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I Savoia nella Bufera di Giorgio Pillon

I Savoia nella Bufera. Parlano i testimoni – di Giorgio Pillon – 1958 – 9

By Aprile 8, 2020Gennaio 24th, 2022No Comments

IL DIARIO INEDITO DI VITTORIO EMANUELE III

 

Il senatore Bergamini che è tra i pochissimi ad averlo letto afferma che avrebbe dovuto essere pubblicato l’anno scorso

Giudizi favorevoli su Mussolini, Ciano, Cavallero, Grandi ed estremamente duri per Badoglio, De Gasperi e Sforza

Sono oltre 1000 pagine che compendiano quarantasei anni di regno

La riluttanza dei Sovrano nell’ammettere di aver composto quest’opera alla quale affidava la sua autodifesa di fronte alla Storia

La Regina voleva pubblicarlo subito, ma Umberto si oppose per non rinfocolare le polemiche

 

Diario o memoriale? Scrupoloso resoconto quotidiano di avvenimenti intimi, oppure appassionata autodifesa di fronte alla storia? Il « romanzo » o meglio il «mistero» , delle memorie di Vittorio Emanuele comincia con questi interrogativi, ai quali oggi in Italia pochissimi sono in grado di rispondere. Continue inesattezze sono state scritte al riguardo. C’è stato persino qualcuno che ha riportato squarci di pagine che egli assicurava scritte da Vittorio Emanuele III senza precisarne le fonti o senza spiegare come egli fosse venuto in possesso di simili documenti. Coloro che più seriamente si sono occupati delle memorie di Vittorio Emanuele si sono limitati a citare una sola fonte, la più autorevole, quella del senatore Alberto Bergamini, l’unica persona che ebbe notoriamente in visione da Vittorio Emanuele III il voluminoso manoscritto che contiene appunto quanto il vecchio Re è andato annotando negli ultimi anni del suo lunghissimo e tempestoso regno.

Oggi di sicuro si sa una sola cosa: le preziose carte comprendenti qualche centinaio di fogli formato protocollo, sono state depositate da Umberto in una banca. Non si sa se questa sia un istituto svizzero o portoghese.

Viva l’Italia ora più che mai

Umberto, però, conserva una copia dattiloscritta delle carte paterne e un’altra copia è stata di recente esaminata da una personalità che ebbe dimestichezza con casa Savoia per lunghi anni. Qualche anno fa il giornalista Ugo d’Andrea andò a Cascais ed ottenne il permesso da Umberto di poter fotografare alcune pagine del «Diario». Erano però semplici annotazioni di avvenimenti, cosi come si annunciavano nella giornata o nella settimana del Re. Una sola variante a questo uniforme scorrere del calendario saltò fuori: era una annotazione posta in testa alla data del 1 Gennaio 1947: « Viva l’Italia ora più che mai! ».

 

 


Un altro giornalista, il Bolla, ebbe da Umberto II questa confidenza: « Esiste un diario degli avvenimenti scrupolosissimo per quanto riguarda date e persone, ma senza note particolari o commenti ed esistono numerosissime lettere private. Con queste ultime e con il diario si potrebbe preparare un volume di grande interesse, ma è prematuro parlarne.

Le copie fotografiche portate in Italia da Ugo D’Andrea e la dichiarazione fatta al Bolla da Umberto II, sembrano dunque avvalorare la tesi di coloro che affermano essere il manoscritto lasciato da Vittorio Emanuele un vero e proprio diario dove, accanto alla registrazione di avvenimenti di interesse storico, esistono lapidi appunti che si riferiscono a fatti esclusivamente familiari. Se così fosse, il «diario» di Vittorio Emanuele sarebbe sempre importante ma non avrebbe quell’interesse «esplosivo», che ad esso molti attribuiscono.

