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Interviste 65-83

Intervista rilasciata da Re Umberto II a Roberto Zoldan, Historia,1967

By Settembre 10, 2020Novembre 18th, 2021No Comments

Umberto ci ha detto
Intervista pubblicata sul numero di Settembre del 1967 di Historia

Un uomo alto, elegante, vestito di grigio si affaccia alla porta. Tre scalini più sotto, disposti a semicerchio, una ventina di turisti attendono, le macchine fotografiche pronte a scattare, che Umberto di Savoia sorrida. Sono le 18 di un assolato pomeriggio d’estate. A «Villa Italia», a Cascais, ventinove chilometri da Lisbona, l’ex Re riceve una delle numerose comitive di turisti, monarchici e non, che nella bella stagione si recano a fargli visita.

Un incontro di pochi minuti, un omaggio di nostalgici a un sovrano in esilio o, a volte, soltanto un piacevole e imprevisto diversivo nel corso di una crociera che ha fatto tappa nella capitale lusitana. Spesso tutt’e due le cose: fermi saluti di ex ufficiali di cavalleria, commosse strette di mano di vedove di guerra, timidi sorrisi di signorine emozionate. Quando l’ex Re tende la mano, i visitatori gli si fanno incontro con deferenza, ma privi d’impaccio, colla consapevolezza di esser venuti a ossequiare un illustre amico, un uomo visibilmente rallegrato da queste manifestazioni di simpatia che alcuni Italiani, a vent’anni di distanza dalla sua partenza da Roma, gli tributano ancora.

Umberto II 1967 Historia

Umberto II 1967 Historia

Umberto ricambia i saluti con una voce leggermente roca, ha il sorriso pronto, si muove con scioltezza e agilità impensabili per i suoi 63 anni. Accoglie tutti colla consueta cordialità, firma autografi. Nell’atrio, sulla parete, un grande ritratto a olio di Vittorio Emanuele III.

Sono questi, forse, i momenti più sereni di un esilio che se i biografi del «Re di maggio» vogliono necessariamente triste ha in realtà i caratteri di un lungo, malinconico soggiorno in terra straniera privo di ogni possibilità di ritorno. Sono i momenti in cui Umberto ristabilisce concretamente un contatto con coloro che nei primi mesi del ’46 si strinsero attorno a lui nella disperata difesa dell’istituzione monarchica. Se ha probabilmente rinunciato a sperare in una restaurazione, non ha rinunciato tuttavia a interpretare la parte di sovrano illegittimamente (ha sempre affermato) privato del trono. E questa parte, lo si deve ammettere, l’ha sempre recitata con dignità e riservatezza, a volte calcolate, ma prive di ogni aspro risentimento e di gesti teatrali comuni spesso a coloro che la storia ha privato del potere.

«Le visite mi fanno immenso piacere», ci dice quando ci riceve nel suo studio, « soprattutto quelle di coloro che vengono d’inverno, quando qui fa freddo. Sono persone che mi sono rimaste fedeli a distanza di tanti anni e che mi portano i saluti dell’Italia ».

L’ex Re è seduto di fronte a noi, le gambe accavallate, parla con scioltezza e amabilità. Ha il viso leggermente avvizzito e abbronzato, è diventato quasi completamente calvo.

« In questi giorni di vacanze vengono in molti », riprende. « Ieri è attraccata a Lisbona la “Leonardo da Vinci”. Domani arriverà in pullman una comitiva di centocinquanta persone… ».

Vorremmo fargli delle domande, parlare del passato e delle vicende di casa Savoia, ma una malcelata e naturale diffidenza verso i giornalisti, comune agli accorti politici, lo fa esitare. Concede raramente interviste e sempre in modo non ufficiale.

