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Umberto giudica suo padre di Luigi Cavicchioli

Umberto giudica suo padre – di Luigi Cavicchioli – 1966 – 5

By Novembre 23, 2019Gennaio 24th, 2022No Comments

Umberto giudica suo padre

di Luigi Cavicchioli

Perché il re dopo la caduta di Mussolini non seguì la proposta di Dino Grandi di schierarsi subito al fianco degli alleati contro i tedeschi ?

Dobbiamo riconoscere che la via scelta da mio padre fu la più infausta Ma cosa sarebbe accaduto nel caso contrario ? Il Paese sarebbe stato esposto, ad una sicura e sanguinosa rappresaglia da parte dei tedeschi. Inutile rievocare qui le vicende belliche attraverso cui si giunse, di rovescio in rovescio, alla irrimediabile disfatta italiana, allo sbarco degli alleati in Sicilia. Arriviamo perciò al 25 luglio 1943: altro momento cruciale in cui furono in gioco le sorti del nostro Paese.

Gli italiani esultarono, quel giorno, apprendendo che la ventennale dittatura era finalmente caduta, il duce era stato arrestato e il re aveva affidato a Badoglio l’incarico di formare un nuovo governo. Storicamente fu senza alcun dubbio un fausto evento. Ma in termini pratici, da come si svilupparono di conseguenza le vicende successive, il popolo italiano ne ebbe un qualche beneficio o comunque una minor somma di sventure? No di certo: qualunque altra piega avessero preso gli eventi, di peggio non poteva capitarci, poiché i due anni che seguirono ci portarono a vivere l’esperienza più tragica e umiliante della nostra storia nazionale: una spietata guerra civile di cui per molti anni a venire avremmo scontato il duro prezzo di veleno e di odio, diviso in due il paese e occupato e devastato e spregiato da eserciti stranieri in lotta fra loro (se al nord subimmo la repubblica di Salò con un allucinato Mussolini ormai pietoso zimbello dei tedeschi, non si può certo definire riguardoso il trattamento che al sud gli alleati riservarono al nostro regio governo ufficiale e allo stesso sovrano).

Dino Grandi, ministro e diplomatico fascista, si dice fermamente convinto che tutto ciò poteva esserci risparmiato. Grandi. è l’uomo che, la notte fra, il 24 e il 25 luglio 1943, capeggiò la « rivolta » dei gerarchi riuniti in Gran Consiglio, mettendo ai voti il famoso ordine del giorno la cui approvazione costrinse Mussolini a presentarsi l’indomani dimissionario al sovrano. « Ma quel voto – egli dice – aveva un significato che fu tradito e uno scopo che non fu raggiunto: muoia il fascismo purché la patria viva, questo voleva dire, e lo stesso Mussolini in fondo ne era consapevole e consenziente, conosceva l’ordine del giorno che io stesso gli avevo sottoposto in anticipo, ne aveva valutato esattamente le conseguenze, tuttavia la sua reazione contro di noi fu blanda, lasciò che il destino seguisse il suo corso, intimamente convinto che il sacrificio suo e del regime era ormai indispensabile per salvare il paese dal baratro: purtroppo il nostro gesto rimase sterile, la grande occasione non fu colta, si lasciò che il paese precipitasse nel baratro ».

