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I Savoia nella Bufera di Giorgio Pillon

I Savoia nella Bufera. Parlano i testimoni – di Giorgio Pillon – 1958 – 6

By Aprile 11, 2020Gennaio 24th, 2022No Comments

QUANDO SBARCO’ IL RE BRINDISI STAVA PER SALTARE IN ARIA

Nei pressi della piazzaforte i tedeschi avevano minato un immenso deposito di munizioni la cui esplosione avrebbe raso al suolo la città

Soltanto dopo tre giorni di affannose ricerche fu possibile scongiurare ogni pericolo

La vita quotidiana dei Sovrani nella Capitale provvisoria: la Regina era sempre triste

Resistenze degli ammiragli all’ordine di consegnare la Flotta a Malta

Il duca d’Aosta lascia alla Spezia la moglie partoriente per raggiungere il suo posto accanto ai Sovrani

«Dio sia lodato: è proprio lui, Gigione» e così dicendo l’ammiraglio Raffaele De Courten, ministro della Marina, sorrise. Fu quello il suo primo sorriso da quando egli si era imbarcato sulla Baionetta, la piccola, veloce corvetta che prima tra tante unità, aveva risposto all’appello di Supermarina ed era tempestivamente giunta ad Ortona per imbarcare i Sovrani, il Principe Ereditario, il maresciallo Badoglio, i generali Ambrosio, Roatta, Sandalli, Puntoni e numerosi altri ufficiali superiori.
Dal momento del suo imbarco (verso le ore 10 di sera di quel fatale 9 settembre 1943) fino all’arrivo a Brindisi (fino, cioè, alle ore 14,30 del giorno successivo), l’ammiraglio De Courten era rimasto in plancia, assieme con il comandante della nave, tenente di vascello Piero Pedemonte. Non aveva voluto neppure sdraiarsi per qualche ora in aperta, come invece avevano fatto i Sovrani. Ma era rimasto vicino al timoniere, pronto a dare ordini, a suggerire la rotta. Ad un certo momento era parso che il viaggio si trasformasse in una catastrofe.

Due “Junker” in cielo

Era stato verso le undici del mattino, quando due “Junker 88” individuata la corvetta, avevano cominciato a volteggiarle intorno, come se stessero per muovere all’attacco. Poi i due aerei si erano allontanati. L’ammiraglio aveva tirato un respiro di sollievo. Egli sapeva che la responsabilità di quell’eccezionale trasferimento era interamente nelle sue mani. Era stato lui, assieme con Badoglio a consigliare quel viaggio per mare; era stato lui a suggerire come meta Brindisi che sembrava ancora essere in nostra salde mani. Ma era poi vero che la città era ancora italiana? Era poi vero che il porto non era presidiato da truppe germaniche?
La radio di bordo dava come occupati dai tedeschi tutti i porti, Ma quelle erano notizie esatte o erano invece di proposito gonfiate e falsate? Ora però la corvetta era davanti a Brindisi. Bisognava decidere: tentare uno sbarco oppure no? L’ammiraglio aveva ordinato all’incrociatore Scipione l’Africano (giunto incontro alla Baionetta all’altezza di Vieste, nel Gargano) di avvicinarsi all’avamporto di Brindisi fino al massimo suggerito dalla prudenza per osservare se dall’alto del castello avevo, che domina 1a cittadella, sventolasse o no il tricolore. Contemporaneamente l’ammiraglio aveva mandato attraverso la radio di bordo un messaggio non cifrato (alleati e tedeschi avevano a più riprese mostrato ormai di conoscere i nostri cifrari all’ammiraglio di squadra Luigi Rubartelli, comandante la piazzaforte di Brindisi. Nel telegramma, volutamente non molto chiaro, il ministro della Marina ordinava all’ammiraglio di andare incontro alla corvetta con un motoscafo, verso l’avamporto, non specificando i motivi di quell’appuntamento tutt’altro che usuale. Rubartelli (De Courten lo ricordava benissimo) era non solo un ufficiale intelligente ed energico ma anche assolutamente devoto alla Monarchia. Inoltre aveva un aspetto imponente. Alto, massiccio era soprannominato in Marina Gigione.