A colloquio  con il senatore  Bergamini

Da alcuni anni noi siamo andati raccogliendo le rare confidenze di quei pochissimi che ebbero in visione l’intero manoscritto o una parte di esso. Questi testimoni, che non superano le dita di una mano, sono oggi più che mai restii a parlare. Uno solo lo ha fatto apertamente, convinto che lo stesso Vittorio Emanuele III lo abbia sciolto da ogni riserva. Il senatore Alberto Bergamini. Egli vive a Roma in Piazza del Popolo. Le finestre del suo studio danno sul caffè «Rosati», uno dei ritrovi più noti della Capitale. Bergamini ha 87 anni (è nato a S. Giovanni Persiceto il 1 Giugno 1871) ma non li dimostra affatto. Dritto, fresco e vegeto com’è. La sua carriera di giornalista politico è tra le più luminose e le più limpide. Entrato giovanissimo come redattore del «Corriere del Polesine» ne divenne rapidamente il direttore. Successivamente passò al «Corriere della Sera ». Nel 1901 Sidney Sonnino lo chiamò a Roma e gli diede i mezzi perché potesse fondare un giornale liberale di destra. Nacque in quell’anno «Il Giornale d’Italia», subito seguito da « Il Piccolo » e da « Il Giornale d’Italia Agricolo». Nel 1920 Bergamini venne nominato senatore. Nel ’23 presidente dell’Associazione stampa periodica italiana. L’anno dopo si ritirò a vita privata. Il 25 luglio 1943 riprese la direzione de « Il Giornale d’Italia ». Arrestato il primo novembre riuscì, due mesi dopo, a fuggire dal carcere di Regina Coeli malgrado avesse già 72 anni e non certo l’agilità di un topo di albergo. Nell’ottobre del 1944 fondò la Concentrazione nazionale demoliberale che nel ’46 si fuse con il P.N.M. Egli è ora senatore di diritto, perché deputato alla Costituente, membro dei disciolto Senato e componente della Consulta nazionale.

« Il Re » (ci ha raccontato la scorsa settimana l’illustre vegliardo accettando, per la prima volta, di fare dichiarazioni in merito alle famose memorie di Vittorio Emanuele ) « mi disse testualmente: desidero che questo allo scritto venga pubblicato 10 anni dopo la mia morte». Poiché Vittorio Emanuele morì il 28 dicembre del 1947, le eventuali riserve a cui era legato il Bergamini sono cadute.

Le memorie del barone Torella

Ma forse Bergamini non avrebbe accettato di fornire a «Candido» particolari tanto interessanti, se noi non gli avessimo mostrato una cinquantina di foglietti, apparentemente insignificanti. Vennero trovati pochi mesi fa tra le carte lasciate dal barone Tito Torella di Romagnano. Ultimo aiutante di campo di Vittorio Emanuele III. Il Torella, dopo l’improvvisa scomparsa di Vittorio Emanuele III, rientrò nel 1948 in Italia, ma il clima egiziano aveva minato il suo fisico. Egli morì a Roma due anni dopo.

Qualche tempo prima aveva pubblicato con l’editore Garzanti un volumetto oggi introvabile intitolato «Villa Jela». E’ una breve rievocazione delle giornate egiziane trascorse accanto al Re, dividendo l’amaro esilio e rievocando il tempo passato. Il Torella però aveva in animo, in un secondo tempo, di riprendere il suo opuscolo, di allargarlo, quando il momento politico avrebbe fatto sembrare meno polemico il ricordo di Vittorio Emanuele III. La morte gli impedì di portare a termine questo suo proposito.

Tra le carte lasciate dal barone e gelosamente conservate dai suoi familiari, noi trovammo per caso (ci era stato concesso di guardare manoscritti e libri) una cinquantina di foglietti vergati con la riconoscibile calligrafia di Vittorio Emanuele III. Li mostrammo al senatore Bergamini, a Luigi Federzoni, al conte Jaccarino Rochefort, al generale Puntoni. al commendatore Scalici e ad altre personalità. Tutti furono concordi nell’attribuire una notevole importanza a quei biglietti. Erano sicuramente le «schede» , o le «cartelle» che Vittorio Emanuele III si era preparato per stendere le memorie. Scrupoloso come era, egli voleva, prima ancora di parlare o di ricordare qualsiasi uomo politico, conoscerne almeno la data di nascita, un breve curriculum vitae , ed eventuali altri fatti salienti. Le cartelle che noi avevamo trovato ci indicavano però altre cose; il numero rilevantissimo delle personalità citate da Vittorio Emanuele, nonché quelli che gli storici chiamano termini ante quem e post quem; cioè la probabile data di inizio delle memorie e la loro fine.

