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Mussolini e il Re mio padre di Silvio Maurano

Mussolini e il Re mio padre – di Silvio Maurano – 9

By Dicembre 23, 2019Gennaio 24th, 2022No Comments

Il 25 Luglio

* Comunque fosse andata la seduta del Gran Consiglio l’azione decisa dal Re si sarebbe svolta egualmente, con la variante che non soltanto Mussolini sarebbe stato arrestato ma pure tutti gli alti esponenti del fascismo, tenuti all’oscuro del piano che doveva essere attuato il 25 luglio

* La regina Elena rimase effettivamente molto addolorata perché l’arresto di Mussolini era avvenuto proprio nel recinto della residenza reale

Domando a Umberto di Savoia: «In quale momento la Corona comprese che Mussolini stava portandola verso il precipizio?».
«Non si può stabilire una data precisa – risponde Umberto. Fin dal primo giorno, si può dire, Mussolini aveva tenuto il Re mio padre sotto un alternarsi di blandizie e di colpi di testa, alternando azioni di governo di grande saggezza ad azioni dittatoriali insopportabili quanto inutili e ingiustificabili. Il moltissimo di buono che fu fatto nei primi diciotto anni di governo non era necessariamente legato al moltissimo di male che era fatto, e cioè dittatura di partito, imposizioni nella vita privata dei cittadini, eccetera. Si poteva fare la parte buona senza alcuna necessità di infierire sui cittadini e senza privare gli italiani di tutte le libertà. Era questa condotta incoerente di Mussolini che teneva sempre sospeso il giudizio della Corona: ma credo di poter dire che alla vigilia della guerra, al momento in cui apparve evidente che l’Italia veniva legata alla pazzia hitleriana, il Re mio padre cominciò a pensare al modo di premunire l’Italia contro avventure sempre più disastrose. Ma lei comprende che era necessario che si verificassero alcune condizioni indispensabili: anzitutto, una condizione “costituzionale”, ordinaria o straordinaria – cioè una crisi politica parlamentare o del Gran Consiglio, oppure una evidente insofferenza il del1a massa dei cittadini – ovvero un manifestarsi di forze avverse potenti sulle quali il Sovrano potesse contare per agire. Di tutte queste condizioni non una si presentò fino al 1943, e non è possibile affermare il contrario senza peccare contro la verità storica. Del malumore di talune sfere fasciste sin dal 1937 abbiamo parlato: ma era ben difficile che coloro che venivano in Quirinale a dolersi del duce che li aveva estromessi da cariche importanti, conservassero ancora soltanto un briciolo di autorità o di potenza. Essi si ricordavano che esisteva il Sovrano solo quando erano in urto con la dittatura, il che davvero era troppo comodo. Il Gran Consiglio non era stato mai più convocato durante la guerra, né era stato consultato per decidere la guerra. La Camera, sappiamo come fosse “nominata” anziché “eletta” e quindi era incapace di una qualsiasi decisione. Il popolo, fino all’estate del 1942, credeva ancora troppo in Mussolini perché si potesse contare su una compatta sollevazione degli animi, ove il Re avesse preso una decisione drastica. Quanto all’Esercito, Mussolini era riuscito abilmente a mettere l’uno contro l’altro i maggiori esponenti e aveva potuto tenerselo abbastanza amico, finché non avvenne che la quantità e la qualità dei silurati superò quelle dei favoriti».

Dico che dalle varie memorie finora pubblicate risulta che il duca Acquarone ebbe direttive dal Re di iniziare lo studio del provvedimento risolutivo nel mese di marzo del 1943. Umberto riflette alquanto, consulta degli appunti e dice: «Questo fu il coronamento, non l’inizio della decisione, in realtà, alcuni degli elementi essenziali per l’azione cominciarono a presentarsi fin dall’autunno precedente, da quella battaglia di El Alamein che irritò profondamente non soltanto il Re mio padre ma anche le sfere superiori militari, che si vedevano imporre dal dittatore una condotta di guerra insensata che era facile prevedere disastrosa. Fin dall’autunno del 1942 cominciarono ad affluire in Quirinale alte personalità militari, perfino il vecchissimo generale Zuppelli, per invocare l’intervento della Corona a far cessare la follia. Nella primavera anche il generale Ambrosio fece conoscere il suo piano: occorreva tagliare netto col regime e cercare una via di uscita dall’avventura. Con questa azione era concomitante il rapidissimo decadere del prestigio di Mussolini fra le masse. Ricorda il “grido di dolore”? ».
« Già! – dico. – Il proclama di Vittorio Emanuele II per la guerra del ’59… ».

