interni informava che la Monarchia era in vantaggio.

Queste notizie, recate subito a Umberto, portarono in Quirinale una ventata di ottimismo. Verso il crepuscolo però, in mezzo alla valanga di informazioni sul referendum, giunse anche questa gravissima comunicazione, proveniente dal servizio di controspionaggio: «Vistosi movimenti di truppe iugoslave lungo la linea Morgan. Forte preoccupazione negli ambienti militari alleati». Fu allora chiarissimo che «l’altra parte» era passata alla controffensiva. Un vero e proprio ricatto si profilava. La Monarchia poteva affidarsi ai voti: c’era però chi si fidava di più delle armi straniere.

Poco dopo in un successivo dispaccio si tornò a palesare non solo la minaccia di un intervento armato ma anche quella di un improvviso scoppio di guerra civile. Questa volta l’informazione veniva da fonte riservata: «Si calcola che i comunisti dispongano di 75 mila uomini armati di tutto punto. Tale forza è in agitazione». I due messaggi furono fatalmente posti in rapporto. Non era il caso di farsi illusioni.

Rovescio delle posizioni

Era scesa la sera. Da tutta l’Italia seguitavano ad affluire i risultati delle votazioni. Quasi dovunque la Monarchia si manteneva in prevalenza. Tutto lasciava credere che il successo si sarebbe mantenuto e consolidato. All’improvviso dal Viminale non vennero più comunicati i risultati parziali. Voci tutt’altro che assurde cominciarono a circolare negli ambienti responsabili. Qualche comunicazione telefonica venne intercettata: «Nenni e Togliatti stavano impartendo ordini per uno sciopero generale: il successo della Monarchia sarebbe stato schiacciato da moti di piazza».

Verso le undici di sera il generale Adolfo Infante, primo aiutante di campo generale del Re, è chiamato al telefono. Gli desidera parlare mister Chinigo, direttore della sede di Roma dell’International News Service, una tra le più grandi agenzie di informazione della capitale. Mister Chinigo è il primo a recare alla Reggia notizie precise: Secondo indiscrezioni di fonte Viminale nelle ultime ore si sarebbe verificata una fortissima maggioranza repubblicana. Poiché Infante stenta a credervi, Chinigo documenta l’affermazione con la cifra di due milioni circa. «E’ un assurdo, inspiegabile rovesciamento di fronte! », esclama Infante con linguaggio militare.

A sua volta il ministro Falcone Lucifero riceve una comunicazione ufficiosa, personalmente da De Gasperi. Con voce non priva di inflessioni patetiche il presidente del Consiglio dice:  «Sono il primo ad essere sorpreso. La situazione è mutata. Occorre un attento esame della situazione..» E chiede per l’indomani una udienza.

Intanto in via Milano, nella tipografia che stampa il giornale monarchico «Italia Nuova» – diretto da Enzo Selvaggi – avviene qualcosa di estremamente significativo. Qualcuno informa Selvaggi del rovesciamento di fronte». I giornali di sinistra: l’«Unità», l’«Avanti», l’«Italia Libera», stanno rifacendo la prima pagina, cambiando i titoli in modo da dare con estremo rilievo l’annuncio della vittoria della repubblica. Selvaggi domanda: «Ma le cifre sono ufficiali?». Gli si risponde di no. La manovra delle sinistre è ormai chiarissima: si vuole mettere la Nazione di fronte al fatto compiuto. Prima ancora che la Cassazione si pronunci si vuol annunciare la vittoria repubblicana.

Selvaggi (sono le quattro del mattino del giorno 5 giugno) afferra il telefono e chiama a casa Romita. Dopo avergli esposto in termini vibrati i primi motivi che lo hanno spinto al passo conclude: «Un patto legava tutti i giornali: nessuno avrebbe pubblicato conclusioni di sorta prima delle cifre ufficiali». Romita risponde: «Si calmi Selvaggi. E’ giusto: bisogna attenersi ai risultati ufficiali. Ora provvedo».