Un appuntamento singolare

Il messaggio giunse all’Ammiragliato. Rubartelli si stupì non poco ricevendolo, soprattutto a causa di quell’ordine, in realtà singolare: un ministro della Marina non dà appuntamenti in alto mare, fuori del porto. Se De Courten però lo aveva fatto, voleva dire che aveva le sue buone ragioni. D’altronde quelle erano giornate nelle quali l’imprevisto sembrava una normalità in ritardo. Così l’Ammiraglio rispose assicurando di aver ben compreso gli ordini: sarebbe andato incontro alla Baionetta.
Intanto la corvetta era giunta nelle acque di Brindisi. E subito era stata inquadrata dalle artiglierie costiere. A bordo ci fu un attimo di smarrimento. Perché dalle postazioni si cominciava a brandeggiare le lunghe bocche da fuoco, i grossi 381. Perché si seguiva il piccolo scafo, nella splendente luce dell’ora (erano le 14,30 circa) come se si dovesse, da un momento all’altro, colarlo a picco?
L’ammiraglio De Courten  (che aveva con il binocolo seguito l’inconsueta esercitazione) pensò, per un momento che anche Brindisi fosse caduta in mano tedesca; che il telegramma di risposta giunto poco prima a firma dell’ammiraglio Rubartelli fosse falso. E fu solo quando vide un motoscafo avvicinarsi alla Baionetta, fu solo quando scorse l’alta solenne, inconfondibile figura di Gigione Rubartelli che comprese come tutto si fosse svolto nel migliore dei modi.
Dall’alto del barcarizzo il ministro della Marina salutò con una mano l’ammiraglio Rubartelli, appena il motoscafo accostò, salì rapidamente la scaletta, salutò a sua volta – come il regolamento prescrive – prima la bandiera che sventolava sul pennone, poi il ministro della Marina. Avrebbe voluto aggiungere una scherzosa frase, ma De Courten gli disse precipitosamente: «Sua Maestà ti vuole parlare».
Rubartelli girò lo sguardo. «Vidi allora», ci ha raccontato l’ammiraglio rievocando con noi quelle drammatiche giornate,  «schierati a poppa, come se dovessero posare per una foto. Badoglio, Roatta, Ambrosio, Puntoni, Sandalli… Al centro in divisa, era il Re. Dietro a lui il Principe Ereditario. Mi avvicinai e mi irrigidii sull’attenti. Il Sovrano rispose al mio saluto e subito cominciò a domandare:

Il Re si informa

Ci sono tedeschi a Brindisi? , «No, Maestà», risposi. «Gli ultimi reparti germanici hanno lasciato la città la scorsa notte. « Allora sono già arrivate 1e avanguardie alleate?», tornò a domandare il Re.
«Non ho ancora visto un solo inglese, un americano», risposi. Il Re parve voler aggiungere qualche altra domanda ma si trattenne Ci fu una lunga pausa. Io ne approfittai per guardare gli altri personaggi che stavano davanti a me, tutti inspiegabilmente in borghese. Confesso, anzi, che sulle prime stentai non poco a riconoscerli. Erano pallidi, stanchi, sfiniti. Con la coda dell’occhio sbirciai sulla destra. E fu allora che scorsi, sola, vestita di nero, la Regina. Accennai ad un inchino. Ma il Re tornò a parlare: «C’é possibilità di difendere la città da un eventua1e attacco tedesco? ». Rassicurai il Sovrano e gli illustrai tutte le misure che erano state da me prese perché Brindisi potesse respingere qualsiasi attacco.
La città aveva sempre avuto un efficiente schieramento difensivo che però fino all’8 settembre era stato mantenuto in funzione antiinglese. L’armistizio aveva suggerito di rovesciare il fronte. L’ammiraglio Rubartelli, presi tempestivi accordi con il generale Lerici comandante il 51 Corpo d’Armata, aveva potuto mostrare ai cinquecento e più tedeschi accampati nei pressi dell’aeroporto che che a qualsiasi azione di guerra si sarebbe immediatamente risposto, con energiche contromisure. Il colonnello tedesco Fireiherr Von Cablenz comandante i vari reparti della Luftwaffe di stanza a Brindisi, aveva preferito non tentare nessuna azione di forza. Ed aveva ordinato ai suoi uomini di lasciare la città diretti più al Nord, verso l’Ofanto.
I tedeschi però avevano lasciato alle porte di Brindisi, nei pressi della masseria Flaminio un enorme deposito di munizioni. Misurava due chilometri per due e mezzo e comprendeva migliaia e migliaia di tonnellate di munizioni oltre  a 40 mila colpi da 88 e a migliaia  di bombe di grosso e medio calibro per aerei.
Il deposito (così credeva l’ammiraglio Rubartelli) era stato minato non più tardi  di un mese prima di un mese prima. A chiedere anzi questa eccezionale misura protettiva era stato lo stesso ammiraglio comandante la piazzaforte di Brindisi. Qualora la città fosse stata per cadere in mano alleata, qualora fosse stato necessario distruggere tutte le installazioni portuali, autoaffondare le navi attraccate alle banchine, anche il deposito di munizioni tedesco non avrebbe dovuto cadere in mano del nemico. Il colonnello Fireiherr von Cablenz aveva accettato il punto di vista dell’Ammiraglio italiano. Pochi giorni dopo aveva telefonicamente confermato che il deposito era stato minato.