«Bene – continua Umberto di Savoia – il grido di dolore che da tutta la Nazione giungeva in Quirinale non era più un grido metaforico, era un grido autentico. Era un dolore fatto di case distrutte, di famiglie falcidiate, di centinaia di migliaia di madri e di spose in lutto che avevano perduto ogni speranza di rivedere il loro uomo sperduto nelle steppe russe o nel deserto libico, nelle savane etiopiche o nelle forre balcaniche. E’ pur vero che le donne italiane hanno sempre saputo attendere con coraggio quando sono state in gioco le sorti della Patria: ma occorre che ci sia un briciolo di speranza nella vittoria per rendere l’attesa sopportabile e il sacrificio fonte di orgoglio. Nel luglio del 1943 gli italiani, che non sapevano di armi segrete, non credevano più minimamente alla possibilità di vittoria, e subivano il martirio delle incursioni nemiche ritenendosi vittime della ostinazione di Mussolini. La catastrofe di Russia, quella duplice d’Africa, le sanguinose difficoltà che si incontravano per tenere le nuove province dalmate e i Balcani in genere, l’afflusso disordinato degli sbandati dalla Sicilia, la conosciuta carenza di mezzi di offesa e di difesa, specialmente di aerei, avevano dato un colpo mortale al morale della popolazione».

« Sicché – dico – non si attendeva la riunione del Gran Consiglio?» .

«No assolutamente – risponde Umberto – La decisione era stata presa e sarebbe stata realizzata in ogni caso entro la fine di luglio».
«Ma – mi permetto di obbiettare – persone anche autorevoli hanno scritto che la decisione fu subordinata alla convocazione del Gran Consiglio che Grandi aveva richiesto».
«Non è esatto – dice Umberto – anzitutto perché non fu Grandi a chiedere la convocazione del Gran Consiglio, ma Farinacci per altri scopi; e poi perché Grandi e Ciano non erano stati tenuti al corrente dell’azione che si stava preparando. Comunque fosse andata la seduta del Gran Consiglio, l’azione si sarebbe svolta egualmente, con la variante che non il solo Mussolini sarebbe stato arrestato, ma anche tutti gli esponenti del fascismo, nelle loro case. Si deve entrare in questo ordine di idee: il Re mio padre non mirava a compiere vendette personali che sarebbero state meschine, bensì a risolvere una situazione insostenibile. Agiva per il bene della Nazione, non contro questi o a favore di quelli ».
Umberto fa gesti di disapprovazione quando gli dico che non pochi ritengono, ancor oggi, che sarebbe stato meglio cadere in piedi come la Germania.

Politica del castigo

Dice: «Anzitutto ci voleva uno spirito profetico per sapere che gli Alleati si sarebbero poi comportati come si comportarono in spregio alle promesse fatte. Poi, la nostra situazione era ben diversa da quella tedesca, era infinitamente peggiore. Non avevamo rifugi antiaerei sufficienti per numero e qualità, né eravamo attrezzati nemmeno spiritualmente per una resistenza estrema che sarebbe parsa insensata alla maggior parte della popolazione. Un conto è un reparto militare che si asserraglia in una fortezza e si batte fino all’ultimo per l’onore della bandiera; e altro conto è una Nazione intera con i suoi bambini, i suoi vecchi, le sue donne, i suoi invalidi che si condanni alla distruzione. La Corona non rappresenta soltanto poche migliaia di eroi o di aspiranti eroi: rappresenta anche decine di bambini di inermi che ha il dovere di salvaguardare da pericoli immani. Noi eravamo di fatto inermi contro una associazione di nazioni potentissime che Hitler era riuscito a tirarsi addosso con una politica veramente assurda. Potevamo forse credere che gli Alleati ci avrebbero accordato una pace peggiore della totale disfatta se anche il Re avesse creduto nelle armi segrete, la delusione sarebbe stata grande e ancor più grande sarebbe stato il castigo che gli Alleati ci avrebbero inflitto a vittoria raggiunta. Tenga presente che la politica del castigo, inaugurata da Wilson e continuata da Roosvelt eppoi da Truman cadde sulla Germania meno duramente dì quel che si premeditava – a parte il processo di Norimberga che non fu certo una cosa molto intelligente – perché sopravvennero le complicazioni fra Inghilterra e Russia, il che fece capire agli occidentali che non conveniva distruggere del tutto la Germania perché poteva essere utile in seguito. Ma verso di noi gli Alleati non avrebbero avuto alcun motivo di benevolenza se li avessimo costretti a combattere ancora per un anno! Tenga presente che l’autonomismo siciliano fu predisposto in America per il caso che non ci fossimo arresi, e sarebbe stato condotto a fine senza scrupoli .

