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Regina Maria José, interviste

La mia vita nella mia Italia – di Giacomo Maugeri 1958 – 10

By Ottobre 18, 2018Novembre 10th, 2021No Comments

I miei rapporti con la famiglia di Umberto

E’ stato scritto che Maria José,  distratta dalla sua attività di beneficenza, dagli impegni ufficiali, da interessi artistici, dai viaggi e dai divertimenti, non si occupava molto dei suoi bambini e lasciava questo compito alle governanti. Vedevo raramente la mamma, quand’ero bambino », ci ha detto il principe Vittorio. Ma subito ha soggiunto: « Le cose cambiavano quando eravamo a Sarre. Per questo, ogni anno, io non vedevo l’ora di partire per Sarre. Allora sì, facevamo i campeggi, gite in montagna, lunghe passeggiate con lei. Allora non c’erano estranei, che si frapponevano tra noi e lei ».

La stessa cosa ripete la principessa Maria Pia: « Papà e mamma abitavano in un appartamento separato da quello di noi bambini. Si mangiava per conto nostro, si era sempre assieme alle governanti. Di Napoli, non ricordo molto. Ma a Roma, quando si andava dalla mamma, prima c’erano i corazzieri, poi il poliziotto, poi l’anticamera piena di gente. Non c’erano le stesse abitudini intime che ci sono in casa mia, a Versailles. Alessandro ed io siamo ora per ora, minuto per minuto, con i figli; allora era differente, noi non eravamo mai soli col papà e la mamma: c’erano dame, gentiluomini di corte, visite,
c’era sempre qualcuno tra loro e noi. Ogni tanto, inaspettatamente, papà veniva a guardarci giocare. A Sarre, invece, la mamma si dedicava molto a noi: si facevano grandi passeggiate con lei, era il periodo più bello ».

La consuetudine di affidare i figli quasi interamente alle governanti e ai precettori è di tutte le famiglie regnanti, presenti e passate; solo nell’epoca delle vacanze si deroga ad essa: era così anche per tutti i Savoia. La Regina Elena, che fu una madre così attenta e scrupolosa, di solito vedeva i figli all’ora di colazione. I principini sedevano a tavola separatamente dai sovrani, nella loro sala da pranzo, sotto la
sorveglianza delle governanti: Vittorio Emanuele III ed Elena facevano una rapida apparizione, poi i ragazzi non li rivedevano più, salvo rare eccezioni, sino all’indomani alla stessa ora. I doveri della loro
alta funzione lasciano poco tempo ai sovrani e ai principi per i loro affetti familiari. Maria José si uniformava dal canto suo a una diffusa consuetudine reale che era anche una necessità. Ma nelle ore o nelle settimane in cui poteva rimanere vicina ai suoi figli, seguiva ogni loro gesto, osservava ogni loro atteggiamento con l’amore compiaciuto di ogni mamma. Oggi ricorda i momenti della loro infanzia, certi episodi, con una memoria fotografica.

Paffuto come un Budda

Già una grande trasformazione si era rivelata in lei dopo la nascita di Maria Pia. Dopo avere atteso a lungo la gioia di un figlio, era diventata più sicura di sé, più consapevole del suo destino di donna; il suo interesse per gli altri si era accresciuto, il suo bisogno di fare del bene era aumentato. La nascita di Vittorio completò questa trasformazione; quando finalmente potò dare alla dinastia l’erede tanto atteso, la sua sollecitudine nel soccorrere altre madri, povere donne che erano in angustia per la salute dei loro bimbi, popolane o nobili decadute, si moltiplicò. Era il suo modo di ringraziare il Cielo di ciò che aveva ricevuto, del benessere, della felicità materna di cui godeva.

«Divenne cento volte più umana», mi ha detto una delle sue dame di compagnia di quel tempo. Le sue visite agli ospedali, agli orfanotrofi, agli asili di maternità si fecero più frequenti. È un aspetto alquanto convenzionale quello delle principesse o regine che si chinano sulle sofferenze della povera gente; è un obbligo, si deve dire, che fa parte del mestiere; ma se fosse stato soltanto per adempiere a un dovere esteriore, Maria José non l’avrebbe assolto con quella sincerità generosa e con la discrezione di cui possono rendere testimonianza le persone che l’accompagnavano. Quando disponeva per l’invio di un sussidio, di un corredino di neonato a una mamma povera, due o tre giorni dopo si recava a farle visita, per accertarsi se e in quale misura l’ordine era stato eseguito. E tuttora scrive a Napoli, per chiedere notizie di gente da lei soccorsa allora. Vedeva poco i suoi bimbi, è possibile; ma si interessava molto ai bimbi degli  altri e li aiutava. Manifestava in questo modo, più con i figli degli altri che con i propri, il suo amore di mamma.