« Preferisco le conversazioni », dice. « Del resto parlare del ruolo della Monarchia nel ventennio e in particolare di mio padre penso sia ancora presto. E’ storia recente, si rischia di snaturare il vero significato degli avvenimenti il cui ricordo è ancora troppo vivo in noi perchè si possa essere imparziali. E’ certo, tuttavia, che fra non motto, chiariti i dubbi, dissipate le ombre, si potrà aprire un discorso ufficiale sulla vita e sull’operato di Vittorio Emanuele III… ».

Allude, probabilmente, ai diari che il defunto Re stese negli ultimi mesi di regno e durante l’esilio. Di essi Umberto ha sempre negato l’esistenza, ma si sa che lì sta riordinando da anni e forse, prima di quanto si possa credere, li darà alle stampe.

«Come giustifica», gli chiediamo, « il forte calo di voti monarchici in questi ultimi anni? Forse il sentimento monarchico sta definitivamente tramontando? ».

Umberto di Savoia sorride. Teme di dare una risposta che possa essere fraintesa.
Poi, esitando, «Non sta a me giudicare. Voi che vivete in Italia potreste farlo meglio».
E’ una risposta diplomatica.
«Forse», riprende facendosi serio, « perchè molti monarchici fanno confluire i loro voti in partiti politici la cui forza è un’immediata garanzia contro minacce che potrebbero venire da sinistra o da destra… ».

Strappargli giudizi categorici, del resto, è impossibile. Non si è mai abbandonato in tutti questi anni d’esilio ad atteggiamenti violentemente polemici. Il dignitoso riserbo, la capacità di muoversi con delicatezza di fronte alle domande sul passato non gli impediscono tuttavia di assumere posizioni politiche precise. Anni fa, ad esempio, emanò un proclama ufficioso favorevole in sostanza al centro-sinistra suscitando un vespaio di polemiche in alcuni settori monarchici.

Come può essere giudicato Umberto? Quale fu il suo ruolo e quale peso ebbe negli eventi dell’immediato dopoguerra?

Una risposta precisa la darà la storia. Fin d’ora tuttavia si può affermare che tutta la sua esistenza, fin dagli anni in cui era giovane principe ereditario, fu un continuo tentativo di strappare un atto di fiducia, una « credenziale » che gli permettessero di dimostrare che cosa sapeva fare. Gli furono sempre negati. Prima dal padre, al quale ubbidiva anche quando, come affermarono alcuni, dissentiva dalle sue opinioni («In casa Savoia si regna uno alla volta», era solito dire Vittorio Emanuele III). Poi dagli eventi che lo lasciarono su un trono compromesso per soli 34 giorni. Per ricostruire la personalità di Umberto è indispensabile rievocare quel breve e intenso periodo della sua vita del quale indubbiamente conserva ancora oggi, nella solitudine di Cascais, un vivo e bruciante ricordo: i mesi ruggenti della lotta per riconquistare alla monarchia un popolo provato da immani sofferenze. In quei mesi le qualità politiche di Umberto furono messe alla prova per la prima volta. Non fu certo una prova facile.

Sarebbe stato un buon re? Nenni disse di lui: « Che buon Presidente della Repubblica sarebbe stato Umberto ». Dimostrava rispetto e tolleranza per le opinioni altrui, aveva accettato con convinzione le regole del gioco democratico, rifiutava la polemica violenta. Preferiva far risaltare la faziosità e la focosità degli avversari, ma nonostante l’intuito e le doti di cui disponeva, si apprestava a combattere una battaglia forse perduta in partenza. La monarchia, ha detto qualcuno, non perse il trono il 2 giugno, bensì l’8 settembre.

In ogni caso Umberto era sceso in campo con poche carte da giocare. Una, ottima, gliela diede il padre abdicando, il 9 maggio 1946, nella villa di Posillipo dove si era ritirato. Da quel momento Umberto poteva presentarsi agli Italiani privo dei pesante fardello che opprimeva la figura di Vittorio Emanuele III. Poteva dimostrare che al Quirinale qualcosa era cambiato, che la monarchia rappresentava ancora nella sua persona l’unità del Paese. Non gli fu d’aiuto in questo tentativo, dimostratosi vano, il suo carattere: introverso, soggetto a frequenti crisi mistiche, timido, privo delle impennate e degli impeti necessari per imporre la propria volontà, una volontà che per vent’anni aveva contato poco.