Vittorio Emanuele nel suo lungo scritto parte dal regicidio di Monza, cioè dalla morte del padre Umberto I e arriva fino all’abdicazione e all’esilio. E’ dunque uno squarcio di storia di oltre 46 anni: una storia recente ma che appare già proiettata nel tempo.

Le schede di Vittorio Emanuele III ci «aprirono la strada», verso altre rivelazioni.

Diario o memoriale?

Il senatore Bergarmini, che forse non avrebbe mai accettato di lasciarsi andare in confidenze, accettò invece di rispondere alle nostre domande e lo stesso fece colui che noi consideriamo il deus ex machina dell’intera vicenda, la persona, cioè, che copiò materialmente a macchina l’intero manoscritto di Vittorio Emanuele (dopo la morte del vecchio Sovrano, quando Umberto di Savoia decise di portare con sé le preziose carte paterne). A questi il commendatore Gaetano Scalici, uno dei più fedeli e devoti dipendenti di Casa Savoia.

Scalici vive attualmente a Roma,  un distinto signore che ricorda con rimpianto il passato e si commuove ogni volta che parla del suo Re e della sua Regina. Quarantacinque anni passati a Corte non si possono indubbiamente dimenticare o cancellare.

Bergamini risolse subito il nostro dubbio già espresso all’inizio di questo articolo. « Non si tratta », egli ha detto, «di un diario vero e proprio. Quello che ho visto io è piuttosto un memoriale interessantissimo e sereno, ma non per questo destinato a non suscitare polemiche ».

Come fu che dopo l’8 settembre Bergamini divenne tra i monarchici uno dei più autorevoli membri ed uno dei consiglieri del Luogotenente? Bergamini afferma di non ricordare chi ebbe a portarlo per la prima volta al Quirinale Egli non aveva mai messo piede «in casa del Re » neppure quando, nominato senatore nel 1920, avrebbe dovuto compiere la consueta visita di cortesia al Sovrano. Un giorno, ci ha Raccontato Bergamini, il Ministro Sonnino gli chiese, quasi a bruciapelo: « Sei stato a ringraziare il Re per la tua nomina? ». Bergamini rispose: «Sua Maestà ha tanto da fare, io forse più di lui; entrambi non badiamo a quelle convenienze sociali che formano invece il bagaglio della maggior parte della gente. Credo di non aver sbagliato a non chiedere una udienza al Sovrano soltanto per dirgli grazie ». Quando Roma venne liberata, Bergamini fu tra le personalità che furono subito segnalate al Luogotenente per la sua rettitudine e la sua sicura fede monarchica. Ebbe così alcuni incarichi di estrema fiducia. Gli venne chiesto innanzi tutto di preparare una monografia che avrebbe servito a respingere i violenti attacchi che allora venivano rivolti alla Monarchia in generale, e a Vittorio Emanuele in particolare. Inoltre Bergamini venne pregato di risolvere delicatissime situazioni, una delle quali possiamo oggi per la prima volta rendere nota, avendoci lo stesso senatore autorizzato a farlo,

La collana di Margherita

Rientrato a Roma Umberto, si cominciò a sentire più che mai la necessità di organizzare un servizio di propaganda monarchica che potesse contrapporsi – anche in vista del « referendum » non lontano – alle accuse che quasi tutti i partiti rivolgevano a Casa Savoia. Ma per dare il via ad una « macchina » tanto necessaria e complessa occorrevano notevolissimi mezzi finanziari. I rari fuochi  monarchici che erano saltati fuori a Napoli e a Roma si erano spenti proprio per mancanza di fondi. Dove trovare denaro necessario? Umberto di Savoia diede tutto ciò che poteva dare. Un giorno, di fronte alla impellente necessità di avere subito un milione e trecentomila lire, il Luogotenente non esitò a date in pegno ad un banchiere romano la famosa collana della Regina Margherita, uno dei gioielli più cari a Casa Savoia ed uno dei più celebri del mondo per essere formato da centinaia di perle tutte eguali di inestimabile valore. Il banchiere concesse il prestito ma volle mettere una clausola: se entro un anno non gli fosse stata restituita la somma concessa, la collana della Regina sarebbe automaticamente diventata di sua proprietà. Carità di patria ci impedisce di fare il nome di questo banchiere, tuttora vivente.

