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Il mio esilio di Luigi Cavicchioli

Il mio esilio – di Luigi Cavicchioli – 8

By Marzo 1, 2020Gennaio 24th, 2022No Comments

Di quando in quando Umberto parte in automobile da Cascais e risale il Portogallo in quasi tutta la sua estensione per recarsi a Oporto. Fra le due località corrono circa trecento chilometri di stupenda costa atlantica. Oporto e Cascais: l’esilio di Carlo Alberto e l’esilio di Umberto II. Un singolare destino ha voluto assegnare luoghi cosi simili e vicini all’esilio di due re che tante doti e vicissitudini ebbero in comune. Caratteristica principale di entrambi fu forse Il senso illuminato e profondo della missione politica e sociale della monarchia. Entrambi perseguitati dalla malasorte e combattuti da avversari inesorabili, incompresi e calunniati, “bestemmiati e pianti”. Entrambi accettarono con fermezza il sacrificio personale quando ritennero che ciò servisse a risparmiare sventure all’Italia e agli italiani.

Una domanda imbarazzante

A Oporto c’é una cappella di proprietà dei Savoia, edificata in ma morta di Carlo Alberto. E c’è anche, in faccia al «grande Atlantico sonante», la casa dove egli visse i giorni del suo breve esilio e morì. La casa doveva essere demolita per esigenze urbanistiche. Ma Umberto ha ottenuto dalle autorità portoghesi la revoca dei provvedimento. In questi ultimi anni, anzi, la casa ha cominciato ad essere restaurata, cosa che gli è di grande conforto per la profonda venerazione che conserva per la memoria dell’infelice Carlo Alberto. Fra Oporto e Cascais, fra l’esilio di Carlo Alberto e l’esilio di Umberto II, è racchiusa l’epopea e Il tramonto della monarchia sabauda, dall’inizio travagliato e luminoso, alla fine che ha un amaro sapore di beffa.

Dei primi anni di esilio Umberto ricorda con tenerezza molti piccoli episodi nei quali appare come un padre qualsiasi a contatto coi figli ancora bambini. Ricorda che un giorno portò il piccolo Vittorio Emanuele e Maria Pia a visitare il magnifico palazzo reale di Sintra, non lontano da Cascais. I due bimbi chiedevano spiegazioni su quanto appariva ai loro occhi. E Umberto rispondeva ad ogni domanda in modo esauriente e completo. Ma nella sala delle «cento gazze» si trovò a un tratto assai imbarazzato di fronte alla insaziabile curiosità dei bambini. Sul soffitto di quella sala sono affrescate cento gazze spennacchiate e  reggono coi becchi un nastro su1 quale si legge «Por bem».
«Cosa significa?»domandò Maria Pia.
«Significa: A fin di bene» rispose Umberto.
«Ma quelle bestiacce cosa rappresentano? Perché reggono il nastro con le parole: A fin di bene»? , incalzò il piccolo Vittorio Emanuele.

Umberto, per la prima volta, fu costretto a fingere ignoranza di fronte alla curiosità dei figli. Non poteva, infatti, raccontare loro la storia piccante di quell’affresco, dovuto a una impertinente «trovata» dell’antico re portoghese Joao I, rimasto famoso per la sua arguzia. Un giorno Joao I fu sorpreso dalla moglie mentre baciava una dama di corte non particolarmente bella. Per placare la consorte, egli le disse allora con tono di allegra noncuranza: «Por bem», vale a dire che tutto quanto era avvenuto «a fin di bene» data la scarsa avvenenza della dama. La battuta si riseppe rapidamente a corte. Per parecchie settimane il «Por bem» del re fu una miniera inesauribile di pettegolezzi, di maliziose allusioni, di risatine, soprattutto per le dame di corte più ciarliere. Joao I si sentì al centro dell’indiscreta ironia di quelle dame, ma non era tipo da rinunciare alla rivincita. Chiuse per qualche tempo il palazzo reale, chiamò pittori e decoratori ai quali commissionò un lavoro in gran segreto. Alcune settimane dopo il palazzo fu riaperto alla corte con un sontuoso ricevimento. Gli ospiti furono introdotti nel grande salone affrescato di recente. Joao I sorrideva con aria sorniona osservando l’imbarazzo e il rossore delle dame ciarliere che non potevano fare a meno di riconoscersi nelle cento gazze spennacchiate che si passavano di becco in becco il nastro con le parole «Por bem».