Un rischio tremendo

Poi l’armistizio aveva sconvolto i piani. I tedeschi si erano allontanati la notte dell’8 settembre. Da allora l’ammiraglio Rubartelli era vissuto con il cuore in gola. Egli era l’unico a conoscere l’esatta consistenza dell’enorme deposito tedesco, era l’unico a sapere che se 1e munizioni abbandonate dalla Luftwaffe, fossero improvvisamente esplose, l’intera città di Brindisi sarebbe stata rasa al suolo.
Ecco perché Rubartelli, partiti i soldati tedeschi aveva immediatamente fatto presidiare il deposito ed ordinato ad un  plotone di artificieri di disinnescare le mine. Ma i marinai avevano invano cercato. Il deposito sembrava non minato. Ma ciò era impossibile; le mine dovevano essere nascoste, chissà mai dove. La ricerca affannosa continuava quando, il 9 settembre alle ore 11,30, l’ammiraglio si recò a bordo della Baionetta.

« Ritenni », ci ha raccontato Rubarteli oggi ormai non più in servizio, «di non svelare al Re le mie preoccupazioni. Forse se avessi fatto presente che potevamo saltare tutti in aria da un momento all’altro, i Reali non sarebbero scesi in città. E non perché essi avessero paura (anche i nemici più accaniti di Casa Savoia ammettono che il nostro Re non conosceva la paura!) ma perché Badoglio avrebbe portato tutti in qualche altro porto occupato dagli alleati ».
Comunque i Sovrani sbarcarono. Ma solo tre giorni dopo Rubartelli poté mettersi tranquillo. Il deposito tedesco non era stato minato malgrado le assicurazioni date dal colonnello della Luftwaffe, Fireiherr von Cablenz. Perché? E’ un mistero questo che l’ammiraglio Rubartelli non é mai stato in grado di spiegare.
Prima di lasciare la corvetta, il Re volle assicurarsi che tutti a Brindisi avrebbero potuto essere convenientemente ospitati. «La mia casa», assicurò l’ammiraglio, «è a disposizione di Vostra Maestà» , Il Re sorrise, poi aggiunse: «Cercheremo caro ammiraglio, di darle il mimino disturbo».
Cominciarono così le operazioni di sbarco; i Sovrani assieme con il generale Puntoni, scesero nell’imbarcazione dell’ammiraglio Rubartelli. Mentre il motoscafo attraversava velocemente l’avamporto e il porto, puntando verso la banchina militare, Rubartelli pensò tra sé «Ora i Sovrani sbarcheranno e non si troverà neppure un plotone pronto a rendere gli onori. Dovrò condurre il Re, la Regina, il Principe a casa ma mia moglie sarà presentabile? Non starà riposando? Forse se il Re volesse andare all’Ammiragliato a piedi, io potrei trovare il tempo di avvertire mia moglie.
Rubartelli allora si fece coraggio e domandò a1 Sovrano: «Vostra Maestà non preferirà andare a piedi fino al l’Ammiragliato?».
«No», rispose Vittorio Emanuele. «La Regina ed io siamo molto stanchi. Ci serviremo della sua automobile»