Dino Grandi, infatti, un’ora dopo la storica seduta, era già a colloquio col ministro della Real Casa Acquarone, al quale annunciò che il Gran Consiglio aveva votato la sfiducia e quindi spettava ora al sovrano trarne le conseguenze, dopo di che espose e caldeggiò di nuovo il suo piano: non esistevano – a suo avviso alternative, bisognava agire con estrema tempestività ed energia, comunicare ai tedeschi, subito, quel giorno stesso, con l’annuncio che il re aveva accettato le dimissioni di Mussolini  anche la ferma intenzione dell’Italia di desistere dalla lotta contro gli alleati. La reazione tedesca, prevedibile e anzi augurabile, ci avrebbe permesso di passare con sacrosanta ragione al contrattacco. Il re avrebbe dovuto indirizzare un proclama a tutti gli. italiani, esortandoli a serrare le file, senza più discriminazioni politiche superando le divergenze e dimenticando i rancori, nel momento decisivo per la salvezza della patria: forse potevamo fronteggiare con successo i tedeschi, che in quel momento erano presenti nel nostro paese soltanto con cinque divisioni di cui due impegnate in Sicilia, se l’ azione fosse stata concorde e tempestiva, prima che Hitler avesse il tempo di mandare contro di noi forze più massicce. E gli anglo-americani risalendo la penisola, avrebbero trovato l’esercito italiano, non più nemico, ma diventato di fatto, senza umilianti patteggiamenti, alleato, già impegnato nella lotta per la causa comune. Questo era il piano di Grandi, il quale indicò anche al ministro Acquarone il generale Caviglia come l’uomo cui affidare la responsabilità del governo. Acquarone fu, durante il colloquio, cortese ascoltatore, ma diede soltanto risposte evasive. Poche ore dopo Grandi apprese che il re, accettate le dimissioni di Mussolini, aveva passato a Badoglio l’incarico di formare il governo. E dalla radio udì con sgomento il famoso comunicato con le parole: « la guerra continua … l’I talia mantiene fede ai patti … » .

Quel comunicato – secondo Grandi – equivaleva a un insensato suicidio. Gli alleati avevano sempre sostenuto che soltanto Mussolini aveva voluto la guerra, ne facevano ricadere la responsabilità soltanto sul fascismo, non sulla nazione tutta. E Hitler soltanto da Mussolini poteva esigere a buon diritto il rispetto del patto di alleanza. Ora,caduto Mussolini, anziché trarre vantaggio dalla mutata situazione, il governo antifascista di Badoglio, come suo primo atto rivendicava a sé e alla nazione intera la responsabilità del conflitto, impegnandosi a continuare la lotta al fianco dei tedeschi. Grazie a, questa insensata decisione Hitler poteva con una parvenza di legittimità accusare di tradimento l’Italia, quando,di lì a due mesi, firmò l’armistizio. E gli alleati si videro costretti a ricordare che la guerra la facevano, non al fascismo soltanto, ma all’Italia.

Sulla tesi di Grandi ho sollecitato il parere di Umberto che ha risposto: « Quando un giudizio è unilaterale ci mostra spesso un volto seducente. Esposta così, a distanza di oltre vent’anni, la tesi del conte Grandi può apparire ineccepibile: la sola possibilità di evitare all’Italia tante sciagure e umiliazioni. E perché mai si agì in maniera diversa? Vediamo di considerare realisticamente la situazione di allora. Fino dagli ultimi mesi del 1942 mio padre aveva compreso che l’andamento disastroso della guerra avrebbe imposto, a breve scadenza, la necessità di decisioni estreme, per salvare il salvabile. Volle sondare lo stato d’anírno del paese, cercare una concreta via di scampo. Abilmente coadiuvato dal ministro Acquarone, che ai primi sondaggi si comportava come se agisse di iniziativa personale, il re prese contatto coi capi militari, con eminenti personalità dell’antifascismo quali Orlando e Bonomi, con intellettuali di varia estrazione politica. E la conclusione a cui giunse fu questa: il paese aspettava dal sovrano una decisione che togliesse dalle mani di Mussolini il potere e mettesse fine alla guerra, i capi militari e gli esponenti dell’antifascismo erano pronti a dare collaborazione e assumere responsabilità. Ma era semplicemente impensabile che si potesse accettare, in quell’estremo tentativo di salvare il paese, l’apporto diretto o indiretto del fascismo stesso o di una parte di esso. Grandi vagheggiava l’unione di tutti gli italiani in nome della patria in pericolo. Ma il paese non poteva adattarsi in un momento così grave a soluzioni ambigue. Tuttavia la costante preoccupazione del re – o se vuole diciamo pure la sua fissazione – era di agire nell’ambito costituzionale. E il movente costituzionale per promuovere una crisi di governo poteva offrirglielo soltanto il Gran Consiglio con un voto di sfiducia per la politica di Mussolini ».

« Il conte Grandi non lo dice e anzi parla con molto rispetto di Vittorio Emanuele III, ma ho avuto l’impressione che nasconda, con signorilità, una segreta amarezza, la convinzione d’essere stato ingannato dal re, il quale, ottenuto il movente costituzionale, cioè il voto di sfiducia del Gran Consiglio, ne avrebbe tradito lo spirito, evitando di coglierne le estreme conseguenze che potevano significare la salvezza del paese ».