L’automobile schiacciata

Il giovane principe Vittorio Emanuele rivelò fin dal primi anni dell’esilio portoghese una grande passione e curiosità per la meccanica. Gli unici giocattoli che lo interessavano erano appunto quelli meccanici. Una piccola automobile rossa a molla, di linea aerodinamica, gli diede forse, nel giro di poche ore, una delle maggiori gioie e uno dei più grossi dolori della sua fanciullezza. L’automobile rossa giunse a Cascais dall’Egitto: era un regalo della regina Elena che dal suo esilio scriveva quasi ogni giorno ai nipotini e spesso mandava loro doni. Vittorio Emanuele ne fu straordinariamente felice. Ma due ore dopo, mentre faceva correre la piccola automobile rossa attraverso la strada, sopraggiunse un autentico macchinone americano che la schiacciò. Vittorio Emanuele non pianse (non ha mai pianto nemmeno quando era molto piccolo), ma suo padre si rese conto di quanto lo addolorasse la perdita di quel giocattolo: ne fu talmente preoccupato e commosso che si fece condurre seduta stante a Lisbona e cercò in vari negozi finché non riuscì a trovare un’automobile quasi identica a quella che la nonna aveva mandato in dono dall’Egitto.

Maria Pia era quella che più somigliava al padre, fisicamente e come carattere. A quindici anni cavalcava già con sorprendente abilità e sangue freddo: ma era nello stesso tempo riflessiva e non faceva mal nulla con avventatezza. Nel 1948, invitata col padre a una riunione sportiva nella tenuta del famoso toureiro gentiluomo Simao da Veiga, non esitò a balzare in groppa a un focoso cavallo, lanciandosi quindi all’inseguimento di un toro da combattimento: alcuni rabbrividirono, ma Umberto, conoscendo la sua perizia e la sua assennatezza, guardava le sue evoluzioni con tranquillità e non senza una punta di orgoglio.

Maria Gabriella, a Cascais, cominciò presto a imbrattarsi di colori, rivelando un certo talento per la pittura. Maria Beatrice era la più capricciosa e irrequieta, ma anche la più divertente e simpatica. Mentre le sorelle cavalcavano con perfetto stile, Maria Beatrice si affezionò a un grazioso somarello, dono della duchessa di Cadaval, in groppa al quale si pavoneggiava come si trattasse di un superbo destriero. Una cosa analoga accadde col treno che porta da Lisbona a Cascais. Un giorno l’istitutrice fece salire per errore le principessine in terza classe anziché in prima. Ma mentre in prima c’erano sempre signori austeri e taciturni, in terza Maria Beatrice trovò personaggi ben più divertenti e pittoreschi: persino un mangiatore di spade e un suonatore di chitarra, i quali durante il viaggio diedero saggi delle loro rispettive attività. Da quel giorno Maria Beatrice non volle più saperne di salire su uno scompartimento di prima.

Volo nell’uragano

Un giorno, quando aveva cinque anni, Maria Beatrice, dopo un litigio con le sorelle, uscì indignata dalla stanza esclamando categoricamente: « Sono stufa: me ne torno in Italia ..»
«Sola?» le domandò ridendo la istitutrice.
«No, con papà. Voi restate. Io e papà ce ne torniamo in Italia».
Per parecchi giorni si mantenne fermamente decisa a realizzare il suo progetto. Invano Umberto cercò di convincerla che era impossibile; lei, quando fosse cresciuta, sarebbe tornata di quando in quando a rivedere l’Italia, ma in ogni caso sempre senza papà.
«Perché senza papà? »
«Perché papà non può tornare in Italia..»
«Perché non può tornare? ».
«Perché certi signori non lo permettono ..»
«Perché non lo permettono? »
Non sempre era facile rispondere ai perché di Maria Beatrice.
Umberto ricorda con tenerezza quel breve periodo, quando i figli ancora piccoli vivevano tutti con lui. Poi Maria José fu costretta a trasferirsi in Svizzera. La famiglia si divise. I figli sono cresciuti e hanno dovuto seguire strade diverse. Umberto, fra un viaggio e l’altro, trascorre adesso periodi di solitudine a Cascais. Sono con lui i suoi fedeli collaboratori: il senatore del regno professor Aldo Castellani che può ben dirsi il creatore della medicina tropicale in Italia, e che, partito per il Portogallo col re all’atto dell’esilio, è stato invitato dal governo portoghese a continuare anche lì il suo insegnamento; il conte di Vigliano, generale della riserva, dotto storico e conoscitore di diverse lingue straniere, chi ha ormai preso il posto di capo della casa del re, dopo il ritorno in patria, per malattia, del Generale Carlo Graziani, che era partito col re il 13 giugno 1946; nelle sue mansioni il conte di Vigliano è coadiuvato dal commendator Raimondo Olivieri già segretario della regina Elena, che ha il compito davvero arduo del primo esame della infinita corrispondenza che dall’Italia e un po’ da tutte le parti del mondo arriva al re in esilio; ci sono inoltre il cavalier Turconi e la moglie, che si occupano dell’andamento della casa, e l’ex-granatiere Trigatti con mansioni di domestico. Umberto, nonostante l’opera preziosa del commendator Olivieri, legge personalmente ogni lettera e spesso risponde di proprio pugno. Molte lettere contengono soltanto espressioni di omaggio e di fedeltà. Altre contengono richieste di soccorso che, quando è possibile, vengono sempre esaudite. Ma a volte non è proprio possibile, come nel caso di coloro, e sono assai più di quanti si possa immaginare che chiedono candidamente a Umberto una lettera di raccomandazione per questo o quel ministro del governo italiano.

