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I Savoia nella Bufera di Giorgio Pillon

I Savoia nella Bufera. Parlano i testimoni – di Giorgio Pillon – 1958 – 4

By Aprile 13, 2020Gennaio 24th, 2022No Comments

SOLTANTO Il RE  ERA CALMO A PESCARA

La colonna reale giunse all’improvviso all’aeroporto di Pescara presidiato da 2000 avieri praticamente disarmati

Le contraddizioni e gli smarrimenti di Badoglio

La grande serenità di Vittorio Emanuele III

Ad un certo momento, quando un attacco tedesco sembra imminente, viene fatta allontanare la Famiglia Reale che ritorna di nuovo al castello di Crecchio

Gli ordini che Badoglio dette agli aviatori: “Se arrivano i tedeschi, andatevene; tra otto giorni torneremo noi e vi ripresenterete”

La Principessa Mafalda rimase sola di fronte al suo tragico destino rifiutando un asilo sicuro

Chiese il Re: Ma questo stratega quando arriva?


Verso le ore 13,30 dei 9 settembre 1943 l’aviere Antonio Di Luzio, di sentinella all’ingresso principale dell’aeroporto militare di Pescara, vide spuntare dallo stradone nazionale che collega Chieti Scalo con l’Adriatico, (è l’ultimo tratto della Tiburtina) un convoglio formato solo da auto militari e civili: erano una ventina di macchine e procedevano a non eccessiva velocità quasi cercassero un luogo per parcheggiare. La prima auto (una 1100 grigioverde scoperta) si fermò a non più di venti metri dalla sentinella, sul lato destro della strada. Di Luzio vide che trasportava ufficiali superiori. Suonò immediatamente il campanello che aveva nella garitta e chiamò il capoposto. Ma prima che qualcuno potesse rendersi conto di quanto stava succedendo, una macchina varcò il cancello aperto, poi si fermò. Dalla vettura scese il Re. Era in divisa. Lo seguivano due signori in borghese, il generale Puntoni e il ministro Acquarone.

Senza squilli di tromba

Antonio Di Luzio presentò le armi in ritardo. Il capoposto urlò: Fuori la guardia! ». Però gli avieri di servizio non fecero in tempo a schierarsi per rendere al Sovrano i dovuti onori militari. Né il trombettiere trovò tempestivamente il fiato per lanciare i prescritti squilli di tromba. Così il Re entrò con estrema semplicità. L’ufficiale di picchetto si irrigidì sull’attenti, disse il suo nome, poi cominciò a “dare le novità”: forza presente, avieri ammalati, avieri puniti…
Vittorio Emanuele stese la mano al giovane ufficiale e subito chiese: « Mi conduca, per piacere, dal suo comandante ».
L’aeroporto di Pescara era dal novembre 1942 comandato dal colonnello marchese Raffaele Martinetti Bianchi, un ufficiale della riserva che era stato tra i primi piloti d’Italia, aveva combattuto nella Grande Guerra, aveva seguito con la sua squadriglia Gabriele d’Annunzio a Fiume, aveva partecipato più tardi a gare aviatorie internazionali vincendo a Parigi davanti a numerosi concorrenti convenuti da quasi tutta l’Europa la Coppa Michelin.
Raffaele Martinetti Bianchi era stato richiamato il 21 maggio del 1940, proprio nell’anniversario della dichiarazione della Grande Guerra, e destinato dapprima a Capodichino, poi a Ciampino Sud, come comandante di quell’aeroporto. Infine era stato trasferito a Pescara. Il colonnello aveva accettato volentieri quel nuovo incarico. Egli era abruzzese ed aveva a pochi chilometri dall’aeroporto, a Silvi marina, una villa. Sperava, una volta, sistematosi in aeroporto, di poter condurre una vita calma, lontana dalle “grane”. C’era la guerra, è vero, ma il campo di Pescara non aveva importanza strategica. Per questo era stato adibito a scuola dei nuovi aquilotti.
Quando le vicende belliche cominciarono ad andare a rotoli, l’aeroporto acquistò via via sempre maggiore importanza,  non solo come scuola, non solo come base per la riparazione degli apparecchi colpiti, ma anche come punto di partenza per azioni belliche sui Balcani, sull’Adriatico orientale e sullo Jonio.