Passò un anno. All’improvviso qualcuno ricordò ad Umberto l’impegno preso, ma il Luogotenente non aveva soldi né osava chiederli ad altri. Dunque la collana sarebbe andata perduta per Casa Savoia? Qualcuno ne parlò a Bergamini. Il senatore non ebbe pace finché non riuscì a raggranellare la somma. Poi, ottenuta l’autorizzazione da Umberto, si recò, qualche ora prima che scadesse il fatale impegno, dal banchiere. Restituì il milione e trecentomila lire e ritirò uno scrigno avvolto in una comune carta da pacchi. Il banchiere abitava e abita tuttora nel cuore della vecchia Roma. Bergamini, uscito da quell’incontro, s’avviò a piedi (poiché non disponeva di nessun mezzo verso il Quirinale portando sotto il braccio il prezioso pacchetto. Ad un tratto però ebbe un dubbio. E se il banchiere non fosse stato corretto? Se nel pacco non ci fosse stato niente Bergamini fu tentato più volte di fermarsi dentro un portone e verificare il contenuto. Ma si trattenne.

Quando però fu al Quirinale alla presenza del Luogotenente, disse concitato: «Altezza Reale qui c’è la collana, ma per amor di Dio verifichi subito». Umberto di Savoia guardò alquanto sorpreso il senatore, apri il pacco, fece scattare la molla dello scrigno e guardò La collana era lì, splendente, intatta.

Un gioielliere poco scrupoloso

Questa storia, che pare romanzesca ma che è verissima,  noi l’abbiamo narrata per far capire ai nostri lettori quale fiducia godesse Bergamini al Quirinale. La «storia» – però non finisce qui. La collana della Regina Margherita ebbe almeno un’altra vicenda del genere. Pochi giorni prima del «referendum » fu data da Umberto in pegno ad uno tra i più noti gioiellieri romani in cambio di un milione di lire, somma che doveva servire per sostenere il giornale dell’on. Vincenzo Selvaggi fino alla fine del « referendum ». Questa volta la collana non venne affidata a Bergammi ma furono lo stesso Selvaggi ed il conte X a consegnarla al gioielliere. Costui, prima di tirar fuori il suo milione (una cifra assolutamente irrilevante rispetto al reale valore del gioiello) volle premunirsi ancora di più e pretese che tanto 1’avvocato Selvaggi quanto il conte X gli rilasciassero delle cambiali per un valore pari alla somma prestata. Davanti alte legittime proteste dei due fiduciari di Umberto di Savoia, il gioielliere disse: «si tratta di una pura formalità, giacché è evidente che se Umberto non restituisse il milione io non mi terrei mai una collana tanto importante». Di fronte a questa dichiarazione Selvaggi ed il conte X firmarono gli effetti. Il giorno dopo però vennero avvisati che le cambiali era no state presentate ad una banca per lo sconto. Corsero dal gioielliere ed urlando riuscirono a farsi restituire la collana, dal momento che la cifra prestata era già stata recuperata con le cambiali che la banca aveva scontato.

La parentesi che abbiamo aperto si chiude per il momento qui, giacché la collana della Regina Margherita meriterebbe un capitolo a parte. A noi però gli episodi narrati D110 serviti non solo a mettere in luce la figura di Bergamini ma anche a prospettare le difficoltà economiche in cui si dibatté il Luogotenente, causa questa non ultima dei brogli del «referendum», nonché il torbido ambiente che precedette il passaggio dei poteri.

Bergamini continuò, dunque, ad essere uno dei consiglieri Più ascoltati di Umberto, una tra le poche persone di fiducia alle quali il Luogotenente seguitò ad affidare incarichi di estrema delicatezza.

Una missione confidenziale

Un giorno, nell’autunno del ’45. Umberto ebbe bisogno di consegnare al vecchio Re, che in quel momento risiedeva a Napoli, a Villa Maria Pia, alcuni documenti privati di eccezionale importanza La missione era delicata anche per il riflesso che questi documenti avrebbero potuto avere nell’animo del vecchio Re. Chi avrebbe potuto portarli a Napoli? Bergamini venne incaricato di farlo, assieme al duca Acquarone.