Saluto alla voce

Le sorprese però non erano finite per l’ammiraglio Rubartelli. Mentre il motoscafo attraversava il porto, qualcuno segnalò la presenza dei Sovrani. Allora si videro gli equipaggi delle navi attraccate alle banchine precipitarsi a poppa gridando: «Viva il Re», «Maestà», osservò compiaciuto l’ammiraglio «questa manifestazione non era preparata».
Il sorriso del Re fu il migliore commento. Ma Rubartelli seguitò ad essere preoccupato. Come avrebbe accolto gli ospiti sua moglie. svegliata all’improvviso dal pisolino pomeridiano? Invece anche quell’«inciampo» si mostrò inesistente. Quando i Sovrani giunsero davanti alla villetta dell’Ammirgliato, trovarono ad attenderli sulla porta la signora Irma Rubartelli vestita con semplicità ed eleganza. A rendere possibile quel a «miracolo» era stata l’ordinanza dell’ammiraglio che scorto il Re scendere dal motoscafo: era corso come una lepre su al Castello, dove appunto era la villetta del Comandante la piazzaforte. Così la signora Rubarteli aveva potuto mostrarsi non sorpresa ed accogliere gli augusti ospiti con il più compito degli inchini e con il più aperto dei sorrisi.
Oggi a distanza di quindici anni da quelle drammatiche ore, l’ammiraglio Rubartelli ricorda soprattutto questi particolari intimi anche perché il recente libro del generale Puntoni “Parla Vittorio Emanuele III” fornisce dell’arrivo a Brindisi una versione che non è molto gradita né all’ammiraglio né alla gentile signora. Afferma, infatti Puntonii «La signora Rubartelli, svegliata dal riposo pomeridiano, si presentò alle Regina in veste da camera.
«Avevo invece» , afferma la signora, «un abito bianco… ». Inezie queste! dirà il lettore. Ma la storia di Brindisi, capitale d’Italia è fatta anche di questi piccoli, segreti episodi. Sono anzi codesti ricordi quelli che rendono viva mia vicenda che ormai appare tanto lontana.
Il primo problema che si presentò all’ammiraglio Rubartelli fu proprio quello logistico. Dove sistemare tutti? Era logico pensare che l’arrivo dei Sovrani avrebbe immediatamente richiamato a Brindisi altra gente. Rubartelli però non avrebbe mai supposto di dover ospitare un numero così grande di militari.

Gli accademisti montano la guardia

Tra i primi a giungere furono gli allievi dell’Accademia Navale. Arrivarono il 13 settembre sul Saturnia dopo una movimentata navigazione. Il loro arrivo parve a tutti di buon auspicio. Quei giovani schierali in coperta che salutavano alla voce il Re non erano forse il simbolo della rinascita della Patria? Vittorio Emanuele chiese per qualche giorno di avere gli accademisti a guardia della villetta da lui occupata. In loro vide la continuità delle nostre tradizioni militari, la speranza di un rapido concludersi di avvenimenti dolorosi. Purtroppo le cose presero a poro a poco, una piega ben diversa. Ma chi avrebbe previsto che dalla partenza del Re da Roma all’arrivo nella capitale degli Alleati sarebbero passati nove mesi? Nessuno. E tanto meno il Re che, come militare, doveva anche lui aver sopravalutato la preparazione strategica degli alleati, Egli era anzi convinto che il momentaneo offuscarsi del prestigio della Monarchia sarebbe cessato non appena, nel giro di qualche che settimana, avrebbe potuto far ritorno loro, a Roma con le nostre truppe.
Invece ben altri trasferimenti il destino, gli stava riservando: Ravello, Napoli, Raito, poi ancora Napoli ed infine l’esilio nella lontana, ospitale terra egiziana.
Comunque, quel giorno, sbarcando a Brindisi, il Sovrano non era preoccupato come a Ortona egli aveva scelto un estremo lembo d’Italia ancora non occupato, dove avrebbe potuto esercitare in piena libertà, le prerogative della Corona.