Di Maria Pia, di Vittorio, di Gabriella, di Titti, Maria José parla con infinita tenerezza. I suoi occhi si illuminano, la sua voce, sempre un po’ sommessa, si anima. Li rivede bambini, rivive la gioia di immagini lontane.

« Vittorio », dice, « era tanto grasso e paffuto, quando nacque; aveva un enorme doppio mento: tutti ridevano e lo chiamavano Budda; ed io ero offesa che ci si prendesse gioco di lui. Ha avuto la passione della velocità sin da piccolo. A tre anni e mezzo, con la sua automobilina a pedali, si buttava nelle di scese a capofitto. Quando lo portavo a Capodimonte mi faceva stare con l’animo sospeso; c’era un pendio molto ripido e lui lo percorreva a tutta velocità. Ma era molto abile, come adesso. Gabriella, anche appena nata, era molto bella, una bambina stupenda. Quella che era buffa, da piccola, era Titti; era sicura di sé, prepotente, e tuttora non si intimidisce di nulla.  Faceva delle birichinate, poi andava a chiudersi in una stanza e quando la chiamavo mi rispondeva: ’’Non ci sono”.

I colpi del destino

« Maria Pia ha dimostrato un carattere risoluto sin dai primi anni. Sapeva quello che voleva o che non voleva e non c’era modo di farle cambiare idea. Era sorprendente la facilità con cui studiava. Bastava spiegarle una cosa una volta, non la dimenticava più. E nelle sue simpatie o antipatie era decisa: quando qualcuno non le andava a genio, lo faceva capire subito. Gabriella è come mia madre, fa una quantità di cose, troppe, in una giornata. Quando si sta con lei, dà un senso di turbine. La scuola, la pittura, lo sport, riesce bene in tutto, fa tutto bene, senza confusione. Ha spirito organizzativo. È la più capace, come testa. Ed anche la più indipendente: metteva knock-out tutte le istitutrici. Sono stata molto criticata, dalle persone benpensanti, per il modo con cui ho educato i miei figli, per la libertà che ho sempre accordata loro, fin da quando erano piccoli: in questo ero perfettamente d’accordo con mio marito. I ragazzi devono imparare da sé, fare le loro esperienze. Non sono d’accordo con chi dice che debbano avere delle persone vicine che facciano tutto per loro. Io, da bambina, ero ribelle perché troppe cose mi erano vieta-te e le cose che potevo fare dovevo farle sotto la costante sorveglianza degli altri. Nei miei figli non c’è questo spirito di rivolta, perché non ho mai posto dinanzi a loro dei divieti, né nelle piccole cose né nelle importanti. Quando l’ho giudicato necessario, li ho messi in guardia dai pericoli cui potevano andare incontro, dagli errori che potevano commettere. Li ho avvertiti delle difficoltà che la vita poteva e può ancora riserbare loro, ho sempre detto loro che dovevano essere preparati a tutto e non ritenersi degli esseri privilegiati, diversi dagli altri. Non lo dico perché sono i miei figli, ma sono davvero dei bravi ragazzi. Solo un poco turbolenti come tutta la gioventù di oggi ».

È in questo modo, sorvegliandoli a distanza, senza far pesare loro ilsuo controllo, che Maria José li ha preparati ai contraccolpi del destino. 1934, 1937, 1940, 1943: gli anni di nascita dei suoi figli sono altrettante tappe del declino della Monarchia, del lento e fatale cammino verso l’esilio. Quando nacque Maria Pia, i segni della tempesta che avrebbe travolto la dinastia erano appena visibili all’orizzonte. Dolfuss, il cancelliere austriaco, era stato assassinato il mese prima.
Presto l’Austria sarebbe stata inghiottita dalla Germania nazista, l’incerto rapporto di forze tra le democrazie e le dittature sarebbe stato modificato, la catena delle aggressioni che dovevano inevitabilmente condurre alla seconda guerra mondiale sarebbe incominciata.
Tra il 1934 e il 1937, anno in cui nacque Vittorio, il fascismo avrebbe lanciato l’Italia in due avventure illusoriamente vittoriose, la conquista dell’Etiopia e la guerra civile in Spagna. Nel febbraio 1940, quando nacque Maria Gabriella, il conflitto mondiale era ormai iniziato. Tre anni dopo, alla nascita di Maria Beatrice, l’ombra della disfatta incombeva sull’Italia, disseminata di ovine e di lutti.

Alla fine di novembre del 1935. Allorché Maria José fece ritorno in Italia dal Belgio, dove si era recata subito dopo la morte della cognata Astrid, la ’’campagna etiopica” (era questo il termine dettato dal ministero della cultura popolare ai giornali italiani) era ormai in corso. Navi cariche di soldati in divisa kaki che cantavano “Faccetta nera” salpavano da Napoli. Il 3 ottobre, dall’Eritrea e dalla Somalia, le divisioni italiane erano penetrate in Etiopia.