La scelta di Acquarone era logica. Egli era sempre stato il più autorevole e ascoltato dei consiglieri di Vittorio Emanuele. Ma Bergamini? Umberto non ignorava l’eccezionale stima che nutriva il vecchio Sovrano verso questo giornalista e uomo politico che non lo aveva mai seccato, né cercato. Qualche settimana prima ( il 7 settembre 1945) l’ammiraglio Garofalo che aveva sostituito il generale Gamerra nella carica di primo Aiutante di Campo Generale del Principe di Piemonte) era andato a Napoli, a Villa Maria Pia, per sottoporre al Re alcuni quesiti concernenti l’azione di Vittorio ginanuele dal 1922 al 1945. Le risposte avrebbero dovuto (questo era il desiderio dello stesso Luogotenente) servire al senatore Bergamini per completare una pubblicazione in difesa della Monarchia.

Commentando con il generale Puntoni il questionario portato dall’ammiraglio Garofalo, Vittorio Emanuele disse: «Bisognerebbe scrivere un libro su notizie che sono difficili da documentare ». Poi aggiunse testualmente (vedi il libro di Puntoni « Parla Vittorio Emanuele » pag. 286): « Io non ho mai tenuto un diario e non possiedo alcun documento anteriore al 25 luglio 1943».

Era vero ciò? Puntoni non fece alcun commento. Egli però sapeva che il Re da diversi mesi andava scrivendo qualcosa (diario o memoriale). Più volte entrando nello studio del Sovrano lo aveva sorpreso intento a copiare grossi fogli protocollo che si era affrettato a nascondere proprio come fa uno studente preso in castagna dal professore. Puntoni, forse. ricordò un aneddoto che il Re aveva un giorno narrato. Si era nel ’26. Mussolini aveva iniziato i primi approcci per il Concordato col Vaticano. Un giorno il Papa chiese che il Governo mostrasse un documento dal quale risultasse che Vittorio Emanuele III era Informato delle trattative in corso. Il Re scrisse a Mussolini la lettera che il Papa voleva. Pochi giorni prima della firma del Concordato, l’ambasciatore di Francia si recò personalmente dal Pontefice per sapere se erano vere le voci di un prossimo accordo con l’Italia. La Francia era preoccupata, non le piaceva questa pacificazione fra l’Italia e il Vaticano. Il Papa, che aveva promesso di non dire nulla fino al giorno della firma, rispose all’ambasciatore francese che non c’era nulla di vero. Pochi giorni dopo l’Agenzia Stefani pubblicava la conclusione delle trattative.

Una bugia diplomatica

Dunque se persino il Papa poteva diplomaticamente dire qualche piccola bugia, perché non poteva farlo un Re? La «piccola bugia» di Vittorio Emanuele fu, negli ultimi anni della sua vita, una sola: riguarda proprio le famose memorie, quelle che tutti assicuravano pronte e che il Sovrano, invece, s’affrettava a negare fino a smentirne energicamente l’esistenza, come avvenne quando il giornale francese «Le Figaro» ne annunciò l’imminente pubblicazione.

Vittorio Emanuele preparò dunque per Bergamini le risposte al questionario. Ognuno le può trovare a pagina 287 e seguenti del citato libro di Puntoni. Il Re però aggiunse: «Queste notizie sono sommarie. Mi piacerebbe a voce dare altri schiarimenti. Vorrei, insomma, parlare con Bergamini».

L’incontro avvenne nell’ottobre successivo. Bergamini giunse a Villa Maria Pia, come già abbiamo detto, latore di importanti documenti. Nell’affidargli una grossa busta, il Luogotenente aveva aggiunto: «Si faccia mostrare da mio Padre le memorie» Bergamini non dimenticò l’avvertimento. Giunto a Napoli consegnò il plico a Vittorio Emanuele, poi attese il momento propizio per chiedere: «So che Vostra Maestà ha un diario. Potrei vederlo? ».

«Il Re», ci ha raccontato Bergaminí, «mi guardò sorpreso, colpito, forse, dalla mia audacia. Subito rispose: Diario? Ma io, caro senatore, non ho mai scritto nulla di simile ». Bergamini non osò replicare. Gli era stato detto che quando un re dice « no » è inutile insistere. Portò allora il discorso su altri argomenti. «Qual è stato l’uomo politico che Vostra Maestà considera il migliore, il più intelligente? », domandò.

