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Umberto giudica suo padre di Luigi Cavicchioli

Umberto giudica suo padre – di Luigi Cavicchioli – 1966 – 6

By Novembre 22, 2019Gennaio 24th, 2022No Comments

Umberto giudica suo padre

di Luigi Cavicchioli

 

 

Grazie al cielo, se errore fu, il rifiuto di mio Padre di abdicare subito dopo l’armistizio non arrecò danni al paese ma se mai solo all’istituto monarchico ed a me in particolare. Ma, l’attaccamento del re non nasceva da un egoistico attaccamento al trono…”

Anche i più autorevoli personaggi politici che si proclamavano, ed erano, monarchici, come Croce e De Nicola, durante il travagliato regno del Sud furono assai duri nel giudicare il vecchio re: ne reclamavano l’abdicazione immediata, considerando la sua permanenza sul trono «ingiuriosa per il popolo italiano dopo le sofferenze del fascismo e della guerra».

Su Umberto, viceversa, superato il periodo delle polemiche indiscriminate, nessuno ha emesso giudizi totalmente negativi: anche i suoi più agguerriti avversari, gli artefici principali della repubblica, come Sforza e Romita, ad esempio, hanno avuto nei suoi riguardi espressioni di stima e simpatia. Con un paradosso significativo De Gasperì disse: «Che buon presidente della repubblica potrebbe essere il re Umberto ». Ma Umberto fu re d’Italia per un troppo breve periodo ereditò una situazione irrimediabilmente compromessa e nulla poté fare per mutarla.

Se Vittorio ‘Emanuele III, già alla fine del 1943, subito dopo l’armistizio, avesse abdicato in favore del figlio, forse la monarchia si sarebbe salvata. Umberto avrebbe avuto tempo e modo, alla prova dei primi governi democratici e della guerra al fianco degli alleati, di acquistare esperienza e sicurezza nel suo mestiere di re, imponendosi per le sue innegabili doti di equilibrio e acume politico, consolidando il proprio prestigio, togliendo argomenti alla polemica repubblicana. Ma Vittorio Emanuele III, fermo al concetto di una monarchia al di sopra della mischia, non tollerava critiche, si irrigidiva sempre più nel proposito caparbio di restare sul trono, almeno fino a quando Roma non fosse stata liberata.

Troppo gli bruciava l’umiliazione della precipitosa partenza dalla capitale: da sovrano voleva tornare, poi poteva anche abdicare, non prima. Forse fu un peccato di orgoglio. Senza dubbio fu un errore: e lo scontò Umberto, col referendum del 1946 che lo condannò all’esilio, ma per una sconfitta non certo schiacciante.

Grazie al cielo – dice Umberto – questa volta l’errore del re, se errore fu, non arrecò danno al paese, ma se mai soltanto all’istituto monarchico e a me in particolare. Bene: rinuncio volentieri a costituirmi parte civile. Una cosa è certa: l’atteggiamento di mio padre, comunque lo si voglia giudicare, non nasceva da egoistico attaccamento al trono.

« Mio padre non amava il suo mestiere di re: proprio per questo si costrinse a farlo con tanto puntiglioso rigore. Forse non tutti sanno che quando re Umberto I morì tragicamente, nelle note circostanze, mio padre, non preparato a così improvvisa e angosciosa successione, fu colto da una crisi di sconforto, temendo che mai sarebbe stato all’altezza di tanta responsabilità, avrebbe voluto rinunciare al trono in favore di un principe di altro ramo della dinastia. Naturalmente non tardò a rendersi conto che così facendo si sarebbe sottratto a un preciso dovere: perciò, una volta che quel dovere l’ebbe accettato, ne fece la ragione e la misura. di tutta la sua vita.

« Non ebbe più momenti di smarrimento, si rifiutò ad ogni impulso emotivo. Volle fare con scrupoloso impegno e umiltà il suo mestiere di re, attenendosi in ogni circostanza a due regole per lui sacre e fondamentali: agire sempre nell’ambito della legittimità costituzionale, evitare ad ogni costo le soluzioni capaci di accendere odio e seminare lutti nei paesi: gli fu amaro constatare che, per crudele ironia di eventi e per sue errate valutazioni, proprio dalla puntigliosa osservanza di quelle due regole scaturirono risultati opposti e catastrofici.

