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I Savoia nella Bufera di Giorgio Pillon

I Savoia nella Bufera. Parlano i testimoni – di Giorgio Pillon – 1958 – 5

By Aprile 12, 2020Marzo 17th, 2022No Comments

CAOS NOTTURNO PER L’IMBARCO A ORTONA

Il “Baionetta” lascia Pola in missione speciale

A Pescara si imbarca Badoglio che indossa abiti borghesi e la nave prosegue la navigazione facendo rotta su Ortona

La partenza dei Sovrani, che doveva essere tenuta segreta, avviene dopo lunga sosta tra una folla di personaggi e di militari anelanti di salire a bordo

“Dov’è Badoglio?”, chiese il Re che lo stava aspettando sul molo. E’ a bordo che dorme da due ore, gli rispose qualcuno. In quel momento, Vittorio Emanuele comprese che l’Italia crollava e che aveva inizio il dramma dei Savoia

«Tentammo tre, quattro volte di entrare nel Parto di Ortona ma alla fine dovemmo rinunciarci, non c’era fondale. Allora il Comandante ordinò di fare delle segnalazioni verso l’abitato. Da terra ci fu subito risposto: si accesero delle luci e si spensero quasi immediatamente. Il Comandante osservò: il Re è là ». L’ingegnere Giulio Volpi socchiude gli occhi quasi cercando di concentrarsi di più, per meglio frugare nei luci ricordi. Poi aggiunge, con un lieve sorriso. Quella fu la nostra più grande avventura. So di non esagerare affermando che per diverse ore il destino dell’Italia fu nelle nostre mani».

Riservatezza tradizionale

Giulio Volpi non esagera affatto, no, anche perché non e il tipo di farlo.  Un uomo che non si lascia facilmente andare a confidenze. In lui è rimasta la tipica riservatezza che, un tempo, avevano i nostri ufficiali di Marina quando una missione militare qualunque essa fosse, rappresentava un segreto che doveva essere custodito, senza neppure che fosse necessario dare in merito assicurazioni od impegnare la propria parola d’onore.

Giulio Volpi vive oggi a Milano. E’ ammogliato ha due figlie e lavora con funzioni direttive in una grande industria italiana.
L’8 settembre 1943 Volpi era a Pola, aspirante guardiamarina, imbarcato a bordo della corvetta Baionetta. Aveva ventuno anni e ricopriva la carica di ufficiale di rotta. Era di complemento come lo erano tutti gli altri ufficiali della piccola unità eccezione fatta per il Comandante, tenente di vascello Pietro Pedemonte. La Baionetta era proprio un guscio di noce. Dislocava appena 640 tonnellate, aveva 120 uomini di equipaggio ed era armata di due cannoni da 100147 e da 5 mitragliere da 20. Era una “barca” così modesta che a guerra finita continuò a navigare battendo la nostra bandiera. Nessuno la volle, neppure la Russia. E la corvetta è ancora in servizio, essendo stata rimodernata nel ’52 e nuovamente  armata con quattro mitragliere da 40/56, m, ma “porcospino” (specie di lanciabombe antisommergibili), con quattro lanciabombe e due scaricabombe.
La corvetta era stata presa in consegna dall’equipaggio appena un mese prima. Verso il 5 o 6 agosto il Comandante Pedemonte si era visto consegnare dai cantieri Breda di Venezia la piccola unità. Impostata un anno prima sotto la spinta degli ultimi avvenimenti. Poi la corvetta, dopo una austera cerimonia militare, era partita per Pola. E qui il suo equipaggio aveva iniziato l’addestramento. Era, per adoperare una espressione del gergo automobilistico, in rodaggio. Ma un po’ tutti avevano bisogno di prendere confidenza con la nuova unità. E l’affiatamento era necessario anche per un altro motivo: ufficiali ed equipaggio si conoscevano poco tra loro essendo stati riuniti durante la fase di allestimento pochi mesi prima.
L’8 settembre dunque, l’aspirante guardiamarina Giulio Volpi era sceso a terra, verso le 18. Doveva recarsi al Comando Marina per sbrigare alcune pratiche. Con somma sorpresa notò lungo le strade concitati capannelli di persone. Tutti discutevano qualcuno gridava. Che cosa era successo? Lo chiese ad un passante: «Come? La non sa gnente?», gli fu risposto. «Xe si, innui l’armistisio ».