Il Re sorrise, mentre rispondeva: « Lei vorrebbe che io dicessi Sonnino. Invece no». « Giolitti allora? », chiese di nuovo Bergamini. Una pausa. « C’è stato un uomo politico più intelligente, di Giolitti?», chiese ancora Bergamini. «Sì», rispose Vittorio Emanuele. «Fu il marchese di San Giuliano. E le spiego subito il perché. Voi giornalisti (e Vittorio Emanuele calcò volutamente il sostantivo) volevate nel ’14 la guerra a tutti i costi. Proprio voi, Bergamini, Frassati, Albertini, scrivevate che si doveva fare la guerra contro l’Austria. Giolitti, chiusa la Camera, venne a farmi visita. Naturalmente si parlò dell’interventismo. “Si”, mi disse Giolitti, “c’è un po’ di fermento sulla stampa. Ma il popolo non vuole la guerra, né noi, d’altronde, possiamo farla”. Due mesi dopo Giolitti venne ancora da me. Questa volta mi disse esattamente il contrario di quanto mi aveva in precedenza affermato. Vede, coro Bergarnini», concluse il Re. «Di San Giuliano non avrebbe mai fatto questo. Avrebbe capito subito che la guerra si doveva fare… ». Fu a questo punto che Bergammi tornò alla carica: «Opinioni come questa, Maestà, resteranno indubbiamente consacrate alla storia, il giorno che Vostra Maestà deciderà di rendere di pubblica ragione il suo diario ». Il Re ancora sorrise ma subito tornò a negare: « Le assicuro, caro senatore, che io non ho nessun diario…»

“Legga pure”

« Andammo avanti così», ricorda Bergamini, « per alcuni minuti. Poi io sparai l’ultima mia cartuccia: « Vostra Maestà perdoni. Ma la notizia del diario io l’ho avuta dal Luogotenente . Questa volta il Re non credette opportuno smentire. «Si alzò», assicura Bergamini. «Prese da una tasca posteriore un gruppo di chiavi. Apri il cassetto centrale di una scrivania. Tirò fuori un malloppo di carte e me le mise innanzi dicendo: Legga pure ».

Bergamini rimase solo. Aveva davanti a sé circa 180 fogli protocollo, pieni di aggiunte. Qualche pagina era stata tagliata ora sopra ora sotto e aggiunta ad altra. Bergamini cominciò a leggere.

« Il diario, ci ha detto il senatore, «comincia quando giunge sulla nave “Yela” in crociera nel Mediterraneo la notizia della morte a Monza di Umberto I. E’ un diario che a poco a poco si trasforma in memoriale. A mano a mano che io leggevo il mio interesse diveniva più vivo, Quando arrivai ad avvenimenti che mi avevano visto personalmente interessato, come l’arrivo al governo di Sonnino, mi fermai. Tornai a vedere il passato conte in un film. Ricominciai la lettura, ma ogni tanto tornavo indietro, come se avessi dovuto commentare quelle carte. E le commentavo, infatti, tra me e me. Erano documenti importantissimi che era impossibile leggere in  modo superficiale. Ricordo che di Sidney Sonnino il Re (lava questo giudizio: “Uomo di grande cultura, di grande rettitudine, ma gli mancò la prontezza di intuito, di visione, di sensazione”. Per ogni uomo politico c’era il suo giudizio, breve. acuto, lapidario

Mussolini definito dal Re

Non hanno detto il vero, dunque. (luci giornalisti che hanno riportato, attribuendoli al diario di Vittorio Emanuele, lunghi giudizi su Mussolini. come quello che Errico Altavilla pubblicò sul «Tempo Illustrato» nel dicembre del ’48, assicurando di averlo avuto da una persona che ebbe per un certo tempo nelle mani il prezioso manoscritto: «Mussolini», avrebbe scritto il Re, «è la personalità più interessante da me incontrata in più di 40 anni di Regno e forse anche la più intelligente. La sua politica interna è stata nel complesso ammirevole, ma il suo amore per il bluff lo ha tradito nella politica estera. Forse, se non vi fosse stato un Hitler da emulare non avrebbe commesso tanti errori…