« Ebbe chiara e dolorosa la consapevolezza dei suoi errori: questo accresceva il suo sentimento di rispetto e umiltà di fronte alle intangibili prerogative istituzionali. Gli era intollerabile che altri, i quali pure avrebbero dovuto dolersi in tutta umiltà dei loro errori, assumessero viceversa il ruolo di accusatori implacabili in eccitati dibattiti che non chiamavano in causa soltanto la persona del re, ma avvilivano e minavano il prestigio delle istituzioni.

« Per questo mio padre oppose sdegnosi rifiuti agli eminenti personaggi politici, repubblicani o monarchici, che fin dai primi mesi del regno del Sud si tennero in dovere di reclamare la sua abdicazione, usando modi e termini spesso insultanti: non difendeva se stesso, ma la sovrana dignità delle istituzioni.

« Sapeva di avere commesso errori, era ben deciso a pagarli di persona, al momento opportuno, abdicando e prendendo la via dell’esilio. Ma non concepiva che i suoi errori potessero coinvolgere e travolgere le istituzioni, tanto al di sopra delle umane manchevolezze. Per questo non, volle abdicare prima che Roma fosse liberata. Io credo di avere compreso il suo animo segreto, credo di sapere perché fu così fermo in questa decisione: voleva prendere su di sé ogni responsabilità, ingoiare ogni amarezza, per consegnare al principe ereditario un trono non più provvisorio, non più minacciato e umiliato ».

Le vicende che precedettero e seguirono il referendum istituzionale del giugno 1946 sono ormai note. Anche la «Domenica del Corriere», in occasione del ventesimo anniversario del referendum, ha pubblicato una ampia analisi dell’avvenimento.

« E’ inutile e assurdo – continua Umberto – tornare oggi, dopo vent’anni, a frugare con intenti polemici in una materia che ormai è passata alla storia con tutte le sue incolmabili lacune, coi suoi enigmi che non abbiamo il diritto di considerare inquietanti, vista l’impossibilità di chiarirli. Soltanto la Corte Suprema, se avesse avuto la possibilità di scandagliare a fondo tutti i dati elettorali, avrebbe potuto alla fine emettere un giudizio sicuro: ma non fu possibile controllare l’enorme montagna di schede annullate, molte delle quali erano state distrutte in loco subito dopo lo scrutinio. L’ipotesi del milione di voti prefabbricati da Romita, comunque, io mi rifiuto persino di prenderla in considerazione. (Giuseppe Romita, allora ministro degli Interni, nel suo libro « Dalla monarchia al-
la repubblica » ha smentito la esistenza del « milione di voti nel cassetto », intesi come voti falsificati. Se mai ci furono, furono voti non annunciati subito e tenuti come massa di manovra psicologica. N.d.r.) C’è tuttavia un fatto inoppugnabile, il solo che conti, per me, ed è questo: il governo proclamò la repubblica con atto illegale, assumendo i poteri, nella notte fra il 12 e il 13 giugno, scavalcando in tal modo la Corte Suprema, alla quale soltanto spettava per legge il verdetto ».

« Ma il 18 giugno – ribatto – la Corte emise il verdetto definitivo che riconobbe la vittoria repubblicana e respinse, sia pure di stretta misura il ricorso dei monarchici, i quali pretendevano che nel computo dei voti venisse tenuto conto anche di quelli annullati».

« Il 18 giugno, appunto risponde Umberto – quando io, già da cinque giorni avevo lasciato l’Italia. Il governo aveva posto la corona e la Corte Suprema di fronte al fatto compiuto. Che mai poteva fare la Corte, dopo la mia partenza, posta nell’alternativa di convalidare l’operato del governo o scatenare la guerra civile?