Vivono con Umberto a Villa Italia i ricordi delle persone care scomparse: della sorella Mafalda morta in un campo di concentramento in Germania, del padre morto esule in Egitto, della madre spentasi a Montpellier. Sono ricordi non ingombranti, discreti, anzi impercettibili per i visitatori: ma vivi e incancellabili. Piccole fotografie non ufficiali, magari un po’ sfocate, fatte dalla regina Elena con la sua antiquata macchinetta a soffietto, piccole cose di poco conto (una scatolina con un pizzico di polvere che tanti anni fa fu uno degli innumerevoli mazzolini di violette che Vittorio Emanuele III rientrando da una passeggiata, andava sempre a deporre con un gesto brusco, quasi timidamente, sul tavolo da lavoro di Elena), lettere e biglietti personali traboccanti di affetto che nessuno conoscerà mai ( «La nostra era una famiglia legata da vincoli tenacissimi di affetto; i nostri rapporti non erano aridi e protocollari come forse sembrava agli estranei; ci volevamo molto bene fra noi », dice Umberto).

« Per una singolare coincidenza  », racconta, – «due volte mi sono trovato ad affrontare un viaggio in aereo con l’animo sconvolto dall’angoscia. E in entrambi i casi alla tempesta del mio cuore si è  associata la bufera assolutamente eccezionale e quasi apocalittica del cielo, La prima volta fu quando, il 13 giugno 1946, partii dall’Italia per l’esilio: durante il volo l’aereo, travolto come un fuscello dall’uragano, sfiorato ripetutamente dai fulmini, sembrò più volte in procinto di precipitare. La seconda volta fu quando, nel dicembre ’47, volai in Egitto per deporre l’ultimo bacio sulla fronte di mio padre.

Quell’inizio di dicembre era stato un po’ rigido ad Alessandria d’Egitto, mio padre, tuttavia, non aveva voluto rinunciare alle sue abitudini, alla pesca, alle passeggiate all’aperto. Il raffreddore che lo colse non destò preoccupazioni. Il 24 dicembre i medici curanti constatarono i sintomi di congestione polmonare, ma nulla lasciava presagire l’irreparabile. Io che da Cascais sollecitavo notizie fui rassicurato. Soltanto la notte fra il sabato 27 e la domenica 28 dicembre ricevetti dall’Egitto un cablogramma che mi consigliava di partire immediatamente. All’alba mi precipitai all’aeroporto di Lisbona. Lo trovai chiuso al traffico: nessun aereo poteva decollare a causa del tempo infernale. Trascorsi una giornata angosciosa, combattuto fra la speranza e il timore. Verso sera un giornalista americano mi comunicò, tramite il generale Graziani, la notizia che l’irreparabile era avvenuto. Ma era una notizia ufficiosa, non controllata: non volli credere. All’alba del lunedì 29 dicembre riuscii finalmente a partire: anzi il comandante dell’aereo, rendendosi partecipe del mio orgasmo, anticipò di due ore il decollo. La meta era il Cairo con rotta Madrid-Algeri. Ma ben presto il volo, a causa delle condizioni atmosferiche, divenne drammatico. Fu necessario cambiare rotta, raggiungere prima Algeri, poi tornare a Madrid, raddoppiando il percorso. Tutti questi contrattempi e ritardi rendevano spasmodica la mia ansia, com’è facile immaginare. Da Madrid, cambiato l’equipaggio, puntammo verso l’Egitto. Ma sul Mediterraneo trovammo un uragano infernale. Il pilota, esattamente come aveva fatto il 13 giugno 1946 il comandante dell’aereo che mi portava in esilio, mi prospettò a un certo momento la necessità di un atterraggio di fortuna su suolo italiano. Gli feci notare che un mio atterraggio in Italia proprio in quei giorni avrebbe provocato una, bufera politica più terribile di quella atmosferica con la quale eravamo alle prese. Il pilota si rese conto della mia situazione e affrontò il rischio del volo fino al Cairo. Non giunsi in tempo a raccogliere l’ultima parola o l’ultimo sguardo di mio padre: egli aveva cessato di vivere poco dopo le 14 del giorno precedente ».