«Un simile giudizio», assicura Bergamini, « non è mai stato scritto dal Re non solo perché è argomentato (e il Re nel suo diario non argomenta) ma anche perché io ricordo ben altro giudizio. Il Re tratta Mussolini così e così, favorevolmente ma non troppo.
« Ma chi nel diario fa una figura meschina non è certo Mussolini, bensì Sforza, bensì Badoglio, bensì De Gasperi. Io però (è sempre Bergamini che parla) non sono in grado di ricordare con esattezza ì vari giudizi espressi dal Re. Non lessi tutto il manoscritto. Ma soltanto una parte, sebbene rimanessi sui fogli per oltre cinque ore. Forse se non mi fossi fermato a fare tra me e me osservazioni e considerazioni, forse se non mi fossi dilungato a rileggere intere pagine già rapidamente scorse una prima volta, avrei potuto arrivare alla fine. Ma io avevo poco tempo e dovevo tornare a Roma. Il Luogotenente attendeva una risposta alla missione che mi era stata affidata.

«Quando mi congedai dal Sovrano, Egli mi disse: “Che ne pensa del mio diario?”».

«Maestà», gli risposi, « è un documento eccezionale. Qui la Monarchia ha degli atouts formidabili, ha delle attenuanti ancora più formidabili. Io l’ho letto come si legge un romanzo vilbrante, appassionante. Peccato che non abbia potuto terminarlo ».

«Torni allora», mi disse il Re, «ed io le farò leggere il resto». Poi Vittorio Emanuele fece chiamare la Regina perché, così Egli mi disse, anche la Sovrana voleva conoscermi. Sua Maestà aveva un occhio bendato ed era molto triste. Parlammo di Roma, della situazione italiana. Ad un tratto la Regina si commosse. Allora il Re le toccò un braccio con un gesto estremamente affettuoso, quasi avesse voluto dirle: «Vedrai, il peggio è già passato.Verranno giorni migliori».

« Fu quella» , conclude Bergamini, « la prima ed ultima volta ch’io parlai con Vittorio Emanuele III. Non tornai più a Napoli, né potei, così, terminare la lettura delle memorie. E mi è rimasto, proprio per questo, un profondo rammarico, anche perché mi risulta che Sua Maestà continuò in esilio a lavorare attorno al suo manoscritto, apportando modifiche, aggiungendo notizie ».

Uno scatto della Regina

Il lungo racconto che ci è stato fatto da Bergamini termina qui. Ma Bergamini, a sua volta, ignorava che le nostre indagini ci avevano portato ad avvicinare colui che per incarico di Umberto di Savoia (morto Vittorio Emanuele il 28 dicembre del ’47) copiò a macchina l’intero diario. E’ questi, come abbiamo detto, il comm. Gaetano Scalici. Bergamini, inoltre, ignorava un altro particolare che noi potemmo raccontargli, con somma sua sorpresa e interesse.

Morto Vittorio Emanuele, la Regina Elena di fronte ai commenti aspri, velenosi apparsi in Italia su molti giornali (uno dei più acidi fu quello pubblicato da Baciati sull’Europeo), disse: « In Italia si dice questo? Ebbene, noi pubblicheremo il diario. Faremo scoppiare la “bomba”, anzi faremo scoppiare mille “bombe”».

Così tra i familiari di Vittorio Emanuele cominciò a farsi strada l’idea di dare subito alle stampe il prezioso documento. Ma il diario, come lo ha lasciato Vittorio Emanuele, non è quello visto da Bergamini. Non porta più aggiunte o correzioni. Il Re, qualche mese prima di morire, lo aveva copiato a mano interamente. Il diario era dunque divenuto ancora più voluminoso perché il Sovrano vi aveva, tra l’altro, commentato oltre un centinaio di pubblicazioni apparse dal ’39 al ’47 in Italia, in America, in Inghilterra, in Francia e in Germania e tutte riguardanti l’azione condotta dal Re durante l’ultimo conflitto mondiale. Il Re, che com’è noto parlava correttamente le principali lingue europee, sapeva che il diario avrebbe dovuto essere la sua unica autodifesa di fronte alla storia. Ecco perché era andato allargandolo, sempre più, nell’intento di rispondere a queste precise accuse:

1) aver affidato nel ’22 il potere a Mussolini sotto la minaccia della rivoluzione.