Sul come si svolse l’ultimo colloquio tra Vittorio Emanuele III e Mussolini, Umberto non ha nulla da dire: non era presente. Dice soltanto che le cose andarono più lisce di quanto si pensasse, e che Mussolini non ebbe il tempo di esporre il suo punto di vista poiché il Sovrano, che aveva in mano il resoconto sommario della riunione del Gran Consiglio che gli aveva fatto pervenire De Vecchi, immediatamente gli disse che «così non si può andare avanti, ed è necessario cambiare il governo» per cui gli annunziò di aver dato l’incarico a Badoglio. Il gen. Puntoni, che era il solo in grado di sentire la discussione essendo stato invitato dal Re a tenersi per ogni evento in una stanza attigua, non riuscì ad afferrare che poche parole in tutto. Ma Umberto dice che « la sola nota drammatica in quell’incontro fu data dal penoso accasciamento di Mussolini quando gli fu detto che era destituito». Aggiunge che le assicurazioni che il Sovrano diede a Mussolini, che temeva per la sua vita, furono effettive. Se Badoglio, poi, disobbedì al Re e fece spiacevoli vendette personali, è altra faccenda.
Avendo io accennato all’episodio della Regina che giusta quanto reiteratamente pubblicato – avrebbe protestato perché si era arrestato Mussolini nella residenza reale, secondo quanto aveva perentoriamente richiesto il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Cerica, Umberto mi ferma con un gesto e dice: «E’ vero, ma non è tutta la verità, questa. La Regina mia madre effettivamente rimase molto addolorata perché l’arresto era avvenuto nel recinto della residenza reale; ma ciò non deve significare che il Re mio padre fosse stato indifferente alla cosa, come se ritenesse che il fine giustifica qualsiasi mezzo. Il generale Puntoni ha riferito che la scena tra al Re mio padre e il duca Acquarone, che gli recava notizia dell’intenzione del generale Cerica, fu davvero drammatica: ma come al solito, anche gli avversari di Mussolini usarono il sistema del fatto compiuto, in quanto presentarono la richiesta all’ultimo momento, quando non era più possibile studiare un altro sistema. Onestamente si deve riconoscere che la richiesta del generale Carica era più che fondata: arrestare Mussolini sulla strada rendeva infinitamente più delicata l’operazione, in quanto egli era scortato da tre vetture di agenti a lui fedeli. Bastava una scarica di mitra per allarmare tutta la città e per provocare Dio sa quali complicazioni! Oltre tutto, non si poteva sapere che Mussolini non aveva predisposto una azione automatica di reazione e che il gran colpo sarebbe stato un pugno nel vuoto. Tutto invece faceva presumere che immediatamente dopo l’Esercito avrebbe dovuto distrarsi dalla guerra contro le forze straniere per dedicarsi a piegare le forze della Milizia, che disponevano di alcuni battaglioni “M” e di una intera divisione, alle dipendenze del Capo di Stato maggiore Galbiati, che era la sola a essere armata con carri “Tigre” forniti dai tedeschi. Non soltanto i generali Ambrosio e Cerica prevedevano difficoltà gravi, ma lo stesso Sovrano, che pertanto a malincuore accettò la richiesta di far agire nel recinto di villa Ada, a condizione però che tutto avvenisse fuori della sua presenza e dopo che aveva congedato Mussolini privandolo della carica che ancora deteneva. Non vi era altra via: agire come voleva l’Arma, oppure rinviare l’azione correndo il rischio di lasciare a Mussolini il tempo di vendicarsi. Era più importante risolvere il problema che interessava la Nazione anziché evitare che l’operazione avvenisse nei viali della villa, ritengo. Ma non per questo si deve dire che il Re mio padre rimanesse indifferente. Caso mai, si deve dire che compì un ulteriore sacrificio per il bene della Nazione!