« Il sacrificio che io avevo accettato, a maggior ragione dovette accettarlo la Corte. Del resto la confessione che il gesto del governo fu illegale è registrata sulla “Gazzetta Ufficiale” della repubblica, che pubblicando il decreto in data 1 luglio 1946 sul passaggio dei poteri da De Gasperi a De Nicola, precisò che il primo li deteneva dal 18 giugno, cioè dal giorno in cui la Corte Suprema emise il verdetto definitivo. Dunque il governo sapeva di avere agito illegalmente la notte fra il 12 e il 13 giugno, proclamando la repubblica e affidando i poteri di capo dello Stato a De Gasperi che li esercitò abusivamente per cinque giorni, durante i quali si creò una situazione che doveva inevitabilmente portare la Corte a capitolare. Che valore giuridico può avere una decisione presa quando già da cinque giorni esisteva una situazione di fatto non più revocabile se non a prezzo di sanguinosi conflitti? ».

« Lei, dunque, riconferma e rivendica le sue prerogative di pretendente al trono d’Italia?».

« Pretendente al trono: non le sembra, nella forma, una espressione alquanto antiquata, persino ridicola? Non pretendo proprio nulla, non rivendico nulla. Ma non posso rinunciare a quelle che lei chiama prerogative. Se si trattasse soltanto di un mio diritto, non di un dovere che mi fu imposto dai voti di dieci milioni di italiani, volentieri farei atto di rinuncia. Lo avrei fatto già il 13 giugno 1946, al momento di partire per l’esilio. Ma dovetti lanciare quel proclama in cui fra l’altro dicevo: “Improvvisamente, questa notte, in spregio alle leggi e al potere sovrano e indipendente della magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario assumendo poteri che non gli spettano e mi ha posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o subire la violenza “.

« Il governo rispose cori un comunicato in cui di me si diceva: “Un periodo che non fu senza dignità si conclude con una pagina indegna “. Parole che onestamente considero ingiuste. Mi creda, al momento della partenza avrei voluto stendere la mano senza rancore a quei dodici milioni di italiani che avevano votato contro di me, Ma nemmeno potevo tradire quei dieci milioni di italiani che avevano votato per me, tacendo loro che il governo aveva voluto troppo frettolosamente proclamare la repubblica, senza attendere il verdetto della magistratura, commettendo in tal modo un gesto arbitrario, un vero colpo di Stato.

« Tuttavia, non sarebbe giusto dimenticarlo, nello stesso proclama io mi preoccupai soprattutto di sciogliere dal giuramento di fedeltà alla corona coloro che lo avevano prestato perché nessuno si sentisse moralmente impegnato a reagire con la violenza al sopruso ».

« Fra i suoi più fedeli amici e collaboratori non mancano coloro che le fanno rimprovero di avere troppo debolmente difeso la causa monarchica ».

«Sì, è vero, molti miei collaboratori mi esortarono, in quelle ore drammatiche, a resistere al governo, a passare al contrattacco. Non è da credere che io non abbia apprezzato il loro coraggio e la loro generosità: il loro atteggiamento era comprensibile perché si erano votati a una causa che consideravano non indegna. Ma il fatto è che io non ero, come loro, votato alla causa monarchica: la sorte dei più accesi repubblicani, in quel, momento, mi stava a cuore quanto quella dei miei amici monarchici.

« Il primo a consigliarmi, la mattina del 13 giugno, fu naturalimente il mio ministro, Falcone Lucifero. Secondo lui bisognava “invitare il governo a dimettersi e se rifiutava destituirlo, nominare un governo di emergenza che garantisse il libero controllo del materiale elettorale da parte della Corte Suprema “. Gli risposi che non potevo prendere una tale decisione perché sicuramente avrei provocato spargimento di sangue nel paese. Il ministro Lucifero disse: “Lo stesso scrupolo lo ebbe Vittorio Emanuele III nell’ottobre 1922: non firmò lo stato d’assedio, preferì affidare il governo a Mussolini, pur di non provocare spargimento di sangue: nobilissimo scrupolo, senza dubbio, ma davanti alla storia è diventato un capo di accusa “. Riconobbi che anche il mio scrupolo poteva diventare un capo di accusa: comunque ero disposto ad accettare qualsiasi sacrificio o condanna pur di impedire che un italiano uccidesse un altro italiano.