Duemila avieri con 200 fucili

Il 9 settembre 1943 erano presenti nel campo più di duemila avieri. Quel mattino il colonnello Martinetti aveva fatto distribuire le uniche armi che erano state fornite dal superiore comando quale dotazione dei reparti: duecento fucili francesi accompagnati da un solo caricatore non completo perché contenente appena tre cartucce. I vecchi fucili ’91 e le poche mitragliatrici Breda che avevano fino allora costituito l’armamento degli avieri, erano stati ritirati un mese prima e assegnati ad altri reparti che avevano affrontato il nemico in Sicilia e in Calabria.
«Avevo distribuito quei fucili», ci ha raccontato il colonnello Raffaele Martinetti Bianchi da noi avvicinato a Silvi Marina, presso Pescara, «più che altro per dare a una parte dei miei avieri la sensazione di essere armati. Lungo la Tiburtina si erano cominciati a vedere soldati sbandati che fuggivano chissà mai dove: i treni che passavano proprio accanto al mio aeroporto avevano le vetture strapiene di soldati: numerosi militari s’erano persino sistemati sul tetto dei vagoni: uno spettacolo triste, increscioso ».

Contraddizioni della radio

A complicare ancor più la situazione locale, a sbandare ancora maggiormente gli animi era giunta la notizia, attraverso la RAI, del nostro armistizio, quasi subito però smentita da uno strano comunicato che però era stato captato soltanto da una stazione radio da campo sistemata dal colonnello Martinetti sulla collina di Fontanelle a 10 chilometri in linea d’aria da Pescara. Poco dopo la stessa stazione cominciò a ricevere strani ordini: familiarizzare con i tedeschi, cooperare con le nuove autorità “fasciste”. Erano messaggi indubbiamente singolari  tanto che il colonnello ordinò di non tenerli in nessun conto.
Verso le dieci del mattino arrivò un aereo militare. Era un “S.81”. Dal velivolo scese un passeggero in borghese che chiese immediatamente di parlare con il comandante dell’aeroporto. Era un generale che aveva avuto l’incarico, così almeno precisò, di installare una piccola stazione radio portatile. Gli fu messa a disposizione una stanza nella villetta degli ufficiali. Quel velivolo non fu l’unico a cercare rifugio nel campo di Pescara. Da quel momento, anzi, cominciarono gli arrivi. Dapprima alla spicciolata, poi in gruppo giunsero apparecchi di tutti i tipi. Ne arrivarono tanti che il colonnello Martinetti si vide costretto a dirottarli verso il campo di fortuna di Tortoreto, distante in linea d’aria circa trenta  chilometri. Non dice dunque il vero Badoglio in L’Italia nella seconda Guerra Mondiale quando afferma (a pagina 118) che «a Pescara erano giunti alcuni aeroplani». Gli apparecchi che avevano trovato rifugio a Pescara e a Tortoreto non erano “alcuni” ma addirittura un centinaio, una vera e la propria flotta aerea che andò perduta perché nessuno, né Badoglio, né il ministro dell’aeronautica Sandalli, ordinò un trasferimento verso campi più sicuri al Sud, oltre Foggia.

Un discorso del Comandante

In mezzo a questo intenso via vai di uomini e di mezzi, gli avieri del colonnello Martinetti non si erano sbandati. Il comandante li aveva riuniti poco prima del rancio, alle 10,30. ed aveva fatto loro questo discorsetto:  Non tentate di andarvene. Ormai ci conosciamo da molti mesi. Quando arriverà il momento vi dirò io stesso di tornare nelle vostre case. Per il momento una partenza così alla spicciolata può persino essere pericolosa per ciascuno di coi. Uniti rappresentiamo una forza ».
Nessun soldato aveva disubbidito. Il campo d’aviazione era rimasto in ordine, come lo era stato sempre. E così lo trovò anche Vittorio Emanuele III giungendo quel 9 settembre all’improvviso, senza che nessuno avesse preannunciato l’arrivo del Sovrano. Neppure il ministro Acquarone si prese la briga di farlo, pur essendo stato mandato in avanguardia. Acquarone però s’era affrettato a comunicare al Sovrano, ospite dei Duchi di Bovino, di Crecchio, che l’aeroporto di Pescara era ancora in nostre salde mani. Il ministro della Real Casa doveva aver fatto questa scoperta passando con la sua macchina innanzi ai cancelli del campo ed osservando al loro posto le sentinelle e gli altri uomini di guardia.