Ancora troppo tardi

Molte voci (anche di parte repubblicana) si levarono in Italia a favore della proposta di tumulazione di Vittorio Emanuele III nel Pantheon, accanto a Umberto I e alla regina Margherita. La proposta tuttavia cadde nel vuoto: ma il problema resta aperto e prima o poi dovrà essere risolto secondo i principi della pietà cristiana. Per ora la tomba del vecchio re resta in terra straniera, ad Alessandria d’Egitto. Nel 1952 il giornalista Giovanni Artieri, di passaggio da Alessandria, andò a vederla: restò impressionato dalla povertà della lapide nuda e del rozzo inginocchiatoio. Di ritorno in Italia si fece promotore di una sottoscrizione per l’acquisto, almeno, di una lampada d’oro. Furono raccolti più di quattro milioni. Ma Umberto informato dell’iniziativa, sapendo che Vittorio, Emanuele III aveva più volte espresso il desiderio che la sua tomba fosse il più possibile semplice e disadorna, decise di autorizzare l’acquisto di una comune lampada di bronzo, e fece devolvere in beneficenza la somma raccolta.

La sorte, come gli aveva impedito di raccogliere l’ultimo respiro del padre, cosi lo fece giungere tardi anche al capezzale della madre morente. La vecchia regina Elena si spense nel novembre 1952 a Montpellier, dove si era trasferita dopo la morte del marito. Era inferma da tempo, ma la fine giunse improvvisa. Umberto l’aveva visitata pochi giorni prima: rassicurato dai medici si era poi recato a Zurigo per incontrare la figlia Maria Pia. A Zurígo ricevette una telefonata allarmante: parti immediatamente per Montpellier, ma quando giunse, sua madre era già composta nella camera ardente.
Elena e Vittorio Emanuele III, che per più di mezzo secolo vissero inseparabili, sono ora divisi nella morte: lei nel cimitero di Montpellier, lui ad Alessandria d’Egitto. L’Italia non ha ancora saputo compiere quel semplice gesto che la pietà cristiana impone: accogliere le spoglie mortali del due ex-sovrani in due tombe nel Pantheon.

Umberto non è certo l’uomo che vive di ricordi o si abbandona all’amarezza: vive al contrario molto intensamente, preso com’è da interessi culturali, curiosità artistiche, preoccupazioni filantropiche, doveri sociali e mondani del suo rango. Ma a volte, soprattutto verso sera, interrompe per un poco il lavoro, si affaccia alla veranda, resta assorto a guardare l’oceano tempestoso, le onde che si infrangono contro la scogliera e i ventagli di schiuma che si innalzano verso il cielo. Allora ondate di ricordi lo investono, e a volte i ricordi portano amarezza e sconforto: ma si infrangono contro la sua serenità come le onde dell’oceano contro gli scogli. Umberto si passa una mano sulla fronte e torna alla scrivania.

