Skip to main content
Interviste 65-83

Intervista rilasciata a Lucio Lami de “Il giornale” 1979 prima parte

By Dicembre 16, 2019Novembre 19th, 2021No Comments

Lucio Lami – Il Giornale

 

Villa Italia è una via di mezzo tra la casa di campagna di un signore inglese e una piccola reggia italiana: se non fosse per quell’aria vissuta che la rende accogliente sarebbe anche un po’ un museo. A una decina d’anni dalla mia prima visita, rivedo il divanetto e le poltrone dove vengono fatti accomodare gli ospiti, il grande ritratto di Vittorio Emanuele III, quello di Maria José, lo scrittoio coperto di libri, il grande tavolo con gli oggetti ricordo. Sulla parete principale, dentro una cornice d’oro, lo stendardo sfilacciato del Savoia Cavalleria, quello che nel 1942 sventolo a Insbucenskij durante l’ultima carica.

Re Umberto II con lo stendardo del Savoia Cavalleria

Re Umberto II con lo stendardo del Savoia Cavalleria

Umberto entra a passo spedito. Mi sembra assai diverso da come è apparso recentemente alla televisione: molto più giovanile. Mi chiede dell’Italia, del Giornale, dello sciopero degli uomini radar . Sembra notevolmente informato su tutto. Gli parlo del seguito che ha avuto la trasmissione televisiva  “Il piccolo re” della quale ovviamente, non apprezza il titolo. Allarga il discorso all’informazione in generale, nota quanto sia difficile, ancor oggi, fare discorsi spassionati su fatti che ormai appartengono al passato, dice di aver letto su un giornale italiano di questi gironi che Umberto, l’8 settembre del 1943, se ne stava in uno scantinato.

Ci mancava anche questa“. Dice ridendo.

Ne approfitto per entrare nel tema.

I suoi biografi sostengono che certe sue posizioni di totale obbedienza al padre, anche in momenti cruciali per il trono, vanno ricercate nella sua abitudine militare  di non discutere gli ordini. In parole povere , si dice che le origini di questi atteggiamenti sprofondano freudianamente nella sua infanzia. Maestà lei è stato un ragazzo represso?

Dicono che fui allevato con una educazione rigidissima. Addirittura inconcepibile, se si giudica col metro di oggi. Ma è un errore di ottica giudicare oggi per allora, senza tener conto delle situazioni. Resta il fatto che la mia fu un educazione militare e lei sa cosa significhi il termine “militare” se rapportato a sessant’anni fa. Io stesso credo di aver dato segni di non gradirne quel peso. Ma allora, nella mia Casa, si usava così: a nessuno sarebbe mai passato per la mente di farmi diventare un buon letterato o un esperto giurista. I Savoia erano re soldati e si preparavano fin da bambini a questo destino. Con mio padre avevo i contatti normali, nell’ambito di questa educazione. Si è scritto che erano contatti inesistenti, ma non è giusto. solo che dopo averlo incontrato mi guardavo bene dal dire a chicchessia se l’incontro era stato oggetto di tenerezze o di contrasti. Questo tipo di commenti, per tradizione, era bandito. Anche i colloqui familiari rispettavano questa regola“.

Insomma era un educazione troppo dura ma inevitabile per un principe di quei tempi?

Non per un principe, per un Savoia. I figli degli altri sovrani, specie i tedeschi e gli inglesi, che io invidiavo, andavano nei college dove vivevano come gli altri ragazzi, si avventuravano in magnifiche scazzottate in seguito alle quali finivano in infermeria. Io in tutta la mia vita non ho mai partecipato ad un gioco collettivo, a una chiassata, non ho mai ricevuto uno spintone e ovviamente, non ne ho mai dato uno“.