La notizia dell’armistizio

«Rientrai subito a bordo», ci ha raccontato l’ingegnere Volpi accettando di narrarmi la sua grande “avventura” dopo aver superato non poche titubanze. Volpi, infatti, non ha mai sentito il fascino delle “rivelazioni”. Né ha mai cercato di mettersi in vista raccontando un episodio che e già storia e che é stato interpretato in mille modi.
«Una volta sulla Baionetta», continua Volpi, «mi presentai al Comandante e gli riferii la grande notizia. Il Comandante osservò: “Non dica nulla neppure agli altri ufficiali. Resti a bordo. Andrò io stesso al Comando Marina. Per quella sera, naturalmente, nessuno andò in franchigia. Neppure un uomo lasciò la nave. Il Comandante chiamò il secondo ufficiale, il sottotenente di vascello Benedetto Bontá. Lo informò brevemente di quanto era successo, gli rinnovò le stesse raccomandazioni che aveva fatto a me, gli diede rapidi, precisi ordini, poi scese a terra.

Il Comandante tornò tardi io naturalmente, avevo obbedito. Non avevo informato dell’armistizio neppure gli altri tre miei colleghi che assieme al Comandante e al “secondo” formavano tutto lo stato maggiore della Baionetta. Erano il direttore di macchina Gaetano Vigorita, il direttore del tiro Enzo Colandosti e il guardiamarina Guido Bellia del Genio navale.

In missione segreta

All’indomani il Comandante scese ancora a terra. Tornò poco prima del1e 10 e ci riunì immediatamente nella sua cabina. Aveva ricevuto Istruzioni dal Ministero della Marina perché la nostra corvetta si portasse a Pescara a disposizione di quella capitaneria di porto. Ci lesse, inoltre. il proclama dell’ammiraglio inglese Cunningham sulla necessità che tutti i mezzi della Marina Italiana si concentrassero nel porto di Malta. Infine ci mostrò le istruzioni che gli erano state consegnate sulle segnalazioni che avremmo dovuto eventualmente adottare nel caso che sulla nostra rotta si fossero trovate navi alleate.

Ci guardammo sorpresi. I miei colleghi più ancora di me, del Comandante e del secondo. Nessuno però fece il minimo commento. Il Comandante aggiunse:  “Per quanto mi  riguarda ho deciso di obbedire, Porterò la mia nave a Pescara. Ognuno di voi però e libero di scegliere. Vi do dieci minuti per riflettere, ora sono le ore 10,25 vi aspetto qui alle 10,35”. Il “secondo” ordinò l’attenti. Il Comandante rispose salutando a sua volta, militarmente.

« Alle 10,35 ognuno di noi aveva deciso. Saremmo andati a Pescara. Ma a fare che cosa? Perché proprio in Abruzzo? Chi avremmo dovuto attendere? Nessuno era in grado di rispondere a queste domande.

Così la corvetta lasciò Pola. Il viaggio non presentò difficoltà di sorta.

Pareva che  una strana calma fosse improvvisamente calata sull’Adriatico, quasi che la guerra fosse finita davvero con la proclamazione dell’armistizio. Era evidente però che da un momento all’altro il mare poteva ribollire, che da un momento all’altro potevano piovere bombe o scivolare siluri, dalla bianca, ma paurosa “coda” tutta spuma, tutta morte.