All’alba dal Ministero degli Interni viene diramato questo comunicato ufficiale: «I dati e le cifre pubblicate dalla stampa circa l’esito del referendum non sono quelli ufficiali e non sono quindi attendibili. Il Ministero degli Interni si riserva di diramare un comunicato in merito appena i dati stessi avranno una certa coesistenza». Ma per le, vie, della capitale già i primi strilloni annunciano: « La Repubblica ha vinto! Umberto lascia Roma!».

De Gasperi al Quirinale

Alle 10,30 del mattino una lunga macchina nera, lugubre, fa il suo ingresso nel cortile del Quirinale. De Gasperi che viene ad annunciare la strana, improvvisa vittoria della Repubblica. Nell’anticamera si incontra con il ministro Falcone Lucifero col quale ha un vivace colloquio. Poi entra nel Gabinetto del Re, ove si svolge un colloquio freddo ma corretto. Il Re prende atto delle cifre non ufficiali comunicate da De Gasperi. Però dichiara subito che egli si atterrà solo ed esclusivamente alle cifre che la Corte di Cassazione pubblicherà. La Corona non si affida al Governo, cioè all’altra parte in causa, bensì si affida alla Corte di Cassazione.

De Gasperi promette: «Subito dopo la proclamazione ufficiale verrò da Vostra Maestà, accompagnato dal Presidente della Corte di Cassazione, S. E. Pagano. per la comunicazione del caso. Sarà mio dovere accompagnare Vostra Maestà al luogo che avrà stabilito per la partenza».

Insomma al Re che se ne va ponti d’oro! Tanto più che Umberto promette a De Gasperi: «Intendo sciogliere dal giuramento alla Corona tutti coloro che lo hanno prestato. Quanti hanno creduto fino ad ora nella Monarchia devono essere i primi a dare esempio di concordia e di buona volontà. Intanto come segno del mio proposito oggi stesso i componenti della Famiglia lasceranno il Paese. La Regina e i Principi si recheranno a Napoli per imbarcarsi subito; andranno in Portogallo».

De Gasperi esce dal colloquio vivamente commosso. Nell’anticamera incontra Bergamini, Nitti e Orlando che attendono alla loro volta di essere ricevuti. De Gasperi allarga le braccia in un gesto evangelico, quasi voglia abbracciare tutti ed esclama: «Che brav’uomo! Che grande Re!». E va via leggero come una libellula.

Bergamini, ricordando con noi quell’incontro osservò la scorsa settimana: «Queste parole le dovrebbero tenere presente i democristiani soprattutto coloro che studiano la mistica degasperiana: il loro leader ebbe, o finse di avere fino all’ultimo, la massima deferenza, la più viva ammirazione per il Re e per l’Istituto Monarchico!»:

Uscito De Gasperi, Umberto chiamò il generale Infante. «Oggi stesso», disse il Re «la Regina e i Principi lasceranno Roma. Si imbarcheranno a Napoli sul Duca degli Abruzzi. Predisponga  ogni cosa».

Maria José non voleva partire

Infante avrebbe desiderato rimanere a Roma. Egli era ossessionato dall’idea  che qualcuno potesse compire un atto di forza contro il Sovrano. Aveva disposto che alcune autoblindo fossero sempre pronte a parare qualsiasi minaccia. Ma aveva energicamente rifiutato alcuni reparti armati che Romita avrebbe voluto mettere a disposizione del Quirinale. Era meglio non fidarsi di simili offerte.
La missione, ci ha raccontato il generale Infante, attualmente nella riserva e direttore di un importante complesso industriale italo-americano, « fu tutt’altro che semplice. La Regina appena giunta a Napoli, a Villa Maria Pia, mi dichiarò che non sarebbe più partita: «Il nostro»disse con energia Maria José, «potrebbe un giorno essere interpretato come una fuga. Meglio e attendere i risultati ufficiali. Per andate in esilio c’è sempre tempo».