Così anche l’8 settembre…

Sull’8 settembre si sono scritte molte inesattezze. Anche nel diario di Puntoni, che pure è uno dei testi più validi, ce ne sono tante. Persino Grandi lo fece notare all’autore, rudemente. Io non ho mai pronunciato la famosa frase :” Dio che figura!” per il semplice fatto che a tenermi tanto agitato non era la figura male conseguenze politiche di un avvenimento che si stava svolgendo in modo ben diverso da come era stato ipotizzato e progettato. A me, giunto a Roma da poco. era stato detto che il re aveva accettato il piano di trasferire la famiglia reale ed il governo in altro luogo del territorio italiano che non fosse occupato né dai tedeschi né dagli americani. Questo per garantire la continuità del governo e una politica che era favorevolmente iniziata il 25 luglio. Si dice che durante il viaggio io dissentivo. E’ vero, ma non dalla decisone di mio padre, che mi è sempre parsa meditata, ma da come i fatti si andavano evolvendo. Era evidente, infatti, che nonostante le assicurazioni che Badoglio continuava a dare al re, preoccupatissimo, buona parte dei ministri non si erano presentati all’appuntamento, evidentemente perché non informati. Io mi dicevo; che cosa accadrà domani quando quei ministri si alzeranno dal letto e scopriranno che noi non ci siamo più? Diranno . “Ecco, loro se ne sono andati e hanno lasciato noi nella peste”. Con quale animo ci saremmo presentati a Roma ( di lì a pochi giorni, si pensava allora) e avremmo incontrato questi membri del governo? O peggio, se fossero stati arrestati, deportati o uccisi dai tedeschi, noi quali giustificazioni avremmo dato? Fortunatamente, non accadde nulla a nessuno, ma quando io rientrai a Roma e rividi quelle persone come Luogotenente , mi avvidi presto che alcune di loro mi portavano, come era ovvio del rancore. Tutto questo mi agitava, l’8 settembre. Mio padre che pure era più freddo nelle emozioni, continuava tuttavia a chiedere a Badoglio : ” Li ha proprio avvertiti tutti?”. Ecco cosa mi agitava: trovavo giusta l’idea di un trasferimento, ma non organizzato in quel modo, non dimenticando nella precipitazione metà governo a Roma…”.

I suoi biografi si sono spesso posti delle domande che richiedono una sua risposta. E’ accaduto anche nella recente trasmissione televisiva. Vorrei sottoporgliene alcune. Per esempio: è vero che lei mantenne un contegno diffidente verso chi, nel 42, cercava di preparare, negli ambienti della principessa Maria José, una rivolta contro Mussolini?

In effetti credevo che quella fosse la strada giusta: attorno alla principessa c’erano delle signore che si agitavano moltissimo, ma che poi, interrogate singolarmente, dicevano di non voler essere coinvolte, di fare solo da tramite. Erano quelle, piccole rivoluzioni all’ora del thè: venivano a chiedermi di prendere iniziative di fronte alle quali poi si spaventavano. Noi ci ponevamo il problema con maggio coscienza dei rischi. A quel tempo, per esempio, ci domandavamo come e con quali mezzi avrebbe reagito la Milizia, che era il piccolo esercito personale di Mussolini. Dopo il Gran Consiglio, che destituì il capo del fascismo, fu chiaro che la Milizia non si sarebbe mossa, ma nel 1942 la situazione non era così chiara“.

Molti storici sostengono che se il re avesse abdicato in favore del nipote anziché del figlio, avrebbe conservato il trono.

Lo so: tutti dicono: se le reggenza fosse passata al piccolo Vittorio Emanuele… Oggi questa tesi sa del senno del poi. Allora era cara ad un gruppo di politici che miravano alla repubblica o a persone che pensavano di reggere in proprio la le sorti della corona in attesa che il piccolo Vittorio Emanuele crescesse. Insomma era una proposta  così poco disinteressata che non dava affidamento”.

Si parla anche dei suoi disaccordi col re durante il periodo della reggenza.

“In effetti nell’entourage della corte si erano formati due schieramenti: i conservatori, che andavano a lamentarsi a Napoli e i progressisti che venivano a lamentarsi da me: manovravano per metterci l’uno contro l’altro. Sono cose che succedono in momenti come quelli. La faccenda culminò nell’episodio, sempre ricordato, di quando mio padre fu sfrattato da casa perché a Napoli arrivava Re Giorgio. Di quel fatto io ho sempre dato un’interpretazione diversa da quella degli stessi fedeli di Casa Savoia. Avevamo perso la guerra ed eravamo stati nemici fino al giorno prima. In casi del genere è abitudine evitare incontri imbarazzanti. Quando gli Inglesi lo fecero sapere con correttezza, bisognava rispondere al loro tatto con altrettanto tatto: il re poteva andare a fare una breve vacanza. Invece chi gli stava attorno si irrigidì, cercò di resistere. Così gli Inglesi sbrigativamente, dissero di fare fagotto. Dopotutto erano di fronte a chi li aveva attaccati, a chi gli aveva dato filo da torcere, soprattutto in Africa. Non era questione di etichetta: Chi commise quell’errore, poi pianse per l’umiliazione subita del Re. Si poteva evitare”.