Badoglio approda in barchetta

All’arrivo a Pescara  «io ero di guardia », ricorda l’ingegnere Volpi. « Il Comandante mi aveva lasciato ed era sceso nella sua cabina per mutarsi di abito e così raggiungere la capitaneria di porto dove lo avrebbero atteso nuove disposizioni. Stavo appunto approntandogli il barcarizzo che lo avrebbe condotto a terra quando vidi venire incontro una barchetta. Pensai si trattasse di un pescatore. Afferrai il megafono e urlai all’intruso di tenersi al largo dalla nostra corvetta, come prescriveva il regolamento. Invece la barca seguitava a scivolare verso di noi. Vidi allora che il battello trasportava due persone in borghese. Facevano grandi gesti con le mani. Ad un certo momento una agitò il cappello e la sventolò quasi volesse fare dei precisi segnali.

« Lasciai accostare il battello al barcarizzo.
Poi scesi, per aiutare, i due singolari ospiti a salire a bordo. Riconobbi immediatamente uno dei due visitatori. E il mio stupore fu ancora più grande di quello provato il giorno prima quando qualcuno mi aveva avvertito che era stato finalmente firmato l’armistizio: avanti a me era il maresciallo Badoglio. Ma l’altro chi era? Si presentò subito: “Ammiraglio Raffaele De Courten ministro della Marina”.

«Immediatamente accompagnai i due inattesi ospiti dal comandante. Poi tornai in plancia. Non sapevo che pensare di tutto ciò che stava succedendo».

A questo punto occorre aprire una parentesi. Nella precedente puntata noi abbiamo fedelmente riportate le testimonianze che ci sono state rese dal marchese Martinetti Bianchi che fu l’ultimo comandante dell’aeroporto di Pescara, dopo l’8 settembre. Il marchese Martinetti Bianchi si scosta alquanto dal racconto dell’ingegner Volpi. I primi a giungere sotto alla corvetta non furono Badoglio e l’ammiraglio De Courten bensì il tenente dell’aeronautica Castiglione e l’ammiraglio De Courten. Giunsero non su di un battello ma su di un motoscafo che il comando dell’aeroporto di Pescara aveva in dotazione, teneva di solito ancorate lungo il fiume che  sfocia,  come noto, sull’Adriatico in quella che un tempo era la zona di Castellammare: Badoglio s’imbarcò più tardi, circa mezz’ora dopo. Fu ancora il tenente Castiglione a condurlo a bordo, dopo che l’ammiraglio Da Courten aveva avvertito: «Se Badoglio si fa aspettare più di dieci minuti noi salperemo».

Verso un “porto qualsiasi” –

Comunque queste sono questioni di dettaglio. Le abbiamo ricordate perché qualche nostro lettore non abbia a coglierci in apparente contraddizione. Come abbiamo già avvertito sin dalla nostra prima puntata l’indagine che abbiamo condotto ci ha sovente posti davanti a versioni diverse, a volte persino in contrasto. Noi le abbiamo sempre riferite così come ci sono state raccontate dai singoli testimoni oculari di quelle tragiche giornate settembrine.

«Fu Badoglio», ricorda l’ingegnere Volpi «a dire che accorreva subito salpare verso Ortona. Qui avremmo preso a bordo altri passeggeri. Chi erano? Quando Badoglio nominò il Re, la regina, il Principe Ereditario,
il capo di Stato Maggiore, il ministro dell’Aeronautica, guardai il mio Comandante. Lo vidi calmo ma estremamente preoccupato. Dove avremmo portato i Sovrani? Né Badoglio né De Courten lo sapevano». “In un porto qualsiasi”  ci disse l’Ammiraglio De Courten, “purché non ci siano né inglesi né tedeschi. In un porto ancora italiano”.