Un telegramma di Eisenhower

C’erano stati, è vero, episodi dolorosi e persino inspiegabili di sbandamento di disobbedienza, ma erano fatti che purtroppo qualunque Nazione sconfitta deve sempre registrare. L’importante era porre un freno a quei paurosi ondeggiamenti e ristabilire subito l’autorità e l’ordine.
Questo disse il Re la mattina dopo ricevendo nel salotto della palazzina dell’Ammiragliato il Principe di Piemonte, il maresciallo Badoglio, i ministri Sandalli e De Courten, i generali Ambrosio, Roatta, Puntoni e il ministro Acquarone. Tutti erano estremamente fiduciosi. Il Re lesse anche un messaggio inviato poche ore prima a Badoglio dal generale Elsenhwer. Il messaggio, corretto ma non certo gentile indicava le direttive per dar subito inizio ad una collaborazione tra le truppe alleate e il Governo italiano.
Terminata la riunione, il Re si trattenne ancora a parlare con Badoglio e De Courten. Fu allora che il ministro della Marina informò il Re del gravissimo incidente accaduto tre giorni prima a Taranto.
La sera dell’8 settembre l’ammiraglio di squadra Bruto Brivonesi comandante in capo il dipartimento e 1a Piazzaforte, aveva ricevuto l’ordine di far trasferire a Malta tutte le unità da guerra all’ancora nel Mar Grande. Brivonesi aveva subito mandato a chiamare  l’ammiraglio Alberto, Da Zara, comandante tutte 1e unita dislocate nello Jonio, l’ammiraglio Luigi Istmi comandante un gruppo di incrociatori, comprendente il Cadorna, il Pompeo Magno e lo Scipione Africano. All’ordine di Portare le unità a Malta, l’ammiraglio Galati aveva osservato con estrema vivacità: «Supermarina parla di armistizio. Ma questa parola che significa Tregua d’armi? Se e così vuol dire che la lotta potrebbe essere ripresa da un momento all’altro. E allora perché consegnarci agli inglesi? ».
Brivonesi aveva a sua volta, osservato: «Più che armistizio questa è una vera e propria resa. Continuare 1a guerra sarebbe pazzesco, delittuoso». L’ammiraglio Galati allora aveva aggiunto concitatamente:  Se questo non è armistizio, se questa è resa, io allora rifiuto di portare le mie navi in un porto nemico. Io ho sempre pensato che il dovere di un marinaio sia quello di combattere e non di arrendersi. La nostra storia navale non ricorda una sola nave che si sia consegnata al nemico volontariamente ».
Che gli inglesi non intendessero chiamare armistizio gli accordi firmati il 3 settembre a Cassibile da Castellano bensì resa lo si capì subito. Perché con una insistenza esasperante le radio alleate cominciarono a trasmettere la notizia della «surrender of the Italian battle fleet».

Il rifiuto di Galati

L’arrimiraglio Brivonesi però fu inflessibile: da Supermarina erano diramati degli ordini, in nome del Re. Un soldato non discute gli ordini, ma ubbidisce anche se ciò può costargli il più grande, il più doloroso dei sacrifici. « E’ vero aveva risposto l’ammiraglio Galati. Anche a me é stato insegnato che l’obbedienza deve essere cieca, assoluta, rispettosa. Però quando uno arriva a vestire il grado di ammiraglio deve poter ragionare con la propria testa. Io mi rifiuto di andare a Malta.
Galati venne sbarcato e immediatamente mente posto agli arresti. Con ogni probabilità sarebbe state fucilato. La sera del 13, l’ammiraglio fu condotto a Brindisi . Qui (così egli pensò) sarebbe stato processato per direttissima. Invece venne immediatamente portato alla presenza l’ammiraglio De Courten Uscì da quel colloquio (Galati ha narrato quei drammatici momenti sul n. 30 di Candido) più tranquillo e più sereno. Il giorno dopo rivestì la divisa e cominciò a lavorare in un ufficio accanto a quello del ministro della Marina.
Che cosa era successo? De Courten aveva guardato a lungo l’ammiraglio Galati. Con i suoi 46 anni era uno dei giovani e brillanti ammiragli della nostra Marina. Aveva un passato militare di prim’ordine. Come capitano di vascello sul glorioso Vivaldi aveva affondato, speronando il sommergibile inglese Oswald riuscendo inoltre a salvare quasi interamente l’equipaggio nemico Successivamente aveva scortato in Africa decine e decine di trasporti carichi di truppe italiane e tedesche senza mai perdere un solo piroscafo. Infine era stato Capo di Stato Maggiore del Comando Marina Libia e successivamente, comandante della piazzaforte di Tobruk. Era, insomma, un magnifico soldato.
Poi De Curten aveva cominciato a parlare in tono aspro che s’era però andato facendo a mano a mano più calmo. Alla fine aveva teso la mano all’ammiraglio «ribelle» e gli aveva detto «Ora bisogna ricominciare. Non posso privarmi di te». Il ministro della Marina avrebbe voluto aggiungere ancora altre cose ma aveva preferito in quel momento tenere un segreto.