Ricostruiamo gli avvenimenti.
Alle 12,45 del 9 maggio Umberto, Luogotenente dall’aprile 1944, arrivò a Posillipo con Acquarone, l’aiutante di campo e l’ufficiale d’ordinanza. Sembra che solo De Gasperi, Presidente del Consiglio, e l’ammiraglio Stone, capo della commissione alleata, fossero al corrente del giorno scelto per la cerimonia dell’abdicazione. Fu una cerimonia fatta di fretta, per mettere il governo, si disse, di fronte al fatto compiuto. Vittorio Emanuele, probabilmente, non ne sapeva niente: l’incrociatore Duca degli Abruzzi aspettava in porto, scortato dal caccia Granatiere. Il documento fu firmato alle 15. Due ore dopo il Sovrano, la Regina e la piccola corte, caricati i bagagli su due autocarri, s’imbarcano per lasciare per sempre l’Italia. Umberto rivedrà suo padre soltanto una volta, nel ’47, al matrimonio della figlia di Jolanda. Quando il «Re soldato» spirerà, il 28 dicembre 1947, il figlio non farà in tempo ad arrivare al suo capezzale.

Da questo momento Umberto è Re. Ridà splendore al Quirinale, si sceglie un gruppo di accorti consiglieri politici, dimostra un’eccezionale capacità di valutare le forze avversarie e di capire il profondo significato degli eventi. La famiglia, riunita dopo la bufera della guerra, è un simbolo di unità ritrovata. Maria José, ritornata dalla Svizzera a piedi attraverso il Gran San Bernardo, lo aiuta per quanto le è possibile: si affaccia al suo fianco, coi figlioli, al balcone del Quirinale, si fa fotografare in un gruppo familiare che suscita simpatia, le foto vengono affisse agli angoli delle strade.

Umberto lavorava indefessamente, aveva trovato i fondi per la campagna elettorale. Credeva veramente nella possibilità di salvare la Monarchia? Pubblicamente lo dimostrava. Mentre Maria José visitava istituti e faceva beneficenza, il Re viaggiava da una città all’altra, compariva in pubblico: la gente si abituava all’idea di un Re democratico, i sostenitori si entusiasmavano.
Un calcolo esatto dei settori favorevoli dell’elettorato fu indubbiamente impossibile. Tuttavia era prevedibile l’appoggio di larga parte della superstite classe militare, della burocrazia tradizionalmente monarchica, di quasi tutti gli ex fascisti, probabilmente di una metà del partito democristiano.

Il 4 giugno si hanno i primi dati imprecisi: la monarchia sembra avere un vantaggio inaspettato. Il 5 giugno mattina la situazione si capovolge, ma la vittoria repubblicana rimane ancora incerta. Solo per poche ore. Poi De Gasperi si reca al Quirinale per informare ufficialmente il Re. Umberto ascolta impassibile il verdetto, non vuole nemmeno controllare i documenti che il presidente dei Consiglio ha portato con sé. Fa sapere soltanto che vuole attendere il verdetto della Corte di Cassazione, nel frattempo farà partire la famiglia da Napoli col Duca degli Abruzzi. Il 6 giugno al Quirinale inizia le udienze di congedo. A questo punto i monarchici, guidati dal leader Enzo Selvaggi, presentano alla Corte un ricorso che si basa sulla questione del quorum, un cavillo che la Cassazione respingerà con 12 voti contrari e 7 favorevoli. Di Selvaggi, Umberto dirà in un’intervista concessa a Luigi Cavicchioli: «Gli sembrò che alcuni morti (e la sua stessa vita) fossero un prezzo accettabile per salvare la Monarchia. Ma a me sembrò un prezzo mostruoso ».