«I1 passato è passato », mi ha detto Umberto durante il nostro ultimo colloquio, «e l’avvenire è nelle mani di Dio. Mi affido a Lui serenamente. So, con assoluta certezza, che il verdetto col quale, nel giugno 1946, fui condannato all’esilio, fu ingiusto. Non mi interessano le voci non suffragate da prove dei milioni di voti falsi che il ministro Romita avrebbe gettato sulla bilancia all’ultimo momento, ma, esistono altri e inconfutabili elementi per dimostrare che l’esito del referendum istituzionale non rispecchiò la volontà liberamente espressa della maggioranza degli italiani. Almeno tre milioni d’italiani non votarono perché parte ancora prigionieri e parte ancora profughi dalle località abbandonate a causa della guerra e dei bombardamenti. Non si votò nella Venezia Giulia e in Alto Adige. La campagna elettorale e le operazioni di voto avvennero in un clima di passione e faziosità che compromise o annullò la possibilità di serena e libera scelta. Vi furono zone intere, e specialmente al Nord e al Centro Italia, in cui era ancora in atto il vento del Nord, vale a dire lo squadrismo rosso che terrorizzava e intimidiva l’ambiente, e nella stragrande maggioranza delle sezioni elettorali non vi furono rappresentanti di seggio monarchici, sicché tutto si poté fare indisturbatamente ai danni della monarchia. La legge e l’apparato elettorale furono tali da permettere in fase di votazione e di scrutinio qualsiasi broglio da parte degli estremisti che in molte zone erano unici arbitri della situazione. Nessun serio controllo dei risultati elettorali fu possibile. Infine il mutamento istituzionale è giuridicamente invalidato dal fatto che il governo proclamò la repubblica e ne assunse il poteri con un gesto rivoluzionario, senza attendere, come prescriveva la legge, le decisioni della magistratura. Tutto io questo devo dirlo per la verità storica. Ma non ne trarrò motivo come non l’ho mai fatto in tutti questi anni di esilio, per abbandonarmi a recriminazioni, per porre rivendicazioni, per incoraggiare o permettere qualsiasi iniziativa e possa in qualche modo turbare vita pubblica italiana. Il bene del mio Paese è la sola cosa che conti. Per ciò che mi riguarda, io mi affido a Dio. Se dovrò restare in esilio fino all’ultimo giorno della mia vita, accetterò senza ombra di rancore la mia sorte. Se al contrario Dio vorrà che io torni a servire in qualche modo il mio Paese, lo farò con tutta l’anima e con tutte le mie forze . (A proposito del periodo immediatamente successivo al referendum istituzionale, il Generale W. Anders, allora comandante delle truppe polacche in Italia, ha scritto per precisare, riferendosi alla terza puntata di questo servizio, che non ebbe in quei giorni un colloquio con  Umberto   e non offrì le sue forze al servizi della monarchia. Questo contrasta tuttavia con quanto si è sempre detto negli ambienti vicini al re).

Orgoglio d’Italiano

«Nostalgia?», dice Umberto rispondendo a una mia domanda, «certo: il desiderio di rivedere l’Italia in certi momenti è cosi acuto, che diviene quasi sofferenza fisica. Ma devo dire che la vita dell’esule, ha anche i suoi aspetti positivi: chi è condannato a vivere lontano dal proprio Paese impara ad amarlo in modo più vivo e ricava da  questo amore gioie che chi sta o può tornare in patria forse non conosce. Vuole un esempio? In Portogallo, come avrà notato, ci sono molte automobili Italiane, soprattutto 1100 e 600. Ebbene, ogni volta che vedo passare un’automobile italiana, la seguo con gli occhi, a lungo, vorrei dire quasi affettuosamente, con orgoglio e provo una felicità vera e, intensa. Credo che nessuno in Italia provi qualcosa di simile guardando una 1100 o una 600. La stessa improvvisa commozione mi investe se vedo nella vetrina di una libreria, in Portogallo o in Francia  o altrove, un volume di autore italiano tradotto, o se, passando davanti a un negozio di dischi, sento una canzone italiana, o se vedo in un’edicola un giornale italiano. Così quando apprendo la notizia di un successo qualsiasi ottenuto da un Italiano nel mondo, sia che si tratti del Nobel assegnato a Quasimodo o a Segré, o di un Oscar vinto da un film di Fellini, o della maglia di campione del mondo conquistata da Baldini, io ne provo una felicità vera, intima, come se il successo mi riguardasse personalmente…»

Si interrompe, un po’ imbarazzato per avere ceduto al calore della commozione; si passa una mano sulla fronte, sorride, e mi dice con tono distaccato:  «Questo non lo scriva, la prego».