Ma c’era veramente un porto ancora nelle nostre mani? Mentre riprendevamo la rotta verso Ortona cominciammo a preparare gli alloggi per i nuovi ospiti. L’ammiraglio De Courten dispose che la Regina occupasse l’alloggio del comandante. Il Re quello del tenente del genio navale Vigorita, il Principe Umberto l’alloggio dell’ufficiale in seconda. Badoglio e De Courten si sarebbero sistemati nella cabina dei guardiamarina che era a tre cuccette .

A Crecchio, intanto, i Sovrani stavano già prendendo congedo dai duchi di Bovino. Poco dopo le 22 l’autoco1onna reale lasciò il paese diretta ad Ortona. Era una sera tiepida e c’erano le stelle. Il viaggio fu lento a causa della oscurità e della strada tutta buche. Il Re, ogni tanto, osservava quasi  tra sé: «Ma tutta questa gente (alludeva alle altre macchine che seguivano l’auto reale) dove troverà posto? Come farà ad imbarcarsi? ».

Un “segreto”` troppo noto

Ad Ortona cominciarono le sorprese. La partenza dei Sovrani avrebbe dovuto essere tenuta segreta. Invece c’erano, sul molo una cinquantina di macchine con a bordo strani viaggiatori. Qualcuno era facilmente riconoscibile perché in divisa. Erano ufficiali di Stato Maggiore. I più però non erano in uniforme. Tutti parlavano forte tutti erano agitati. Chi era quel tale in borghese con un mitra a tracolla? Il Re lo riconobbe a fatica: era Roatta. E quell’altro? E quell’altro ancora? Il Re domandò chiarimenti a De Buzzaccarini.

Era questi il suo aiutante di campo di servizio; era stato mandato ad Ortona per predisporre l’imbarco tempestivamente. De Buzzaccarini. aveva preso contatto con la capitaneria di porto, con i carabinieri , con la guardia di finanza. Aveva anche ordinato che i due migliori motopescherecci di Zi SebastianoFonzi – lo Zecchino e il Gitano – fossero tenuti pronti qualora la corvetta, a causa dei bassi fondali, non avesse potuto entrare nel porto.

Quello di Ortona, infatti, è un porto artificiale che deve ancora oggi venire quotidianamente dragato se si vuole che possa servire da rifugio , a una flottiglia di motopescherecci e a piccole unità della Marina militare. Durante la guerra il porto a poco a poco era stato trascurato. Il mare aveva così accumulato, sabbia nel fondali, tanto che a volte, neppure i trabaccoli erano in grado di attraccare. Avrebbe potuto farlo la corvetta? Quasi certamente no. E la conferma venne quando arrivò la Baionetta. Giunta all’altezza del molo la  si intravide dopo alcuni tentativi, gettare 1’ancora al largo. Da bordo furono fatti dei segnali.

Intanto il Re, per la prima volta, sembrava preoccupato. Tutto quell’intenso via vai di macchine, tutto quel vociare confuso, quell’osservare continuo attraverso i vetri della macchina (i Sovrani erano rimasti chiusi dentro  la loro auto anche sul molo di Ortona) facce nuove per scoprire poi che si trattava di militari noti, che non avevano esitato a vestire gli abiti borghesi, aveva finito con l’irritare Vittorio Emanuele III. Forse solo allora il Re comprese che a Ortona era l’Italia che crollava, che a Ortona cominciava il suo dramma, il dramma di tutti i Savoia

Fino allora il Re aveva trattato con ministri preoccupati, con generali indecisi. Ma aveva anche osservato lungo le strade reparti ordinati. Nella Tiburtina, aveva incontrato numerose pattuglie armate, aveva osservato trasferimenti di nostri mezzi blindati. All’aeroporto di Pescara aveva visto duemila avieri disciplinati, stretti attorno a1 loro comandante. E a Chieti – così gli era stato riferito – la Divisione “Legnano” seguitava a rimanere compatta, gli ordini del generale Olmi. Ma a Ortona che stava succedendo? Che cosa volevano tutti quei “borghesi”? Perché Roatta aveva osato presentarsi a quel modo, come un ribelle, come un fuggiasco?