Nella Villetta del Comando

Subito dopo il Re, entrò in macchina la Regina. Era accompagnata dalla fedele e devota sua domestica Rosa Gallotti che venne scambiata dagli ufficiali dell’aeroporto per la dama di compagnia della Sovrana. Poi arrivarono gli altri, l’ammiraglio De Courten, il maresciallo Badoglio, il generale Sandalli, il colonnello Valenzano… Il Principe di Piemonte giunse quando una ventina di persone si trovavano già riunite nella villetta del comando. Qui egli ebbe la piacevole sorpresa di trovare il maggiore pilota Carlo Maurizio Ruspoli che era stato suo compagno di infanzia, L’incontro fu estremamente affettuoso.
Intanto la notizia dell’arrivo dei Sovrani, del Principe Ereditario, del Capo del Governo e di numerose altre personalità si era sparso per tutto l’aeroporto. Fu un accorrere di avieri che si schierarono ordinatamente, davanti al Comando, in silenziosa attesa.
Il colonnello Martinetti Bianchi, dopo aver fatto gli onori i di casa, si era ritirato coi suoi ufficiali. Prima però aveva chiesto al ministro dell’aeronautica, generale Sandalli, se Sua Maestà avesse bisogno di qualche aereo. Ma il generale Sandalli avevi escluso questa possibilità perché – così egli aveva raccontato – il nuovo trasferimento dei Sovrani diretti verso il Sud si sarebbe svolto a bordo di una corvetta, forse la “Scimitarra” o la “Baionetta”, Ambedue le navi, tempestivamente avvertite, si trovavano già in navigazione, alla volta di Pescara.
Quasi contemporaneamente l’ammiraglio De Courten chiese che un ricognitore venisse mandato sull’Adriatico per rilevare il “punto”, per cercare di individuare cioè dove si trovavano in quel momento le tanto attese unità della Marina.

Parte un ricognitore

Il ricognitore partì.  Nel frattempo », racconta il marchese Martinetti Bianchi, mi preoccupai di rifocillare gli ospiti che apparivano tutti piuttosto stanchi ed evidentemente preoccupati. Soltanto il Re conservava una impassibilità che a me sembrò stupefacente. In attesa che l’aereo tornasse, Sua Maestà uscì dal mio comando e si fermò su di un ballatoio a conversare con me e con i miei ufficiali. Non parlò della situazione ma preferì informarsi dei nostro passato militare, delle nostre famiglie. Al capitano pilota Castiglione, marchese di Penne (una città in provincia di Pescara) chiese: i suoi concittadini seguitano ad essere amareggiati perché vent’anni fa ci fu qualcuno che tolse a loro il circondario?”. Ma più che la memoria formidabile del Re», conclude il colonnello Martinetti Bianchi, – ci stupì la sua serenità..
Un’ora pin tardi tornò il ricognitore. Il pilota riferì di aver avvistato una sola delle due vedette, la Baionetta. Navigava alla volta di Pescara, ma era ancora lontana circa 30 miglia. Il colonnello Martinetti Bianchi fece subito un calcolo approssimativo e concluse che la nave non sarebbe giunta prima delle ore 21. Il Re venne immediatamente informato. Non mostrò nessun disappunto. Guardò, invece, il suo orologio ed osservò quasi tra sé, pensando evidentemente ad altro: Ma questo, stratega quando arriva ?
Nessuno dei presenti comprese la domanda. Verso le quindici però giunse, ospite anche lui non preannunciato il generale Roatta, in borghese. Allora fu ben chiaro a tutti  che l’ atteso stratega doveva essere lui.