Quello che accadde a Malta

Solo a guerra finita, 1′ ammiraglio Galati seppe che a ordinare la sospensione di qualsiasi processo era stato il Re in persona. Vittorio Emanuele III aveva fatto questo per due precisi motivi: perché aveva ritenuto necessario che il suo primo atto di regno da Brindisi nascesse sotto il segno della conciliazione e perché quel suo gesto regale avrebbe forse fatto comprendere agli alleati tutto lo sdegno del Sovrano il Italia per l’ignobile trattamento che essi avevano riservato alla cerca Flotta.
Infatti appena le nostre navi giunsero a Malta furono immediatamente presidiate da picchetti armati. Tra gli equipaggi si verificarono incidenti più o meno gravi. Il comando inglese minacciò l’affondamento dagli incrociatori dell’ammiraglio Biancheri. Intervenne con energia l’ammiraglio Da Zara. I picchetti armati furono ritirati e le armi leggere restituite. Fu però lasciato su ogni nave un ufficiale inglese con l’ordine di non familiarizzare con i nostri, di non partecipare alla mensa comune. Il 12 settembre ci furono richieste due unità: avrebbero dovuto portare armi e viveri in Corsica ai nostri soldati. Furono inviati l’Oriani e il Legionario. Ad Algeri furono oggetto di bassi insulti da parte dei francesi. Poi le due navi vennero caricate con soldati ed armi francesi e mandate in Corsica a rifornire truppe francesi, non Italiane. In tal modo ebbe inizio l’opera della nostra Flotta.
Malgrado queste umiliazioni, lo schieramento della maggior parte della nostra Marina sotto i cannoni inglesi come orgogliosamente telegrafò l’ammiraglio Cunninghum a Churchill fu uno spettacolo. ha osservato uno storico imparziale, di forza, di efficienza, di disciplina, di obbedienza al Re che impressionò favorevolmente l’opinione mondiale e che fece credere a una qualche residua solidità dello Stato italiano. E’ possibile anzi che gli inglesi ne rimanessero eccessivamente colpiti, tanto che decisero di eliminare del tutto l’ormai inesistente pericolo. Infatti le due corazzate Italia e Vittorio Veneto furono dirottate per Alessandria con altre sette nostre unità. Qui vennero totalmente disarmate e private persino della radio. Da Alessandria 1e due navi da battaglia furono portate nei Laghi Amari del Canale di Suez