« Altri collaboratori e amici vennero a offrire aiuto, a illustrare piani di azione, a garantire il successo finale del conflitto: che io a tutti i costi intendevo evitare, Ci fu chi mi propose di partire immediatamente per Napoli dove avrei in breve tempo organizzato un piccolo esercito di fedelissimi per intraprendere poi la
marcia di liberazione del Nord. Risposi con una certa impazienza. ” Assurdo: i Savoia hanno unito l’Italia e io dovrei ora dividerla creando un nuovo Regno delle due Sicilie? ».

Umberto tace un istante, mi guarda e sorride: « Vorrà concedere a un re di dire una volta tanto una frase storica, soprattutto il giorno in cui si accinge a partire per l’esilio, anche se in genere non ho particolare simpatia per le frasi storiche »,

E’ questa rara capacità che Umberto possiede, di smitizzare il proprio personaggio, senza con questo diminuirsi, che gli guadagna immediata simpatia umana, al di sopra delle eventuali divergenze di opinioni. E merita rispetto la grande serenità con cui sa giudicare eventi che gli furono contrari e uomini che gli furono ostili. De Gasperi, ad esempio, è il personaggio per quale molti monarchici nutrono vivo rancore, perché la vera causa della caduta della monarchia, non a torto, viene attribuita al « voltafaccia » della Democrazia Cristiana che alla vigilia del referendum, benché nelle sue file i monarchici fossero parecchi, prese posizione a favore della repubblica. Ecco in proposito il giudizio di Umberto: « Non dimentichiamo che a un. certo momento, col cosiddetto vento del Nord corse tutta la penisola l’impressione, errata, come poi si vide, artificiosamente creata, ma in quel momento nettissima, che la monarchia fosse condannata a essere spazzata via da un plebiscitario trionfo repubblicano. Bene, stando così le cose non me la sentirei di biasimare a cuore leggero De Gasperi e gli altri dirigenti democristiani che, sia pure per eccesso di prudenza, non vollero mettere a repentaglio, legandolo all’incerta causa monarchica il successo elettorale del partito che poteva rappresentare per il paese, come in effetti fu, l’arca della salvezza in un frangente storico tempestoso ».

I, nostri colloqui ormai volgono alla fine. Avrei ancora molte cose da domandare, da puntualizzare. Il discorso riprende. Si parla della partenza per l’esilio.

Umberto dice: « In seguito su quell’evento è fiorita una ingenua e patetica leggenda. Non è vero che quando l’aereo si staccò dal suolo io piansi. Era troppo grave e solenne ciò che rimuginavo in quel momento. Proprio mi dimenticai di versare qualche lacrima. Vede, perdere il trono, per un re, non è disavventura di gran conto: incerti del mestiere di re, appunto.

« E nemmeno si può dire che la partenza di un re per l’esilio sia più dolorosa e drammatica della partenza di un qualsiasi mortale per un paese straniero dal quale non sa se e quando potrà tornare. Non è vero nemmeno che fulmini e tuoni siano stati compagni di quel viaggio. Certo il tempo era cattivo e fummo costretti a un atterraggio non previsto in Spagna anziché puntare direttamente su Lisbona. Ma niente di più.

« Vuol sapere cosa pensavo mentre l’aereo si alzava dal suolo? Vidi Roma laggiù, in una atmosfera plumbea: ma il sole, aprendosi un varco fra le nubi, gettava qua e là qualche macchia di luce. I pensieri che mi passavano per la mente li può immaginare. Pensavo anche alle parole del ministro Lucifero: mi domandavo come avrebbero giudicato gli italiani, di lì a dieci o vent’ anni, quella mia decisione di partire ».

Poi bruscamente si interrompe e per riportare il discorso su un tono più leggero mi chiede: «Lei è partito con l’aereo da Roma? ».

«Sì ».

«Com’era il tempo? ».

Riprendendo il suo gioco allusivo rispondo: «Ho Visto la campagna romana inondata di sole soltanto qualche piccola macchia scura vagante, ombre di nubi passeggere ».

« Sì – dice Umberto – se tornassi indietro non agirei diversamente da come agii vent’anni fa: non ho nulla da rimproverarmi, credo, per il gesto che concluse la mia breve carriera di re»