2) Non averlo congedato dopo il delitto Matteotti.

3) Esser divenuto prigioniero del Fascismo.

4) Aver accondisceso a tutte le riforme fasciste che gradualmente (stando a Croce e a Salvemini) avevano demolito le libertà garantite dallo Statuto.

5) Aver accettato che la maggior parte dei poteri venisse trasferita a Mussolini.

6) Essere, alla fine, divenuto un Sovrano privo di qualsiasi autorità tanto da avallare una guerra non voluta da nessuno.

Ma il diario di Vittorio Emanuele, nel rispondere a queste e a molte altre accuse, fini col divenire estremamente prolisso. Il Re, per esempio, elenca non solo tutti i ministri, tutti i sottosegretari da lui avuti ma persino tutte le missioni mandate all’estero dal 1900 al 19441 A volte la narrazione si risolve così in un lungo, freddo, prolisso elenco, che la stessa Regina Elena trovava… noioso!

Quando si parlò di dare alle stampe
il diario si impose subito il problema: pubblicare tutto integralmente o snellire? Pubblicare tutto voleva dire preparare un grosso volume di oltre mille pagine. Forse valeva la pena rimandare l’intera pubblicazione ad altra epoca e intanto dare alle stampe la parte essenziale, la più interessante, la più polemica. Ma chi avrebbe riordinato le carte reali?

I dieci anni sono passati

Venne allora spontaneo sulle labbra della Regina il nome di Bergamini. E fu deciso che si sarebbe chiamato l’illustre senatore per alcuni mesi al Cairo. Ma Bergamini. non ricevette mai un simile invito. Anzi ignorò la cosa fino alla scorsa settimana quando noi gli rivelammo questo interessante particolare appreso dalla viva voce del comm. Scalici che fu accanto alla Regina in Egitto, e, più tardi in terra di Francia, fino alla morte della Sovrana.

Perché Bergamini non venne più invitato? Perché Umberto, consigliato evidentemente da altre persone, riuscì a convincere la Madre che la pubblicazione delle memorie non avrebbe giovato alla causa monarchica, ma avrebbe riacceso polemiche che era invece meglio tenere spente. Fece bene o male Umberto? Abbiamo rivolto questa domanda al senatore Bergamini. Ed ecco la risposta, « Io sono convinto che la pubblicazione delle memorie di Vittorio Enianuele III susciterebbe, è vero, un grosso vespaio, ma alla fine tutto terminerebbe col giovare alla Monarchia. A meno che le memorie, così come sono giunte nella loro definitiva stesura, non contengano fatti che potrebbero avallare la tesi di coloro che sostengono invece il contrario »,

Ma un’altra cosa Bergamini non riesce a spiegarsi: perché Umberto ritarda la pubblicazione delle memorie? « Vittorio Emanuele mi disse», assicura Bergamini, « che avrebbe desiderato che i suoi scritti venissero stampati dieci anni dopo la sua morte. Ora questo termine è passato. Vuol dire», conclude Bergamini, «che se Umberto ritarda la pubblicazione è perché lo stesso Vittorio Emanuele ha così disposto, cambiando quanto egli aveva deciso a Napoli, spostando cioè la data della pubblicazione».

Ma quali sono le differenze tra la prima stesura letta da Bergamini e quella definitiva? Difficile dirlo anche perché Bergamini, come s’è detto, non terminò la lettura delle carte reali.
Il comm. Scalici, d’altronde, è un uomo estremamente riservato che non sì lascia andare a rivelazioni più o meno sensazionali. A noi peró Scalici ha fatto alcune precisazioni.
Innanzitutto il giudizio su Mussolini affidato dal Re al suo diario è favorevole pur contenendo alcune riserve e non così e così, come lo lesse Bergamini.
Giudizi favorevoli il Re espresse su Giolitti, su Salandra, su Di San Giuliano e su altri uomini politici del periodo prefascista. Delle personalità fasciste il Re parla bene di Ciano, di Cavallero, di Grandi e di molti altri. Infine estremamente polemico è il Re con Sforza, Badoglio, De Gasperi, ed anche estremamente duro.