Anche nella discussa questione del milione dì voti tenuti «nel cassetto» da Romita, ministro degli Interni, assunse una posizione equilibrata. Sempre al Cavicchioli dirà: «Qualsiasi illazione o discussione sulle cifre del referendum è inutile e oziosa, perché si tratta di materia su cui non è stato né sarà mai esercitato un controllo approfondito e sereno… ».

Nel pomeriggio del 10 giugno, nel salone della Lupa di Montecitorio, il presidente della Corte di Cassazione Pagano legge il verbale che annuncia i dati del referendum: «Repubblica 12.672.767, monarchia 10.688.905, voti nulli un milione e mezzo». Fa intuire che il poco tempo a disposizione per l’esame delle schede non ha permesso un lavoro scrupoloso. Annuncia una nuova seduta e se ne va. L’uditorio è perplesso. Non si sa se la Repubblica sia stata proclamata, i monarchici prendono la palla al balzo per passare al contrattacco.

Il governo s’allarma e nella notte fra il 12 e il 13, mentre l’Italia vive ore roventi, emana un comunicato in cui annuncia che De Gasperi è stato nominato Capo dello Stato. La reazione monarchica è violenta, si prospetta la possibilità di passare alla forza, Umberto è convinto (e lo è rimasto fino a oggi) che il governo abbia compiuto un atto incostituzionale. Bisognava attendere, dirà, la seduta definitiva della Corte prevista per il 18.

In quest’occasione il Re dimostrò, contro il parere di alcuni collaboratori che volevano scatenare la guerra civile, una saggezza inaspettata: preferì la via dell’esilio. Prima di partire emanò il famoso proclama in cui denunciava alla nazione il « gesto rivoluzionario ». Il governo, com’è noto, rispose con un comunicato, in cui si diceva fra l’altro: « Un periodo che non fu senza dignità si conclude con una pagina indegna ».

Il resto è cronaca deformata spesso dal sentimentalismo dei rotocalchi. Probabilmente sull’S95 Savoia Marchetti sul quale s’imbarcò per raggiungere il Portogallo, Umberto non seppe trattenere le lacrime: era l’addio all’Italia, la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra. Ebbe un viaggio difficile, il tempo era pessimo, due volte, sembra, l’aereo rischiò di precipitare. Si stabilì per qualche mese a Colares, poi si trasferì a Cascais, sulla Costa do Sol, la riviera preferita dai sovrani in esilio: vi abitano i Borbone di Spagna, il conte di Parigi, Elena di Romania, ora anche Giovanna di Savoia che vive in una villa poco distante da quella di Umberto.

Col passare degli anni è rimasto sempre più solo. Nel 1947 Maria José lo lasciò per trasferirsi definitivamente in Svizzera, poi, a mano a mano, se ne andarono anche i figli. Passò i primi due anni nella casa di un amico, poi affittò una villetta che chiamò «Italia». Ora se n’è fatto costruire un’altra, alla periferia di Cascais di fronte all’Oceano, in mezzo a un giardino che cura personalmente. Si dedica ad occupazioni da vecchio signore: legge, è uno studioso dì storia dei Savoia, si reca alle corride e alle partite di calcio delle squadre italiane, va all’opera a Lisbona. Si fa chiamare conte di Sarre, uno dei tanti titoli dei Savoia, viaggia raramente. E’ iscritto all’Associazione donatori di sangue di Cascais. Ha consuetudini molto regolari, coltiva poche amicizie. A volte lo si vede all’«Estribo», un locale di Birre, un sobborgo a 4 chilometri da Cascais, in cui si suona il fado, la disperata musica popolare lusitana, una musica che fa lievitare i ricordi.

D’estate la riviera risplende di un sole abbagliante, un sole che le agenzie turistiche assicurano duri da maggio a novembre, ma non certo sufficiente a far dimenticare ad un italiano esule quello della propria terra lontana.

ROBERTO ZOLDAN