Umberto è certo che Vittorio Emanuele III fece studiare tutte le possibilità e volle essere tenuto minuziosamente al corrente di quanto si preparava: non ebbe altra scelta. Ripete che Vittorio Emanuele III fece un penoso sacrificio consentendo che l’arresto avvenisse in quella forma, per evitare ripercussioni pericolose per l’ordine pubblico.
Certo, che sarebbe avvenuto se l’arresto di Mussolini fosse stato fatto sulla pubblica e strada? E che sarebbe successo se Galbiati avesse portato i suoi carri «Tigre», nelle vie e di Roma, subito spalleggiato, certamente, dalle divisioni tedesche che non erano lontane da Roma? Avremmo anticipato di due o tre mesi quel che avvenne dopo, con maggior confusione e maggior danno. «No – afferma Umberto – le cose furono fatte nel solo modo possibile!». E aggiunge, a proposito dell’ipotesi avanzata d’una reazione eventuale della divisione corazzata della Milizia, ch’essa sarebbe stata insensata e drammatica nelle sue conseguenze; ma precisa anche che non si può dire che tutti i militi, sapendo come erano andate le cose, si sarebbero sentiti di portare le armi contro il Re e contro l’Esercito.

A questo punto, secondo gli accordi preliminari, dovevano aver termine i colloqui con Umberto di Savoia. Gli ho chiesto tuttavia se potevamo prolungare l’argomento fino a toccare due questioni: la prima: la partenza della famiglia reale da Roma l’8 settembre; la seconda: la nomina del successore di Mussolini. Umberto ha acconsentito e mi ha chiesto che cosa volessi sapere.
V’è chi avrebbe voluto – dico – che il vecchio Re, o uno dei principi dei rami collaterali – Pistoia o Bergamo o Genova o Spoleto – fosse rimasto in Roma l’8 settembre a farsi immolare dai tedeschi, per dare l’esempio. Umberto, che di solito tiene le mani unite sui ginocchi, fa il gesto che gli è abituale quando la conversazione prende aspetti difficili: apre le mani con le palme in fuori, come a indicare che non vede come possano essere andate le cose diversamente. E dice: «Bisogna vedere le cose da un lato meno spettacolare e più pratico. Non credo che la Nazione si aspettasse da un principe della mia Casa un gesto del genere. E non credo che una sola persona possa aver dubitato che un principe di Casa Savoia potesse temere di affrontare anche la morte! Se il Re mio padre avesse ordinato a uno dei principi di restare in Roma e di sacrificarsi, nessun dubbio che ciò sarebbe avvenuto nella massima dignità; del resto, l’esempio dato da mia sorella Mafalda credo sia bastante per dimostrare l’assurdità di un sospetto di timore. La verità è molto diversa, ed è bene che la si conosca e vi si mediti sopra: il Re mio padre aveva dovuto sostenere una lunga lotta per far accettare l’idea di Roma città aperta, per risparmiare alla capitale civile, storica e religiosa l’oltraggio dei bombardamenti. Purtroppo vi erano già stati due bombardamenti severissimi, il 19 luglio e il 13 agosto; ma vi era anche da prevedere che Roma, se in essa fosse rimasto un principe a dirigere le operazioni di resistenza, sarebbe stata trattata anche più severamente dal nuovo nemico, che non avrebbe certamente risparmiato di colpire, proprio le basiliche e la sede stessa del Pontefice, per evidente rancore ideologico. Che alcuni reparti armati abbiano imbastito una eroica resistenza, si comprende: il salvare l’onore è ancora un privilegio rispettabile per qualsiasi soldato. Sotto questo punto di vista sarà opportuno rivedere anche quel che è stato scritto a proposito del rifiuto del maresciallo Badoglio di ricevere a rinforzo una divisione paracadutista americana: la battaglia sarebbe infuriata intorno a Roma e dentro Roma. Diversa cosa sarebbe stata se gli Alleati avessero divisato di sbarcare in forze al parallelo di Livorno o di Grosseto, perché allora Roma si sarebbe trovata nelle lontane retrovie. Ma consideri che l’assenza di un principe della Casa in Roma dopo l’8 settembre fu proprio frutto di matura e saggia decisione del Re mio padre».

