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I Savoia nella Bufera di Giorgio Pillon

I Savoia nella Bufera. Parlano i testimoni – di Giorgio Pillon – 1958 – 13

By Aprile 4, 2020Gennaio 24th, 2022No Comments

L’ESILIO DI VITTORIO EMANUELE III

 

Lo sbarco ad Alessandria e le premurose accoglienze di Faruk

Rinunziando a un sontuoso palazzo egiziano, Elena sceglie e arreda Villa Jela

“La Regina è come la chioccia…”

L’affetto del Sovrano per il conte Calvi di Bergolo

Vittorio Emanuele, Mussolini e Napoleone

Il Tricolore e il “Sole di San Bernardino”

 

«Mia moglie è come la Chioccia vorrebbe averci tutti sotto le sue ali». Vittorio Emanuele sorrise, poi continuò quasi seguisse, un altro, improvviso pensiero. «Ora che sono vecchio e stanco comprendo come le uniche, le vere gioie della vita siano quelle. che ci riserba la famiglia. Per questo motivo penso che Elena abbia ragione quando chiama qui a Villa Jela figli, nipoti e parenti».

Fu l’8 settembre del ’47 che Vittorio Emanuele fece questa commossa confessione al barone Tito Torella di Romagnana, suo ultimo aiutante di campo. L’ex Re stava aspettando nel porto di Alessandria l’arrivo del Saturnia. Discosta qualche passo, Elena di Savoia conversava con la sua dama, di compagnia, la contessa Jaccarino. Di tanto in tanto i suoi occhi si posavano sull’orizzonte.  Un sottile filo di fumo preannunciava l’arrivo della nave che avrebbe portato in Egitto, presso i nonni materni, principi Maurizio ed Enrico d’Assia, figli maggiori della sventurata principessa Mafalda morta a Buchenvald.

La famiglia al completo

Maurizio ed Enrico d’Assia erano rimasti, per quattro lunghi, anni, a Kassel, in Germania, strettamente sorvegliati dal nazisti prima, dagli alleati poi. Quando finalmente il padre loro, principe Filippo, liberato dal, campo di concentramento, aveva potuto ritornare a Kassel, i due ragazzi avevano scritto un’affettuosa lettera che aveva profondamente commosso Elena di Savoia. L’ex Sovrana da quel momento non aveva avuto che un unico desiderio: rivedere i due nipoti, averli con sé per un certo tempo. Le pratiche, incominciate ancora quando i Sovrani erano ospiti a Raito, sulla costiera amalfitana, del barone Raffaele Guariglia, si erano trascinate a lungo. Soltanto quattordici mesi dopo Maurizio ed Enrico d’Assia avevano avuto il permesso dagli alleati di espatriare e raggiungere i nonni che nel frattempo erano divenuti i conti di Pollenzo e si erano trasferiti dopo l’abdicazione di Vittorio Emanuele, in Egitto.

Con l’arrivo dei due ragazzi d’Assia, la famiglia dei Savoia fu quasi al completo. A pochi passi da “Villa Jela”, in periferia, abitavano i Calvi di Bergolo. Con il conte e la contessa erano le figlie Maria Ludovica, Vittoria, Guja e il figlio Pier Francesco. In un’altra villa abitavano anche Giovanna di Bulgaria e i suoi due figlioli, principessa Maria Luisa e Simeone. In città, invece, risiedevano i principi Romanov, a granduchessa Militza, sorella maggiore della regina Elena, il principe Roman con la moglie Praskovia e i figli Nicola e Dimitri.

Vittorio Emanuele ed Elena di Savoia erano arrivati ad Alessandria d’Egitto il 12 maggio 1946. Se la partenza da Napoli era avvenuta in un clima triste tanto che a qualcuno era persino sembrata precipitosa, a addirittura imposta, l’arrivo ad Alessandria era stato festoso. La giornata era bellissima L’incrociatore Duca degli Abruzzi che trasportava i nostri ex Sovrani (Vittorio Emanuele aveva abdicato tre giorni prima) era stato salutato da una salva di 21 colpi di cannone e dal suono prolungato delle sirene di tutte le navi ancorate nel porto, molte delle quali avevano anche innalzato il gran, pavese. Il comandante dell’incrociatore non s’attendeva una simile accoglienza. Alquanto imbarazzato aveva domandato a Vittorio Emanuele: «Dobbiamo rispondere? Dobbiamo anche, noi alzare il gran pavese?». «No», aveva risposto Vittorio Emanuele, «io, non ho più diritto a ciò; non sono più Re ».