« Il re – dice Umberto – non aveva impegni di sorta col conte Grandi, il quale agì al di fuori di ogni ambizione personale, conscio che il suo compito si esauriva con l’approvazione del sito ordine dei giorno da parte del Gran Consiglio. Il re, tuttavia, gli serbò gratitudine per la sua azione coraggiosa e stima per la sua intelligenza politica: più avanti, durante il regno del sud, si adoperò per averlo come ministro al governo, ma non fu possibile smuovere il veto degli alleati ».

« Sta bene, è logico che dopo il disastroso bilancio con cui si chiudeva la politica del regime, il paese rifiutasse la collaborazione diretta o indiretta dei fascisti, anche di quelli che in Gran Consiglio avevano onestamente chiamato il regime alla resa dei conti. Ma Badoglio al quale il re affidava le sorti del paese in un momento così grave, era un soldato: più coerente sarebbe stato, da parte sua, mettere subito le carte in tavola, con coraggiosa franchezza, accettando il rischio della reazione tedesca».

« Certo – dice Umberto-se consideriamo la sorte che ci toccò nei due anni successivi, dobbiamo riconoscere che la via scelta dal re e dal suo governo subito dopo la caduta di Mussolini fu la più infausta: nessun’altra poteva condurci a conseguenze più dolorose. Ammesso ciò, domandiamoci cosa sarebbe accaduto se il nuovo governo italiano avesse manifestato subito, il 25 luglio, la ferma intenzione di uscire dal conflitto. La reazione tedesca non sarebbe mancata. E la parte peggiore del fascismo – non dimentichiamo che alla seduta del Gran Consiglio ci furono anche i fedelissimi che confermarono la fiducia a Mussolini – ne avrebbe approfittato per scatenare nel paese la violenza e la vendetta: almeno era lecito supporre che ciò accadesse. E’ vero che le divisioni tedesche in Italia erano allora soltanto cinque. Sufficienti, tuttavia, per stroncare nel volgere di poche ore qualsiasi velleità di resistenza da parte nostra, poiché il 25 luglio, è doloroso riconoscerlo, non eravamo in grado di sostenere una efficace difesa. Dunque significava esporre il paese a una sicura e sanguinosa rappresaglia. Si preferì tentare una via che prometteva, certo, più cocenti umiliazioni, ma lasciava la speranza dì pagare un minor prezzo di sangue. Temporeggiare, per organizzare un minimo di difesa, sperando – soprattutto di raggiungere un accordo segreto con gli alleati per una azione coordinata. Uno sbarco alleato a nord di Roma, prima che fosse annunciato il nostro armistizio, poteva significare molto per noi: la salvezza della capitale, la possibilità di riorganizzare l’esercito e dare quindi un contributo effettivo alla lotta di liberazione del resto d’Italia. Speranze deluse, purtroppo ».

« Ma era lecito sperare? Il governo Badoglio mandò il generale Castellano allo sbaraglio, in Spagna e in Portogallo, senza credenziali, senza documenti di identificazione, con l’ordine di arrangiarsi, tentare per vie diplomatiche di entrare in contatto con qualche comando alleato, offrire la pace, cercando di ottenere le migliori condizioni possibili. Fortunosamente il Generale Castellano riuscì a compiere la missione: ma fu costretto a svendere la merce a prezzo fallimentare, perché gli alleati non intendevano mercanteggiare, esigevano la resa incondizionata e l’immediata firma dell’armistizio, riservandosi di darne l’annuncio quando lo ritenessero opportuno, senza informare il nostro governo con quel minimo di anticipo necessario perché almeno la rappresaglia tedesca non ci cogliesse di sorpresa. O prendere o lasciare. Di qui lo sfacelo dell’otto settembre. Ma non era follia sperare che gli alleati regolassero la loro condotta di guerra secondo i nostri interessi e avessero in noi tanta fiducia da metterci al corrente dei loro piani strategici? ».

« Certo, non si può negarlo, peccammo di ingenuità e faciloneria nel condurre le trattative per l’armistizio. Né basta a giustificarci il fatto che a guerra finita i comandi alleati abbiano lealmente ammesso che fu un errore la diffidenza verso di noi e che una azione coordinata poteva creare le premesse per una più rapida conclusione del conflitto ».