«Io allora (è Infante che racconta) mi attaccai al telefono e chiesi di parlare con il Quirinale. Però il Re non volle accettare spostamenti “Mi dispiace”, disse il Sovrano. “Ho dato la mia parola a De Gasperi che la Regina e i Principi sarebbero partiti domani”».

Ma Umberto e il generale Infante  non avevano fatto i conti con il cuore dei napoletani. Quando si seppe che la Regina e i Principini sarebbero partiti per il Portogallo ci fu in città una specie di sommossa. Immediatamente si formarono capannelli di persone che commentavano aspramente: «La Regina non deve lasciate Napoli! , La Regina ed i Principini devono rimanere con noi!». Fu necessario imbarcare i Reali alle cinque del mattino. I bimbi, una volta a bordo dell’incrociatore, non tardarono a distrarsi, specialmente Vittorio Emanuele che malgrado avesse solo nove anni mostrava una spietata passione per le macchine e per tutti gli strani arnesi che poteva osservare a bordo. Il comandante Rossi fece firmare l’album di bordo agli ospiti La Regina scrisse semplicemente Maria con la data; Maria Gabriella fece prima le righe per non scrivere storto poi appese il suo nome in lettere tonde, grandi pulite.


Intanto, secondo volontà del Re anche gli altri componenti della Casa lasciavano l’Italia. Partirono in aereo per Bruxelles il vecchio Conte di Torno, Anna di Guisa duchessa d’Aosta vedova di Amedeo (morto prigioniero a Nairobi), l’attuale duchessa Irene con il marito Aimone, i duchi di Bergamo e di Pistoia si diressero invece verso la Svizzera in treno. Una sola Altezza Reale ottenne da Umberto di non muoversi Elena di Francia duchessa d’Aosta Madre. La duchessa non abbandonò il suo antico palazzo di Capodimonte nel quale aveva trascorso tutti gli ultimi, avventurosi anni, sfidando le bombe alleate, l’occupazione tedesca, la furiosa battaglia per Napoli e il tumultuoso arrivo degli anglosassoni.

Ormai tutti i Savoia erano avvolti nella bufera. A Roma era rimasto il Re; lui solo continuava a lottare contro le illegalità che divenivano sempre più numerose e sempre più gravi. Fu allora che cominciarono a correre le voci più assurde: gli alleati avevano scoperto il falso e arrestato Romita: a Napoli un gruppo di ufficiali fedelissimi alla Monarchia aveva organizzato un colpo di Stato; il Re si era suicidato Poi, all’improvviso, un’altra voce: i brogli erano stati svelati. La Corte di Cassazione stava per annullare il referendum.

Quest’ultima diceria aveva, contrariamente alle altre, un certo fondamento. Era successo questo: l’avvocato Enzo Selvaggi, esaminando il testo della legge sul «referendum», aveva scoperto che l’articolo due parlava di elettori votanti.

I conteggi comunicati da Romita, invece, erano questi: la Repubblica ha avuto 12,672.767 voti. La Monarchia ha avuto 10.699,905 voti. Dunque la Repubblica ha vinto per quasi due milioni di voti. Selvaggi osservò: i voli nulli superano il milione e quattrocentomila. Poiché la legge non parla di voti ma di elettori votanti è evidente che il raffronto non deve farsi solo tra i voti nei repubblicani e i voti dei monarchici. Il rapporto deve essere delle due cifre rispetto ad una terza: quella appunto che indica il numero di coloro che hanno votato.

La questione del “quorum”

La questione cosiddetta del «quorum»era nata. Esperti giuristi si affiancarono immediatamente a Selvaggi . Venne steso un ricorso alla Cassazione, mentre da Padova altri insigni giuristi con un lungo telegramma diretto a S. E. Pagano Presidente della Corte, risollevarono in termini analoghi lo stesso problema del «quorum».