Sbarcando i nostri Sovrani trovarono ad attenderli sul molo Re Faruk in divisa di generale dell’esercito e uno stuolo d’alti dignitari egiziani. Nel pomeriggio di quello stesso giorno, parteciparono al Palazzo reale dì Montazah ad un ricevimento offerto in loro onore da Faruk. Un funzionario, Amin Fahlm, che aveva perfetta conoscenza dell’italiano, si mise subito agli ordini dei conti di Pollenzo in qualità di ciambellano. Inoltre due ufficiali di polizia e tre automobili vennero messi a disposizione degli ospiti.

Sventola ancora il tricolore sabaudo

Ma il gesto che più colpì Vittorio Emanuele fu un altro. Faruk ordinò che sul balcone di Palazzo Antoniadis venisse issato il tricolore sabaudo.
Tanta affettuosa ospitalità finì col mettere in imbarazzo Vittorio Emanuele.
Di gusti estremamente semplici, l’ex Sovrano, sin dai primi tempi manifestò il proposito di lasciare la lussuosa residenza offertagli da Faruk per altra dimora meno impegnativa, più intima più tranquilla. Delle ricerche si incaricò Elena di Savoia. La scelta cadde su una silenziosa villetta situata nella periferia della città, in un terreno che una volta era stato sede di un lago di natura palustre, prosciugato artificialmente una ventina di anni prima e divenuto in seguito un elegante quartiere chiamato “Smouha”, dal nome del suo ideatore.

La villa in via Costantin Choremi numero 31 (un bel viale fiancheggiato da alberi di “flamboyants”) piacque subito anche a Vittorio Emanuele. «La chiameremo Jela», disse l’ex Sovrano. E volle che questo fosse il nome, in una grande targa ben visibile a fianco del cancello d’ingresso.

“Villa Jela” aveva voluto essere l’estremo, galante, affettuoso omaggio, a colei che aveva diviso le gioie e le ansie di un regno durato quasi mezzo secolo. In montenegrino “Jela” significa Elena. Una ventina d’anni prima con questo stesso nome era stato battezzato uno yacht da diporto.
Toccò ad Elena l’incombenza dell’arredamento. La Regina, che era buona intenditrice, scelse tra gli antiquari di Alessandria alcuni mobili dell’800, acquistò tendaggi e poltrone, un antico arazzo con ricamati in oro alcuni versetti del Corano, uno specchio in quadrato da due gigantesche zanne di elefante. Provvide infine ad ammobiliare tutta la villa con oggetti, quadri, soprammobili portati dall’Italia. Fu solo nell’ottobre del 1946 che “Villa Jela” assunse un aspetto di pacifica dimora borghese dove due anziani signori passavano le loro giornate ricevendo rari ospiti, coltivando fiori in un piccolo giardino e compiendo di tanto in tanto lunghe passeggiate,

Ibrahim e le mogli del Profeta

Fu allora che Vittorio e Elena presero l’abitudine di andare a pescare assieme. A volte si spingevano fino verso la rada di Aboukir o lungo le rive del lago Marini. Li accompagnava un graduato della polizia egiziana, Ibrahim Saad, che aveva a un tempo le funzioni di interprete e di guardia personale. Ibrahim Saad aveva studiato nel collegio dei sallesiani ad Alessandria. Parlava perfettamente l’italiano ed era di umore allegro. Vittorio Emanuele III – che contrariamente a quanto si continua a credere era tutt’altro che un musone (una delle tante dicerie che i biografi di domani si incaricheranno di correggere) – amava scherzare con Ibrahim. Un giorno, tra, l’altro, gli chiese:  «Ibrahim, quante mogli ha avuto il Profeta? ». Ibrahim comincio a narrare di Cadigia, la ricca vedova quarantenne che Maometto aveva adunato a 28 anni. Però Ibrahim non ricordava altri nomi. Allora Vittorio Emanuele gli elencò ordinatamente tutte undici le mogli del Profeta, da Cadigia a Haicha, da Maria a Sofia, fino all’ultima, l’ebrea Zaniab.