Molti si chiedono come mai la prima potenza a riconoscere il suo governo fu la Russia.

“Per quella lungimiranza in politica estera che non avevano gli americani. Molti mi dissero che facevo male ad accettare l’aiuto di Mosca, ma in quel momento solo mosca ci tendeva la mano e fu solo dopo che Stalin ebbe inviato il suo ambasciatore che gli americani fecero altrettanto, sia pure controvoglia”.

Alcuni generali americani che comandavano le truppe in Italia,hanno dichiarato di non aver mai capito perché lei avesse lasciato l’Italia prima che fossero fugati i dubbi sui risultati elettorali.

Fin che potei, cercai di attendere che tutto l’iter burocratico e legali si fosse svolto. Quando però mi accorsi che i toni si erano troppo alzati, che si andava verso uno scontro fisico preferii partire. L’Italia di tutto aveva bisogno fuorché di altre lotte. Partii in quel modo anche per sottrarmi alle pressioni dei fedelissimi. C’era chi mi proponeva di arrestare il governo, di catturare Togliatti; alcuni dicevano che si dovesse partire dalla Sardegna come per un ridotto militare, altri ancora mi suggerivano di ritirarmi nel nord del Piemonte e di là ricominciare la conquista dell’Italia, come i miei avi. Erano tutte proposte sincere, ma patetiche, irreali. Lo si vedeva anche dalle piccole cose. Quando vennero a riferirmi, sulla situazione dei nostri mezzi, a Roma, mi avvertirono che c’era carburante per mezz’ora. Eppure continuavano a fantasticare. Molti vedendomi partire, pensarono che io non mi fossi battuto abbastanza per salvare il trono. Non è così. Ma sapevo perfettamente che ormai tutti ci avevano abbandonato: gli americani che erano repubblicani per istinto e che spesso avevano armeggiato con certi partiti italiani per comunanza di interessi ( nelle stesse forze armate americane c’erano le correnti politiche sempre operanti); gli inglesi, che si distaccarono con maniere più ipocrite, ma con la stessa decisone. Essendo stato a contatto con loro sapevo queste cose , ed ero più scettico”.

Prima di lasciare l’Italia, lei ebbe un incontro con Pio XII. Non si è mai saputo il contenuto di quel colloquio.

Fu un colloquio vago e consolatorio. Non pensi che il papa mi desse consigli o promettesse aiuto. Mi disse che ” ci sono cose che capitano, nella vita, non bisogna lasciarsi  andare allo sconforto” Ricordo che lo fece con vivacità, da uomo che sapeva cogliere anche gli aspetti umani della politica, i paradossi. Mi impartì la benedizione. Insomma, fu estremamente prudente , come lo è sempre il Vaticano in simili casi. D’altra parte sapevo che in Vaticano erano passati tutti, americani , inglesi, russi per dire che “nulla sarebbe cambiato se la monarchia italiana se ne fosse andata“. Quello di conseguenza, era anche l’atteggiamento della DC“.

Degli uomini di Governo che le furono accanto allora, ricorda particolarmente qualcuno?

Ricordo De Gasperi. Era un uomo molto preparato e scrupoloso. Come capo del governo venne da me molte volte a parlarmi: era sempre chiaro e ben documentato. Al termine dei colloqui raccoglieva le sue carte e le dava ad un giovane che gliene teneva in una borsa di cuoi. Quel giovane era Andreotti“.

Ha mai più rivisto Andreotti?

Qualche anno fa, qui, all’ingresso della villa. Stavo uscendo e lo vidi che passeggiava a piedi sul lungomare. Gli andai incontro e gli chiesi: “Come mai da queste parti?” Mi rispose che era di passaggio”.

Lucio Lami – Il Giornale – 1 novembre 1979