«I monarchici cercano cavilli», esclamò Romita quando seppe del ricorso Selvaggi. «Ma si agitano a vuoto. La Repubblica è già nata».

Che i monarchici non cercassero cavilli ma solo il rispetto della legalità lo comprese anche l’impassibile ammiraglio Stone. Il referendum si era svolto in un clima tutt’altro che sereno, con garanzie tutt’altro che sicure. La minaccia di una guerra civile, l’ombra delle truppe titine alla frontiera consigliavano però un sempre maggiore disinteresse degli Alleati verso quanto stava succedendo.

A rendere più amare le giornate di Stone fu il presidente dell’Unione Monarchica, onorevole Tullio Benedetti. Indirizzò all’ammiraglio una vibrante lettera (una copia, per conoscenza, era stata mandata anche a De Gasperi) che concludeva: « Ricordando l’impegno formate assunto dagli Alleati, di assicurare cioè al popolo italiano la perfetta regolarità della consultazione, chiedo un intervento diretto nella vicenda nonché una esauriente verifica di tutto il materiale elettorale prima che la Corte proceda alla proclamazione ufficiale . Fu una lettera inutile. L’ammiraglio Stone non voleva grane. Non c’era forse la Cassazione per risolvere ogni vertenza?

Stone però non ignorava quali enormi pressioni fossero costantemente rivolte ai magistrati che avrebbero dovuto avallare i risultati del referendum. La Corte di Cassazione era composta da ventuno alti magistrati; la presiedeva il dottor Giuseppe Pagano.

Era questi un uomo veramente integerrimo. Suo padre Giambattista era stato creato conte da Vittorio Emanuele III (motto araldico: «Perseverando ») e nominato oltre che senatore del Regno, Presidente della Suprema Corte. Giuseppe Pagano aveva un passato di prim’ordine. Era stato uno dei 23 magistrati (su 2000) che avevano lasciato l’incarico quando il fascismo aveva chiesto il giuramento di fedeltà. Era rientrato nella magistratura solo dopo la caduta di Mussolini.

Dunque, sosteneva Stone, perché non avere fiducia in Pagano? Perché non aspettare il verdetto della Cassazione? Ma Stone, raccomandando la calma, sapeva di non essere sincero. Egli non ignorava, per esempio, che Pagano e tutti i ventuno magistrati della Corte seguitavano a ricevere lettere anonime, minacce. Inoltre non ignorava che in camera di consiglio la Corte si sarebbe pericolosamente divisa perché era formata, è vero, da elementi integerrimi, ma tutti umanamente sottoposti alle debolezze umane. Gli incerti, i pavidi, i benevoli di fronte alle lusinghe non erano pochi! Stone, poi, non ignorava un episodio che da solo avrebbe giustificato l’intervento delle potenze occupanti, se veramente gli Alleati avessero voluto garantire la piena legalità del referendum.

L’ultime trucco di Romita

La Corte di Cassazione non si era ancora riunita. Perché? Che cosa aspettava dal momento che dal Viminale erano stati trasmessi tutti i dati e gli atti? Romita allora, per affrettare i tempi tirò fuori l’ultimo suo trucco (quanto noi raccontiamo non fu mai smentito nemmeno da Romita che pur avrebbe avuto tutto l’interesse a farlo). Fece telefonare al presidente Pagano dall’avvocato Cosentino, segretario generale della Camera. «Eccellenza», disse Cosentino, «debbo farle una comunicazione riservatissima. Per telefono non posso dirle nulla. Le mando una persona di fiducia. il consigliere, Vitali , attuale Procuratore Generale della Corte di Appello di Roma». «Il Re», comunicò riservatamente Vitali, «ha deciso irrevocabilmente di partire domani 10 giugno alle ore 15. Sua Maestà prega perciò la Corte di procedere alla tanto attesa riunione entro le dodici di domani. Sua Maestà desidera anche che sia una riunione, a carattere conclusivo».
Questo incredibile falso fu scoperto per caso da Falcone Lucifero che minacciò uno scandalo e volle risalire all’origine della vicenda. Il lettore troverà in queste pagine i particolari di questa manovra di Romita. Noi però non ci siamo limitati a ricordare l’episodio. Abbiamo voluto riascoltarlo dalla viva voce del presidente Pagano.