Le giornate a “Villa Jela” trascorrevano calme ed eguali  «Sarebbero monotone», osservò un giorno Vittorio Emanuele, «se questa pace, questa tranquillità che ci circondano qui ad Alessandria non rendessero il nostro soggiorno persino piacevole, soprattutto per me che ho ora molto tempo da dedicare alle mie letture preferite». Il Re si alzava prima delle cinque del mattino. Si vestiva, si sbarbava servendosi di un comune rasoio che se accuratamente affilava facendolo scorrere su una lunga striscia di cuoio. Poi immediatamente si metteva a tavolino (a “Villa Jela” lo studio del Sovrano comprendeva uno scrittoio, alcuni scaffali strapieni di libri e due sedie, non altro). Leggeva e scriveva fino alle sette. Allora interrompeva il lavoro per prendere insieme con la Regina un tazza di caffé. Poi tornava nello studio. Intanto qualcuno gli aveva messo sul tavolo alcuni giornali egiziani (quelli che al Cairo e ad Alssandria si pubblicavano in francese e in inglese) qualche libro che era stato ordinato il giorno prima.

Alle dodici in punto il Re interrompeva il lavoro per la colazione. Vittorio Emanuele non fu mai un buongustaio. Era, come egli stesso osservava ridendo, un « cieco del gusto ». Non gli importava affatto assaporare qualche manicaretto appetitoso o raro. Preferiva una minestrina, un po’ di carne, un po’ di verdura bollita. Non mangiava dolci, non beveva se non acqua comune, non fumava. Di gusti altrettanto parchi era la Regina. Soltanto quando a tavola, oltre ai Sovrani e ai loro ospiti abituali il barone Torella di Romagnano e la contessa Jaccarino), erano i giovani Calvi, i d’Assia o Simeone di Bulgaria, Hamildo, il cuoco siriano di Villa Jela, poteva farsi onore: allora si sfogava a fare i dolci di mandorla e miele che tanto piacevano al ragazzi.

Perché il Re era puntuale

La rigorosa puntualità del Re nell’esigere il rispetto degli orari non derivava da pignoleria. «Io penso », confessò una volta il Sovrano al commendatore Gaetano Scalici che gli fu vicino per oltre quarant’anni «che tutti coloro che dipendono da noi debbano, a loro volta, non sentirsi legati, se non addirittura schiavi, della volontà e degli orologi nostri. Io mi metto a tavola a mezzogiorno in punto per un unico motivo: a quell’ora non ho fame, ma voglio che alle dodici e mezzo possano mangiare i cuochi, i domestici, le cameriere».

Quello della mancanza di puntualità a tavola era uno dei rari rimproveri che il Sovrano rivolgeva di tanto in tanto ai principe di Piemonte. Finché Umberto di Savoia visse con il padre, rispettò scrupolosamente gli orari stabiliti a Villa Savoia. Ma quando – per usare espressione comune – fece famiglia a sé, fu il cruccio di tutti i cuochi, soliti a tenere i fornelli accesi per ore ed ore in attesa di poter servire quanto avevano preparato.

Nel pomeriggio le abitudini di Villa Jela potevano subire qualche variante. Ciò accadeva quando ad Alessandria giungeva un ospite o quando i Sovrani uscivano per qualche gita in automobile. Di solito però Vittorio Emanuele preferiva tornare nel suo studio o fermarsi nel piccolo giardino della villa a conversare col conte Calvi di Bergolo.

Il Re stimava moltissimo questo suo genero che tante discussioni aveva suscitato quando, sposando Jolanda, era entrato a far parte della famiglia reale. Il conte Calvi aveva saputo farsi apprezzare per la sua signorilità, la sua vivace intelligenza e la sua assoluta lealtà. Era riuscito a guadagnarsi l’affetto del Sovrano a poco a poco, con estrema fatica. Infatti era noto a tutti che solo malvolentieri il Re aveva accondisceso che la sua primogenita (che molti In Italia avrebbero volute andasse sposa a Edoardo d’Inghilterra o a un principe di altra casa regnante) aule se il suo destino a quello di un ufficiale di cavalleria, discendente da una piccola nobiltà terriera, nata con 1a restaurazione di Vittorio Emanuele I al trono di Sardegna (Bergolo è una frazione del comune di Cortemilia, provincia di Cuneo, con 87 abitanti nel nucleo principale e 59 negli sparsi casolari).

Il matrimonio di Jolanda

Le nozze del conte calvi con la principessa Jolanda vennero precedute da un singolare incidente, immediatamente notato da Vittorio Emanuele. Il 6 aprile del ’23 i romani lessero su un quotidiano questa notizia: Ieri mattina alle 9,45 col treno di Torino e arrivato a Roma il conte Calvi di Bergolo, fidanzato di S.A.R. la principessa Jolanda di Savoia. Il conte Calvi è ospite del Quirinale dove alloggerà sino al giorno delle nozze nell’appartamento a lui destinato nella cosiddetta manica lunga. Perquisite le tasche del poverino, non s’é trovato neppure un centesimo». Che cosa era successo? La notizia dell’arrivo del conte Calvi era stata comunicata ai giornali solo verso mezzanotte del 5 aprile dal ministero della Real Casa. Immediatamente composta, la notizia era stata messa nella Cronaca di Roma al posto di un’altra che riportava il rinvenimento a Porta San Sebastiano del cadavere d’uno sconosciuto. Il tipografo che aveva sostituito il piombo aveva dimenticato di togliere due righe della precedente notizia. Un’inchiesta dimostrò la fatalità dell’incidente, tanto più che il tipografo, autore materiale dell’errore risultò essere un monarchico di sicura fede.