Difficile scelta

Per al prima volta nel corso delle conversazioni il tono della voce di Umberto si è lievemente alterato. E’ il capo della Famiglia Reale che respinge con sdegno l’insinuazione.
Passo alla seconda questione: come fu scelto il successore di Mussolini. Il che è ancora un mistero per gran parte dell’opinione pubblica.
«Non sappiamo esattamente – dico – per quale motivo il Re chiamò proprio Badoglio al potere, e non Dino Grandi, che era il capo della rivolta di palazzo», o uno degli uomini illustri del prefascismo. Giolitti ormai scomparso, vi erano infatti sulla scena uomini del calibro di Orlando, Bonomi, Bergamini. Perché mai non furono chiamati a raccogliere l’eredità di Mussolini? ». ,

Umberto riflette alquanto, poi lentamente dice:
«La scelta, indubbiamente, non fu facile per il Re mio padre, anche perché la ressa dei candidati alla successione era considerevole. Moltissimi si sentivano capaci di risolvere una situazione impossibile, meno coloro che certamente erano i più adatti, fra cui gli onorevoli Orlando, Bonomi e Bergamini Coloro che sarebbero stati, in un certo senso, i più adatti, erano anche i più perplessi, perché la situazione era tale da non invogliare a quello che sarebbe stato probabilmente un sacrificio delle personali ambizioni per l’avvenire. Viceversa affluivano fino al Quirinale le voci di persone che assolutamente non erano adatte al momento e alla bisogna. Il Re mio padre non ebbe mai tanti premurosi, e spesso facili consiglieri quanti in quel periodo! Invece mancava proprio l’uomo politico capace di chiamare intorno a sé la solidarietà di tutta la Nazione, come sarebbe stato necessario. Indubbiamente ebbe un peso decisivo la necessità di assicurare la fedeltà e la coesione delle Forze Armate, il cui prestigio nella Nazione era sempre altissimo, in quanto tutte le sconfitte venivano dall’opinione pubblica giustamente addebitate a una condotta di guerra fantasiosa e non al valore dei combattenti e dei quadri. Inoltre, la successione non era una questione formale come avviene in un Parlamento democratico in seguito a una votazione: il Re mio padre aveva a sua disposizione questi elementi: la Nazione era stanca delle vere e proprie vessazioni inflittele dal partito fascista; la Nazione condannava Mussolini per la sua imprudenza, e con Mussolini condannava il suo partito e i suoi esponenti, anche pentiti; una soluzione meramente politica mancava della base necessaria, cioè di un partito o di un gruppo di partiti organizzati inoltre, una soluzione politica avrebbe implicato in piena guerra e alla vigilia di decisioni di grandissimo peso, lo sfasciamento dell’organizzazione statale fascista, il che avrebbe complicato vieppiù, una situazione complicatissima; le Forze Armate potevano essere concordi sul nome di Badoglio ».

Ognuno il suo dovere

Così come stavano le cose non si poteva che affidare a Badoglio l’incarico di liquidare insieme il fascismo e la guerra. Che poi Badoglio abbia eseguito male il compito affidatogli, mettendoci, invece del suo impegno, tutto il suo fiele, e un non sempre spiegabile spirito di rappresaglia, è un’altra cosa. La Storia lo giudicherà per quello che fece di bene e di male, dal Sabotino a Caporetto, dall’Etiopia all’8 settembre. A questo punto mi viene di dire:
«Possiamo, allora, se Vostra Maestà lo permette, modificare la frase che riguardava la condotta di guerra e dire: “La politica è una cosa troppo seria per farla fare ai generali”?».

Umberto di Savoia sorride e conclude:
«Diciamo che in ogni settore ognuno deve portare la sua competenza e non assumere compiti che non è in grado di svolgere. Lo Stato moderno è una macchina così terribilmente complessa che per funzionare a dovere occorre che si impieghino le specializzazioni addirittura dettagliatissime, e non più le competenze generiche che bastavano quando gli Stati vivevano quasi patriarcalmente. Faccia ognuno il suo dovere secondo coscienza e secondo capacità: e non saprei davvero se sia più necessario avere coscienza o avere capacità, in quanto è necessario che siano operanti entrambe! Senza di che, come si vede giorno per giorno, non solo gli Stati ma tutta intera l’umanità va alla deriva. Soprattutto si ricordi che la società moderna non potrà avere pace finché non avrà trovato un equilibrio sociale che renda giustizia alle masse di lavoratori: non è compito mio dire quale debba essere questo assetto, ma è necessario che ci pensino seriamente gli uomini politici se non vogliono portare l’umanità alla catastrofe!»