Un uomo integerrimo

Giuseppe Pagano ha 81 anni. Vive a Roma in Corso Vittorio Emanuele n. 349. Attualmente è molto ammalato e viene amorevolmente assistito da una cognata (Pagano non si è mai sposato) e da due domestici. La sua è proprio una bella casa, dotata di una biblioteca ricchissima non soltanto giuridica ma anche di cultura varia. Pagano non ebbe difficoltà a riceverci pur dichiarandoci subito che egli non aveva mai accettato d’incontrare giornalisti e di concedere interviste. Infatti, dopo cinque minuti che eravamo con lui nel suo studio, entrò un domestico per annunciare a Sua Eccellenza che «quella persona che lui attendeva era giunta: piccolo, innocente sotterfugio che avrebbe dovuto permettere a Pagano di liberarsi di una visita incomoda. Ma ormai l’ex presidente della Cassazione (che conserva una memoria lucidissima) era deciso a parlare. Così noi restammo ancora a lungo.

«Sì», ci disse Pagano, «confermo in pieno la subdola manovra tentata con me. Debbo però dichiarare che io non caddi nel tranello perché osservai subito: la legge dice che la Corte deve riunirsi solo dopo l’esame di tutti i verbali trasmessi dagli uffici circoscrizionali. Ebbene questo esame, dissi allora a Vitali, non è completo».

«E’ vero, eccellenza», chiedemmo, «che gli stessi uomini e le stesse macchine che avevano fatto i calcoli per il Viminale vennero utilizzati dalla Corte di Cassazione, riunita per l’occasione in alcune sale di Montecitorio?». Pagano capì benissimo la nostra domanda, comprese subito le conclusioni che noi volevamo trarre. La notizia, della quale noi attendevamo conferma, fu più volte pubblicata e mai smentita, neppure da Romita e da De Gasperi.

Un decreto assurdo  

«No», disse Pagano. «Uomini e macchine furono diversi». L’illustre magistrato dovette leggere sul nostro volto una mossa di incredulità perché si affrettò ad aggiungere: «Comprendo dove lei vorrebbe arrivare: ai quattro milioni di schede in più che i monarchici denunciarono subito senza peraltro essere in grado di fornire le prove. In tutti i referendum saltano fuori imbrogli, Ed io non nego che anche in questo vi siano state non poche irregolarità».

«Ma la Corte di Cassazione da me presieduta non riscontrò alterazioni tali da far mutare le sorti del referendum. E lo sa perché? A noi magistrati ci venne posto tra le mani un Decreto Legge luogotenenziale N. 219 (contenente le norme per lo svolgimento del referendum e la proclamazione dei risultati) assurdo, gravato da innegabili incongruenze. Nessuno di noi aveva avuto, a suo tempo, la possibilità di esprimere un parere, di dare l’apporto della propria esperienza giuridica. Vuole saperne una? Il decreto stabiliva per esempio che entro il termine di quindici giorni la Corte di Cassazione dovesse esprimere il suo giudizio definitivo. Come si fa in soli quindici giorni ad esaminare i risultati, decidere sulle contestazioni, sulle proteste, sui reclami presentati agli uffici delle singole sezioni o agli uffici centrali circoscrizionali o alla stessa Corte? Un solo reclamo per essere esaminato seriamente avrebbe impegnato i giudici poi, più di quindici giorni. Ma la legge era quella. Noi dovevamo improrogabilmente entro quindici giorni rendere pubblico il verbale definitivo».