Comunque il conte Calvi si trovò a superare ben altri ostacoli prima di poter fare breccia nel cuore del Re. Il tempo valse a mitigare non poche asprezze. Vittorio Emanuele si convinse, alla fine, che il matrimonio di Jolanda era, sotto tutti i punti di vista, una unione felice. I due coniugi si amavano, andavano d’accordo, adoravano i loro figlioli Così a poco a poco il Re sentì nascere esso il lettere una simpatia che s’andò tramutando in una stima profonda in un affetto sincero

L’atteggiamento sereno e fermo tenuto dal conte Calvi a Roma dal 25 luglio (il conte Calvi era state nominato dal Re comandante della città aperta di Roma) non fu dimenticato da Vittorio Emanuele. Quando il Sovrano cominciò il suo doloroso pellegrinaggio a Brindisi a Ravello a Napoli a Raito poi ancora a Napoli, volle avere presso di sé il genero. Partendo per l’esilio, infine desiderò d’essere accompagnato da una sola persona, appunto il conte Calvi,

Soltanto sette mesi dopo lo sbarco ad Alessandria d’Egitto, Vittorio Emanuele si decise a far venire dall’Italia un altro ufficiale superiore che doveva sollevare in parte, il conte Calvi dai numerosi incarichi che di continuo gli erano affidati.

Così venne scelto il barone Tito Torella di Romagnano,un colonnello di cavalleria che era stato altre volte vicino al Re.
Torella sbarcò a Porto Salti  2 di cembre 1946 e proseguì in treno per Alessandria. Giunto a destinazione, scorse sotto la pensilina confusi tra la folla dei viaggiatori, il Re e la Regina venuti incontro al loro ospite. Da quel momento Torella fu sempre accanto al Sovrano, più, confidente che aiutante di campo, una carica che ormai nella tranquilla residenza di Villa Jela era priva di significato.

Così le uniche persone che dal 1946 al 28 dicembre 1947 raccolsero le confidenze e gli sfoghi di Vittorio furono il conte Calvi e il furore Torcila oltre al commendatore Scalici, incaricato della direzione e dell’amministrazione della Casa, Le testimonianze seno preziose.

Le “memorie”

In Egitto l’ex Sovrano non ebbe che un’ambizione: finire le sue memorie di Re”. Un giorno avrebbero rappresentato un documento storico di eccezionale importanza. Il Re le aveva cominciate a Ravello , non le aveva mostrate che a una sola persona Alberto Bergamini. Ad Alessandria aveva continuato a correggere, ad aggiungere a rivedere le sue cartelle, tutte Composte da grossi fogli di carta protocollo.

Con il conte Calvi Vittorio, Emanuele parlava sovente delle sue memorie. E altrettanto faceva con Torella di Romagnano. I suoi giudizi su uomini di governo e su militari erano sintetici, precisi. Solo raramente il Re parlava di Mussolini. Una volta ricordò che quando gli fu proposto di conferire al Capo del Governo il grado di maresciallo. egli si sia opposto. Il grado, però, venne lo stesso conferito a Mussolini e contemporaneamente al Re qualche mese più tardi dalla Camera e dal Senato per acclamazione.

«Comunque », concludeva sovente Vittorio Emanuele, se un giorno la verità verrà a galla  ciò accadrà quando sarò morto e si pubblicheranno le mie memorie allora molti degli interrogativi che si pongono gli italiani e non poche delle  accuse che si continuano a rivolgermi troveranno chiarimenti spiegazioni, giustificazioni. Sono sempre stato un sovrano costituzionale. E solo sotto questo aspetto intendo passare alla Storia.

Con il conte Calvi di Bergolo con Torella di Romagnano e con gli altri intimi il Sovrano non parlava com’è logico solo di politica. Spesso le conversazioni volgevano anzi su argomenti artistici e storici. Due grossi crucci amareggiavano, a volte, i ricordi dell’ex Re: il non potersi più dedicare alla numismatica
il non avere con sé in Egitto la preziosa biblioteca che Umberto I aveva incominciato verso il 1884, e che egli aveva seguitato ad arricchire per lo più con opere storico letterarie.