Badoglio piagnucoloso

« Nella mia palazzina », è sempre il colonnello Martinetti Bianchi che racconta si tenne un nuovo rapporto. Mi parve che un po’ tutti fossero ora più rasserenati. Ormai l’arrivo della corvetta era certo ed altrettanto sicuro sembrava il trasferimento verso zone più tranquille. Ma dove sarebbe andato il Re? Un mio pilota rientrato da una missione verso Brindisi confermò che l’aeroporto di Grottaglie era libero, non occupato dai tedeschi. Io pensai che sarebbe stato più opportuno trasferire laggiù tutti gli aerei. Ma né Badoglio né il ministro dell’aeronautica Sandalli ritennero di dare un ordine così logico.
« Si erano ormai fatte le, 16 », ricorda il colonnello Martinetti Bianchi. – Mano mano che le ore passavano, io mi sentivo sempre più preoccupato per l’incolumità del Re, della Regina, del Principe Ereditario. Infatti sarebbe bastato che un plotone di tedeschi. appoggiato da un paio di carri armati, si fosse presentato davanti all’aeroporto per scatenare un rapido combattimento, il cui esito sarebbe stato a noi non certo favorevole, dato il nostro insufficiente armamento. Il Re, insomma, correva il rischio di essere fatto prigioniero da un momento all’altro. Questa mia preoccupazione, precisa l’ex-comandante dell’aeroporto di Pescara, però non sembrava neppure passare per la mente agli alti ufficiali che erano al seguito dei Sovrani. Più tardi un colonnello dello Stato Maggiore ebbe una peregrina idea: mi invitò a sistemare alcune mitragliatrici lungo la Tiburtina, allo scopo di interrompere qualsiasi traffico, Mi opposi decisamente. Ciò avrebbe provocato proprio quello che io volevo evitare: uno scontro con i tedeschi.
Corsero parole aspre. Il Colonnello Martinetti, allora si rivolse a Badoglio. Il vecchio maresciallo fu senz’altro d’accordo che bisognava evitare qualsiasi conflitto armato con i tedeschi. E lo disse con un tono così piagnucoloso che si capì lontano un miglio che la decisione era soprattutto dettata dalla paura.
Il colonnello Martinetti approfittò di quel nuovo colloquio per osservare: «Forse sarebbe meglio allontanare dall’aeroporto le loro Maestà ed anche Sua Altezza ». Badoglio approvò e rispose: « Ora vado a dirlo al Re».
Poco dopo il Sovrano, la Regina, il Principe Umberto e alcune persone del seguito lasciavano l’aeroporto diletti per la seconda volta a Crecchio, dai Duchi di Bovino. Fu anche stabilito che l’imbarco sarebbe cominciato verso le 23 ma non dal porto di Pescara bensì da quello di Ortona, più vicino a Crecchio e anche meno in vista.
Prima di partire il Re salutò gli ufficiali dell’aeroporto; a tutti strinse la mano. Nel rispondere al saluto del comandante dell’aeroporto, il Sovrano osservò, come preso da improvviso ricordo: «Ma lei non è il Martinetti di D’Annunzio?  Poi, preso da altro, improvviso pensiero, aggiunse: Quel D’Annunzio… Già, era di Pescara… Un grande italiano, un grande soldato».

Una frase di De Courten

Partiti i Sovrani rimasero nell’aeroporto l’ammiraglio De Courten il maresciallo Badoglio, il ministro Sandalli e quasi tutti gli altri ufficiali superiori che avevano accompagnato il Re. Verso le ore ventuno tornò il tenente Castiglione che il colonnello Martinetti aveva posto di vedetta nel porto perché, con un motoscafo dell’aeronautica ancora sul fiume Pescara, potesse andare incontro alla corvetta tanto attesa. Il primo a lasciare il campo di aviazione fu l’ammiraglio De Courten. Lo accompagnò il tenente Castiglione. Una volta a bordo della “Baionetta” De Courten disse a Castiglione: «Dica al maresciallo Badoglio che lo aspetto dieci minuti. Trascorso tale termine darò l’ordine di salpare ».
E’ evidente che i rapporti tra l’allora ministro della Marina e il Capo del Governo dell’epoca non dovevano essere dei più simpatici. E’ un vero peccato che l’ammiraglio De Courten seguiti a tacere. Egli ormai non è più in servizio. Vive, a Trieste ed è presidente del Lloyd Triestino.


Il maresciallo è preso da una fretta indiavolata

Nel corso della nostra inchiesta l’ammiraglio De Courten è stato, naturalmente, tra i primi ad essere interpellato ma egli si è ancora una volta trincerato in un ermetico riserbo. Testualmente ci ha anzi detto: «Le considerazioni che mi hanno indotto finora e m’inducono tuttora a non uscire dal  mio riserbo sul corso di quegli avvenimenti, presentano per me un significato di principio, dal quale non ho ritenuto di potere, per il momento, deflettere né per ragioni obiettivi, né per motivi subiettivi «».
Ma torniamo al nostro racconto. Il tenente Castiglione riferì a Badoglio le parole dell’ammiraglio De Courten.
Il maresciallo non si fece ripetere l’invito. Parve anzi preso da una fretta indiavolata e volle partire subito con l’auto del comandante Martinetti Bianchi che era sempre condotta dall’infaticabile tenente Castiglione. Prima di varcare i cancelli dell’aeroporto, Badoglio si sentì chiedere dal capitano Torazzi, uno degli ufficiali del campo: «E per noi Eccellenza, che ordini ci sono? Badoglio, sorpreso dalla domanda, rispose con innegabile candore: «Se arrivano i tedeschi, andatevene: tra otto giorni torniamo noi. Allora vi ripresenterete».
Badoglio non udì 1’indignata risposta del Capitano Torazzi, come pure nessuno degli alti ufficiali che s’affrettarono a lasciare l’aeroporto, subito dopo il Capo del Governo, udì i commenti che il colonnello Martinetti Bianchi fece assieme con i suoi ufficiali. « Fu chiaro, – dice l’ex-comandante dall’aeroporto – che il Re era ormai nelle mani di persone che avevano dimenticato un loro glorioso passato militare e diventare solo dei fuggiaschi preoccupati ciascuno di salvare la propria vita.