Sua Eccellenza Pagano ha ragione. Ai magistrati era stata presentata una legge già pronta, approvata, ma assolutamente pazzesca. A confezionare quel “capolavoro” era stato, se le nostre informazioni sono esatte, il consigliere di Stato Sorrentino, capo dell’ufficio Studi e Legislazione. Particolare estremamente significativo: nel primo testo Sorrentino si era semplicemente dimenticato di dichiarare a chi fosse spettato il compito di proclamare i risultati! Erano stati Orlando e Nitti a far notare questa enorme lacuna alla Consulta. Così si era tardivamente provveduto e in fretta su di un punto tanto delicato, essenziale.

Dunque la Corte di Cassazione non si riunì, come Romita avrebbe desiderato, il mattino del 10 giugno. Ma si riunì sei ore più tardi. De Gasperi, che aveva formalmente ceduto alle proteste violente di Falcone Lucifero, gli telefonò in mattinata al ministero della R. Casa per dirgli che la Corte si sarebbe riunita nel pomeriggio. Pagano si lasciò convincere da altre pressioni? L’ex-presidente lo nega. Bisogna però dargli atto che comunque siano andate le cose la Corte riuscì a difendere a denti stretti l’ultimo scrupolo di legalità: la segretezza circa la natura e il contenuto della riunione.

Infatti quando De Gasperi. Romita e tutti gli altri membri del Governo si trovarono a Montecitorio nella sala della Lupa, alle ore 18 del giorno 10 giugno 1946, nessuno sapeva che cosa avrebbe dichiarato la Cassazione. Sarebbe nata la Repubblica? Essi lo speravano.

Invece Pagano si limitò a leggere con voce monotona. incolore, i risultati parziali, avvertendo alla fine: «La Corte, a norma dell’articolo 19 del decreto luogotenenziale 23 aprile 1946 N. 219, emetterà in altra adunanza il giudizio definitivo».

La Repubblica non era ancora nata. La Corte si riservava di decidere sulle contestazioni, le proteste, i reclami. La Corte doveva ancora esaminare il ricorso Selvaggi sul “quorum”. Era troppo presto per i repubblicani: non si poteva ancora cantare vittoria.
Ma De Gasperi e Romita avevano in serbo un’altra carta. E la giocarono la notte tra il 12 e il 13 Giugno.

Un pranzo in casa Barzini

«Quella sera» ci ha raccontato Umberto (i lettori ci scuseranno se solo ora riprenderemo il filo del discorso, circa il nostro incontro di Madrid) «io ero abbastanza sereno». Forse ciò le potrà sembrare strano, ma le notizie che io avevo su quanto stava succedendo non erano affatto catastrofiche. Avevo piena fiducia nella Magistratura. Quella sera, dunque, io desiderai di uscire dal Quirinale, di concedermi un piccolo innocente svago. Volevo, insomma passare un’ora calma con qualche amico. Avevo saputo che la signora Giannalisa Feltrinelli Barzini, moglie del giornalista Luigi Barzini junior, era stato poche ore prima investita da un camion polacco. La signora era stato una delle dame più attive durante la campagna per il referendum una monarchica di fede cristallina. Feci dunque telefonare a casa Barzini dal generale Carlo Graziani. La signora stava a letto alquanto malconcia, ma non aveva affatto perduto la sua vivacità e il suo buonumore. Così decisi di andare a pranzo dai Barzini. Saremmo stati cinque commensali in tutto, i due Barzini, il generale Carlo Graziani, Alberto Bergamini ed io… ».