I “calici amari” del Re

Da quel momento incominciarono anche per il nastro Re giornate amarissime, quelle che egli in seguito doveva definire, con espressione evangelica, i suoi calici amari.
Il Sovrano  era sistemato nell’appartamento fino allora occupato dall’ammiraglio Rubartelli. Era un appartamento semplicissimo dove però Vittorie Emanuele ed Elena di Savoia mostrarono subito di trovarsi a loro agio. Anzi chiesero all’ammiraglio Rubartelli di riprendersi, se egli avesse creduto, il cuoco Tommaso. «E’ troppo bravo», osservò il Re. «Io sono abituato a mangiare cibi semplici. Lei invece. Ammiraglio. devo continuamente avere ospiti. Noi preferiamo per quanto ci sarà possibile, vita ritirata. Tommaso perciò non ci serve.
Invece i Sovrani mostrarono di gradire due altre persone di servizio. La cameriera della Regina, Rosa Gallotti da 35 anni vicina ad Elena di Savoia venne praticamente ad avere compiti di dama di compagnia. La buona, discreta, fidata Rosa era l’unica con la quale la Sovrana poteva confidarsi, parlare dei suoi figli lontani, dei suoi nipoti sparsi per il mondo. L’ammiraglio Rubartelli fu ben lieto, dunque di cedere al Re il suo attendente, Renato Chellivi e la cameriera di casa Lena Vallucca. Oggi Chellini vive a Genova ma lavora a Sestri Ponente in una società che produce amianto.
Ha sposato a guerra finita colei che gli fu compagna di lavoro a Brindisi la Lena Vannucci.
«I nostri compiti », ci ha raccontato Chellini, « erano semplicissimi Noi ci limitavamo a servire a favola. Solo a volte eravamo chiamati a dare una mano a Rosa Gallotti e a Pierino Masetti, il cameriere che Vittorio Emanuele si era portato da Roma. I sovrani non stavano a tavola mai più di mezz’ora Erano, di solito, soli. Conversavano in francese. A volte sedevo alla loro mensa il Principe di Piemonte, quando non era in giro per ispezionare i resti di quelle che erano state le armate dal Sud.

La vita quotidiana dei Sovrani

La giornata del Re a Brindisi (è sempre Cappellini che racconta) era regolata così: alle cinque e mezzo sveglia, bagno e piccola colazione. Alle sei il Re era già sceso in cortile. Assieme con il fedele Masetti e con il generale Puntoni partiva per qualche solitaria passeggiata. Alle otto rientrava, sedeva nello studio, prendeva visione dei giornali, della posta. Alle nove cominciava a ricevere. I visitatori erano sempre molti.
« La seconda colazione aveva luogo a mezzogiorno in punto. Poi il Sovrano andava a riposare fino alle quattro. Quindi, se non aveva altri impegni o se non decideva di uscire per visitare qualche reparto o qualche ospedale, riprendeva a ricevere gente. Alle otto in punto cenava. Il menù era ancora più semplice di quello di mezzogiorno. Molta verdura, grandi piatti d’insalata di cui il Re era ghiottissimo.
« Verso le ventuno e trenta – anche se c’erano ospiti – il Re si ritirava nella sua stanza. La Regina, invece, continuava a rimanere alzata. Di solito passava il tempo facendo dei lunghi solitari con le carte. Ricordo che una volta mi disse di conoscerne ben 114. A differenza del Re – conclude Renato Chellimi – la Regina era sempre triste. Si occupava di opere benefiche, visitava istituti e asili di infanzia, riceveva molta lettere. Ma si capiva benissimo che i suoi pensieri erano lontani ». Renato Chellini conserva di quelle giornate un quadro abbastanza sereno. Invece furono soprattutto per Vittorio Emanuele. dolorosissime, piene di pensieri, costellate da umiliazioni continue. Il Re, invocato da tutti il 25 luglio, non ancora discusso l’8 settembre, stava per essere abbandonato proprio da coloro che avrebbero dovuto tu invece essergli più vicini e primo fra tutti dal maresciallo Badoglio, che diveniva di giorno in giorno più ambiguo pia ostile, più pretenzioso.