Arriva Mafalda

Il giorno dopo all’aeroporto di Pescara non ci furono grosse novità da segnalare. 1 tedeschi non  si fecero vivi. Tutti gli avieri rimasero al loro posto, A Chieti (distante appena undici chilometri) la divisione “Legnano” era rimasta compatta agli ordini del generale Olmi. Ciò valse a dare all’intera zona una apparente tranquillità.
La mattina dell’undici settembre con un aereo di linea pilotato dal capitano Cattaneo giunse la Principessa Mafalda. Gli ultimi avvenimenti l’avevano sorpresa in Bulgaria dove si era recata per i funerali di Re Boris. morto improvvisamente per cause che nessuno è mai riuscito a spiegare con sicurezza. L’ipotesi più plausibile però è quella sostenuta da coloro che ritengono che il Sovrano sia stato avvelenato per ordine di Hitler.
Due giorni dopo i funerali di Re Boris – il 9 settembre – la Principessa Mafalda, che era accompagnata dal conte Federico di Vigliano,  gentiluomo di Corte, ripartì in treno per l’Italia. A Budapest la sorprese il nostro armistizio. Vigliano riuscì a riparare con la Principessa nella nostra Legazione, retta dal ministro Anfuso.
Da qui poté telefonare a Roma. Da Villa Savoia rispose il colonnello Stampacchia, un coraggioso ufficiale che gli ultimi avvenimenti avevano trovato fermo al suo posto di lavoro. Stampacchia provvide perché un aereo di linea partisse immediatamente per l’Ungheria.
Così la Principessa poté rientrare in Italia. Ma dove atterrare? Il capitano Cattaneo, d’accordo con il Conte di Vigliano, non puntò su Roma ma su Pescara, l’unico aeroporto con il quale era ancora possibile mantenere un contatto radio. Qui l’apparecchio giunse verso mezzogiorno.
« Purtroppo », dice il colonnello Martinetti Bianchi, «i miei ricordi non si fermano con la partenza dei Sovrani e con la successiva smobilitazione dell’aeroporto. I miei ricordi si fermano a questo ultimo episodio estremamente doloroso per le successive conseguenze. Io avrei voluto», è sempre l’ex-comandante dell’aeroporto di Pescara che narra, «che la Principessa accettasse la mia ospitalità a Silvi Marina. Sarebbe stata al sicuro nella mia villa. Confusa con gli altri sfollati non avrebbe avuto quel tragico destino che la sorte invece le riservò nel campo di concentramento di Buchenwald. Ma la Principessa aveva una sola preoccupazione: i suoi figli. Tentai più volte, per mezzo della mia radio da campo, di mettermi in contatto con Roma, inutilmente. Riuscii a sconsigliare una immediata partenza per la Capitale. Alla fine la Principessa accettò l’offerta del generale Olmi, comandante la “Legnano”. E andò a Chieti.
Non fu certamente una scelta felice. Il giorno dopo i tedeschi arrestavano il generale Olmi mentre la divisione si sbandava completamente. La Principessa Mafalda seguitò ad essere alloggiata al “Sole”, un modesto albergo dove tutti cercarono di renderle meno amaro il soggiorno. Nel suo diario il conte di Vigliano ricorda i due camerieri che servirono la principessa, Giovina Cellini e Giovanni Ricci. Entrambi prestano ancora servizio al “Sole”. Ricci porta sempre in tasca una foto della Principessa Mafalda e si commuove fino alle lacrime se qualcuno gli ricorda questa nobile martire.
Forse dice Ricci, «se la Principessa fosse rimasta tra noi…». Identico rammarico esprime il colonnello Martinetti: «Se la Principessa avesse accettato la mia ospitalità non sarebbe finita così».
Forse se io avessi potuto tempestivamente farle sapere che i suoi figli erano al sicuro  in Vaticano si sarebbe fermata in Abruzzo, non sarebbe tornata a Roma come fece una settimana più tardi. E non sarebbe, sicuramente caduta nel tranello che i tedeschi le tesero quando le dissero che il marito, principe d’Assia, voleva parlarle da Berlino al telefono dell’ambasciata tedesca presso il Quirinale. Arrestata con questo basso inganno venne deportata nel peggiore dei campi di concentramento e lì morì dopo inaudite sofferenze ».