Fino allora Vittorio Emanuele aveva pensato che il suo viaggio altro non fosse stato se non un eccezionale trasferimento resosi necessario per salvare la Patria ed assicurarle la continuità del Regno e del Governo. Ora invece era chiaro che la partenza si era, contro le sue intenzioni, trasformata in una fuga. La fuga in un caos. Solo la sua macchina e quella del Principe Ereditario conservavano sul cofano  i gagliardetti azzurri con 1e, insegne, reali. Le altre, che pur appartenevano ad alti ufficiali, non recavano più nessun simbolo. Anzi gli stessi ufficiali si erano affrettati a gettare la divisa , a nascondere la loro identità sotto anonime spoglie, da borghesi.
Le operazioni d’imbarco incominciarono dopo le 23, in mezzo ad una enorme confusione. Tutti volevano prendere posto nei due motopescherecci di Zi’ Sebastiano Fonzi che avevano già cominciato a fare la spola tra la corvetta, e il molo.

Ad un certa momento si udì qualcuno gridare: « Ma signori ufficiali, un po’ di dignità! Abbiamo con noi il Re!», Nessuno parve ascoltare. I Sovrani intanto, continuavano a rimanere nella loro automobile. Perché aspettavano? Il Re ignorava che Badolio si era già imbarcato. Poche ore prima, all’aeroporto di Pescara, era rimasto stabilito che il Maresciallo sarebbe andato incontro ai Sovrani sulla strada di Ortona. Il Re perciò si ostinava ad attenderlo.

Ad un certe momento domandò sporgendo il capo dal finestrino della sua macchina: «Il Maresciallo Badoglio non si è visto ancora?». «Badoglio?», rispose qualcuno  ma quello di sicuro e già a bordo che dorme! ».

I Sovrani salgono a bordo

La maligna supposizione era tutt’altro che infondata. Badoglio, infatti, si trovava da più di due ore a bordo del Baionetta.

Verso le 23,40 il Re decise finalmente d’imbarcarsi Non era più il caso di attendere nessuno. La Regina fu faticosamente aiutata a prendere posto sullo Zecchino e con lei la fedele Rosa Gallotti. Poi venne la volta del Re, del generale Puntoni, del generale Santalli… La barca di Zi’ Sebastiano Fonzi fu ben presto così carica come solo lo era stata durante le feste di S. Nicola, quando i pescatori sono soliti portare la statua del santo in processione sulle loro barche lungo lo specchio d’acqua del porto.

Il Re non si era congedato da nessuno. Aveva stretto la mano al suo fedele autista Giovanni Baraldi. «Arrivederci Baraldi», gli aveva detto. Poi aveva aggiunto « Cerca il genera1e Di Raimondo. Dev’essere in mezzo a quella baraonda là. Il generale ti dirà quello che dovrai fare ».

Baraldi si era tolto il berretto e aveva risposto, con le lacrime agli occhi: « Va bene, Maestà. Altri ordini? ,

Il Re aveva scosso la testa.

Baraldi non era rimasto ad attendere che lo Zecchino lasciasse il molo. Non ne aveva avuto il coraggio. Si era perciò dato da fare per trovare il generale Di Raimondo. Aveva così saputo che tutti gli autisti avrebbero dovuto fermarsi a Chieti. Presentarsi al comandante della divisione “Legnano,”, farsi dare della benzina e tentare di  rientrare a Roma. Ma a Chieti nessuno ascoltò Baraldi, L’autista del Re allora nascose la macchina in un vecchio mulino. Ma staccò dal cofano il gagliardetto reale.

Fu l’unica cosa che Baraldi riuscì quella notte a salvare. La macchina venne ben presto scovata dai tedeschi. Baraldi la vide due mesi dopo a Roma. Era ferma davanti al Teatro dell’Opera. A bordo c’erano un ufficiale della Wermacht e una ragazza che rideva a crepapelle.