La liberazione di Mussolini

Il 14 settembre era arrivata la delegazione angloamericana capeggiata dal generale britannico Frank Mason Mac Farlane. Il generale inglese si era presentato al nostro Re con l’evidente intenzione di umiliarlo in shorts. L’atteggiamento sereno ma fermo dal Sovrano aveva finito col mettere in imbarazzo l’altezzoso l’ufficiale. Ma i calici amari” di Vittorio Emanuele non erano finiti. Erano anzi appena cominciati. Il Re non aveva vicino a sé nessun ministro tranne quelli militari, nessun funzionario degli Esteri, nessun sottosegretario. Il suo era un governo fantasma intanto la radio di Monaco seguitava a trasmettere notizie che parevano assurde: Mussolini liberato annunciava un nuovo governo. Dopo un discorso di eccezionale violenza centro il Re, il maresciallo Graziani accettava di divenire ministro dalle Forze Armate di Mussolini, pur avendo, pochi giorni prima ad Anagni, in un colloquio con il Principe di Piemonte, riaffermato il suo attaccamento alla Monarchia. Persino Botto, il leggendario “Gamba di Legno” uno degli aviatori più fedeli alla Monarchia, si metteva contro il Re, diveniva ministro della nuova aviazione fascista repubblicana. E che dire di Mazzolini un diplomatico che il Re aveva un giorno definito ridendo il monarchico arrabbiato? Anche lui era passato dall’altra parte parte.
Motivo di profonda amarezza seguitavano infine ad essere per il vecchio Re, la defezione dei sommergibili atlantici comandati da Grossi e l’improvvisa decisione del principe Valerio Borghese, comandante la Decima MAS di continuare la lotta a fianco dei tedeschi.
Borghese l’8 settembre si trovava alla Spezia, agli ordini di Ajmone di Savoia divenuto, dopo la morte a Nairobi del fratello Amedeo duca di Aosta.

Ajmone e il Principe Borghese

L’armistizio aveva sorpreso tutti. Aimone di Savoia si era sulle prime rifiutato di dare credito alla notizia diramata da Radio Londra. Al Principe Borghese aveva detto « Vuole che io che comando tutti i MAS e che per di più sono un principe reale non sia stato preavvertito? »
Ma il rapido e disastroso susseguirsi degli avvenimenti aveva fatto comprendere la realtà. Valerio Borghese allora aveva consigliato il Duca d’Aosta, di rimanere alla Spezia (il Duca era alloggiato a Villa Carnevale, a Lerici), in attesa degli eventi che non avrebbero certamente mancato di precipitare. Ma il Duca aveva detto: «Io come principe del sangue ho un solo dovere: essere vicino al mio Re». All’alba era partito a bordo di una torpediniera dopo che il ministro della Marina era riuscito a far giungere alla Spezia l’ammiraglio Nomis di Pollone, latore di precisi ordini.
A Lerici rimase la consorte, duchessa Irene di Grecia che attendeva un bambino da un momento all’altro. Il comandante Borghese si preoccupò della sua incolumità. La Duchessa mise alla luce proprio in quei giorni un maschietto che fu chiamato Giovanni  (Amedeo in realtà, nota del webmaster) e che oggi è l’unico maschio del ramo Aosta. Un ufficiale di Marina rimase accanto alla duchessa fino alla fine della guerra. Ciò non valse ad impedire più tardi che 1a duchessa venisse internata in Germania malgrado le proteste del comandante Borghese e i suoi continui interventi presso il comando supremo germanico.
Ma, l’interessamento di Borghese per gli Aosta non spiegava affatto agli occhi del Re la decisione presa dall’eroico comandante della Decima Mas di seguitare una lotta disperata, di tenace fede ad una alleanza che lo stesso Sovrano aveva deciso di troncare in base al sacrosanto principio per cui nessuna nazione é tenuta a fare l’impossibile. Era machiavellismo questo o era necessità?
Intanto i “calici amari” di Vittorio Emanuele seguitavano ad aumentare: Badoglio irresoluto, tentennante, desideroso di dichiarare guerra alla Germania; gli Alleati sempre pronti ad umiliare tutti; il fronte fermo; il rientro a Roma sempre più lontano. A Bari era sbarcato Sforza. Vittorio Emanuele avrebbe forse potuto impedirne il rientro ma non volle. Sforza era Collare dell’Annunziata. Possibile che venisse solo a seminare zizzania? Invece Sforza si affrettò a chiedere l’abdicazione del Re, subito appoggiato da Benedetto Croce e… dal maresciallo Badoglio.
Vittorio Emanuele non riusciva capire quello che stava succedendo Un giorno, in un momento di scoramento, il vecchio Re confessò ad un suo fedele dignitario: «A volte penso proprio di andarmene; di dire anch’io come l’ultimo re di Sassonia ai suoi ministri: Macht euch euren Dreek allein. E cioè: “Cari signori, fatevi i vostri sporchi affari. Ma che succederebbe dell’Italia? Ecco perché rimango, deciso a bere fino in fondo l’ultimo mio calice amaro ».