Anche nell’esilio ci ha raccontato il commendatore Scalici,  il Re dedicava alla lettura molte ore al giorno. Leggeva in continuazione, sempre e soltanto seduto al tavolino, senza mai stancarsi sottolineando una frase che interessava particolarmente o prendendo appunti su piccoli biglietti di carta che egli stesso si preparava, tenendoli bene in ordine sullo scrittoio. Desideroso di mantenersi costantemente aggiornato sulle novità librarie più importanti italiane e straniere si faceva mandare dall’Italia e acquistare nelle migliori librarie ai Alessandria e del Cairo i libri che man mano venivano pubblicati e che riguardavano soprattutto l’ultima guerra. Un poderoso ricordo di queste letture assicura il commendator Scalici « Si trova nelle memorie ben 174 libri sono ricordati criticati commentati; queste pubblicazioni apparvero in Italia, in Inghilterra, negli Stati Uniti, Francia in Germania dal 1939 al 1946».

Il Re che conosceva perfettamente le quattro principali lingue europee (inglese francese tedesco, spagnolo) lesse questi testi nella versione originale riportandone alcuni brani nelle sue memorie li tradusse scrupolosamente «per evitare», egli soleva dir, non senza ai arguzia «la fatica a coloro che un giorno riceveranno l’incarico di curare la tanto attesa edizione».

Gli autori preferiti

In gioventù gli autori preferiti da Vittorio Emanuele erano stati Dante (di cui sapeva ripetere a memoria interi canti), Leopardi, Machiavelli, Emanuele Filiberto, Cantù, Pasquale Paoli, De Sanctis. Di Napoleone esaltava le concezioni strategiche e le realizzazioni compiute in ogni campo e, per contro rilevava come, col penetrare maggiormente nella sua vita intima, la sua figura ne uscisse sminuita per le ambizioni personali, gli intrighi e i pettegolezzi di Corte.

A proposito di Napoleone – racconta il barone Torella di Romagnano, un giorno Vittorio Emanuele ricordò un singolare aneddoto. Mussolini, nell’annunciargli la creazione della camera dei Fasci e delle Corporazioni, affermò che l’idea e la sua successiva realizzazione ma, era atto, m, addirittura di Napoleone. Allora Vittorio Emanuele, scuotendo la testa, rispose: «Non mi pare, signor Presidente che lei sia molto informato al riguardo. Napoleone creò tre Camere, dei dotti, dei proprietari dei commercianti; tre Camere che non andarono mai d’accordo tra di loro». Mussolini sorrise e ribattè pronto: «E’ anche per questo che ammiro Napoleone».

Nella piccola biblioteca di Villa Jela accanto ai libri storici, avevano trovato posto due pubblicazioni che il Sovrano si era portato dall’Italia: erano le Lettere di San Bernardino da Siena e le 45 prediche che lo stesso Santo aveva pronunciate nella piazza del Campo di Siena durante l’agosto e il settembre del 1427. L’edizione di queste due opere era piuttosto vecchiotta erano state pubblicate dal Banchi nel 1888) ma doveva essere piaciuta al Sovrano in modo particolare perché estremamente curata nel testo e nella citazioni.

L’interesse di Vittorio Emanuele per San Bernardino da Siena non doveva essere solo di carattere letterario o storico. L’ex Re aveva voluto nella sua modesta camera da letto di Villa Jela (una brandina da campo, un comodino un grosso armadio, una sola sedia, non altro) due simboli che gli erano particolarmente cari: a una parete avevo fatto mettere la bandiera tricolore che egli aveva portato dal l’Italia, partendo in esilio; a un altra parete aveva appeso una riproduzione del “Sole di San Bernardino” quella tavoletta cioè che il Santo portava con sé e sulla quale, in oro, aveva fatto dipingere un sole tutto raggi, con entro il nome di Gesù espresso nelle tre lettere IHS.

Morto Vittorio Emanuele,  la bandiera che egli aveva portato con sé in esilio avvolse la sua bara e venne con questa sepolta nella cattedrale di Santa Caterina, ad Alessandria, nella modesta tomba che accoglie i resti del Sovrano dal lungo regno tempestoso. Invece il “Sole di San Bernardino” fu gelosamente custodito da Elena di Savoia e, successivamente, portato in Francia a Mas de Rouel quando la Regina si trasferì in Provenza.