« La partenza del re e del governo da Roma, nel settembre 1943, dopo l’annuncio dell’armistizio, è considerata da molti una pagina vergognosa nella storia della monarchia Sabauda: cosa ne pensa? ».

« Fu la propaganda fascista al tempo della repubblica di Salò – risponde – che spacciò la cosiddetta fuga a Pescara come un episodio di per sé vergognoso: e tale è rimasto, per quel curioso fenomeno che ci fa accettare come verità i luoghi comuni, senza che ci sovvenga di verificarne la logica. Fu un episodio amaro, non c’è dubbio. Ma perché mai vergognoso? Io stesso, lo ammetto, fui penosamente colpito da certi particolari, più di forma che di sostanza: una certa aria di smobilitazione, certe disposizioni impartite pensando ad altro, certe cose dimenticate per la fretta, certe giacchette, certe barbe mal rasate. Avrei preferito proprio in quella occasione, una certa solennità, che in genere considero superflua. Ma la partenza era una necessità assoluta. Il re, quando gli dissero che la difesa di Roma era ormai impossibile e occorreva partire, rispose vivacemente che preferiva restare, non aveva nulla da temere. Fu una reazione istintiva: ma subito si rese conto che partire era un preciso dovere, perchè se il re e i ministri fossero caduti prigionieri dei tedeschi, il contraccolpo psicologico avrebbe avuto ripercussioni gravissime in tutto il paese. Occorreva invece garantire ad ogni costo la continuità dello stato, trasferire in luogo sicuro i poteri, affiancare al comando alleato un governo costituzionale, riorganizzare l’esercito, salvare i valori essenziali. Partire era un preciso dovere, anche se, lo ripeto, colsi con rammarico certe umane debolezze, mi indispose una certa sciatteria formale ».

« Si è detto, tuttavia, che lei non voleva partire e si rassegnò soltanto quando suo padre, dopo un vivace battibecco, le ordinò di obbedire ».

« Non è esatto. Io ero un ufficiale e mio dovere era quello di eseguire gli ordini superiori. Quando, in una sosta del viaggio, qualcuno si chiese se non fosse opportuno ripristinare un più stretto contatto con la capitale abbandonata, io mi offrii di tornare. La proposta fu discussa e alla fine si convenne che la presenza del principe ereditario a Roma poteva essere più dannosa che utile, inasprire la rappresaglia tedesca, suscitare disappunto nei comandi alleati. Ripresi il viaggio senza sollevare altre obiezioni ».

« Non mancano, però, anche fra i monarchici, coloro che le fanno colpa di questa condiscendenza, ritenendo che se lei, anziché restare nel sud, avesse… ».

« Lo so cosa si disse: che dovevo farmi paracadutare in una località degli Appennini e prendere il comando di una formazione partigiana. Si disse che se il principe ereditario avesse osato tanto, gli italiani avrebbero dimenticato le colpe della monarchia, il trono sabaudo si sarebbe salvato. Certo, sarebbe stato un bel gesto, clamoroso. Ma chi ne avrebbe tratto giovamento? La causa monarchica, senza dubbio. E poi? A cos’altro poteva servire? Che beneficio ne avrebbe avuto il paese? 1 partigiani del nord (ce n’erano anche di monarchici) sapevano cavarsela benissimo senza di me. Non fu questione di rischio. Lei ricorda quel tempo? Ogni italiano rischiava tutti i giorni la vita. Anche a me accadde alcune volte di trovarmi in situazioni critiche sorvolando con un ricognitore le linee tedesche. Ero un ufficiale, avevo un compito preciso da svolgere: credo che la mia presenza, se mai, fosse di qualche utilità al sud, dove c’era un piccolo esercito italiano da  organizzare e animare, per dare un sia pur modesto contributo alla causa comune, combattendo accanto agli alleati. Farmi paracadutare fra i partigiani del nord: sarebbe stato un gesto propagandistico, quasi sfacciato, indisponente. Un vero e proprio asso nella manica per la salvezza del trono sabaudo: non lo nego. Ma le dirò, francamente, che in quel tragico anno, lo creda o non lo creda, cercare buone carte per salvare il trono era l’ultima delle mie preoccupazioni ».