Luigi Barzini jr. or non è molto ha raccontato quel pranzo (sul numero 3 di Storia Illustrata, marzo 1958). Venne preparato un tavolino in camera della signora Gianna, ai piedi del letto. Si dovette piegare la tovaglia in quattro perché il tavolino era piccolo. «Quella sera del 12 giugno», assicura Barzini, «non parlammo di gravi problemi. Umberto ricordò che quando era ragazzo gli avevano detto: “Se farai il buono ti manderemo in Portogallo a trovare la zia». Egli, (è Barzini che racconta) «non era mai stato in Portogallo e sempre, nel suo ricordo, affiorava la promessa mai mantenuta della sua fanciullezza. Forse, disse Umberto, sono stato troppo buono. E vado in Portogallo». Poi raccontò (è sempre Barzini che narra) delle ultime visite dei ministri. E per uno o due accennò la mimica di come si erano comportati. Uno, un feroce repubblicano, che gli aveva portato alcuni decreti da firmare, glieli buttò sul tavolo… ». Quando noi leggemmo al Re questo brano di prosa barziniana, lo vedemmo sussultare.

«E’ assurdo», disse Umberto. «Io non posso aver raccontato cose del genere. Nessun ministro si permise mai di buttarmi sul tavolo decreti da firmare. Io non l’avrei permesso».
Noi allora chiedemmo al Sovrano se fosse più vera l’altra versione che avevamo di quel pranzo, una versione che ci era stata fornita dal senatore Alberto Bergamini.

Un vero e proprio Colpo di Stato

«Quella sera il Re», ci aveva raccontato Bergamini, «era proprio in vena. Ricordo che con la signora Barzini scherzò a lungo circa il modo che avevano i polacchi di guidare i camion. Ad un tratto squillò il telefono posto su di un comodino. E’ per lei, Bergamini, mi disse la signora Gianna. Era un giornalista che dopo avermi cercato di qua e di là era riuscito a sapere dalla mia domestica che io ero andato a pranzo dai Barzini. Mentre rispondevo al telefono gli ospiti cessarono di chiacchierare. Non volevano disturbare il mio colloquio».
« Mi aveva chiamato un giornalista parlamentare, per darmi questa strabiliante notizia: il Consiglio dei ministri era terminato pochi minuti prima e alla stampa era stata consegnata una dichiarazione nella quale si diceva testualmente: «La proclamazione dei risultati del referendum fatta il 10 giugno dalla Corte di Cassazione ha portato automaticamente alla instaurazione di un regime transitorio durante il quale, fino a quando l’Assemblea costituente non abbia nominato il Capo provvisorio dello Stato, l’esercizio delle funzioni di Capo dello Stato medesimo spetterà ope legis al Presidente del Consiglio in carica».

«In altri termini», ci aveva ricordato il senatore Bergamini con voce sdegnata, «il governo, senza attendere il verdetto definitivo della Corte di Cassazione (il presidente Pagano la riunì il 18 giugno, cinque giorni dopo la partenza di Umberto) aveva dichiarato decaduto il Re e proclamato la repubblica».

«Era un vero e proprio colpo di Stato. Toccò a me», aveva concluso Bergamini, «dare a Sua Maestà l’annuncio di quanto era successo».

«Sì», ci confermò Umberto, «Fu proprio il senatore Bergamini a dirmi quanto era accaduto la, notte del 13 giugno nel Consiglio dei ministri presieduto da De Gasperi. Naturalmente interruppi la visita e rientrai in Quirinale. Saranno state le due di notte. Alle 16,10 di quello stesso giorno lasciavo per sempre l’Italia. Alcuni miei consiglieri avrebbero voluto che io facessi arrestare tutti i ministri, altri suggerirono che io me ne andassi a Napoli dove potevo contare sull’appoggio di tutta la città. Altri ancora proposero misure o decisioni diverse. Ma io non potevo accettare. Non volevo dividere ancora di più gli italiani, provocare, quasi sicuramente una guerra civile. Dovevo invece con il mio esempio evitare l’acuirsi di nuovi dissensi che avrebbero minacciato la vita del Paese, una unità che era stata il frutto della fede e del sacrificio dei nostri padri. Con l’animo colmo di dolore ma con la coscienza serena presi il gaio aereo e lasciai per sempre la Patria.