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Umberto giudica suo padre di Luigi Cavicchioli

Umberto giudica suo padre – di Luigi Cavicchioli – 1966 – 3

By Novembre 25, 2019Gennaio 24th, 2022No Comments

Umberto giudica suo padre

di Luigi Cavicchioli

Il Re, tramite Acquarone, propose a Ciano di convocare il Gran Consiglio per destituire Mussolini.

Quando avvenne il colloquio?

Il 14 marzo 1940. Ciano rimase sensibilmente scosso ma prese tempo per riflettere

Dal 24 maggio 1939 (firma del Patto d’Acciaio fra il governo fascista e la Germania di Hitler) al 10 giugno 1940 (entrata in guerra dell’Italia) fu un susseguirsi di vicende drammatiche e contraddittorie, una snervante altalena di speranze e timori, fra la pace e la guerra. Lo stesso Mussolini visse quei mesi in uno stato di incredibile confusione e incertezza, passando da un giorno all’altro, o più volte nello stesso giorno, dall’euforia bellica alla prudenza neutralista, dal furore per la subdola politica di Hitler all’invidiosa ammirazione per le sue folgoranti vittorie militari. Nessuno, in Italia, voleva la guerra: non la volevano, nella maggior parte dei casi, i gerarchi fascisti, non la volevano i generali, consapevoli della nostra impreparazione militare e della sconfitta pressoché certa. Eppure, dopo un anno di penosi tentennamenti, l’Italia entrò in guerra al fianco di Hitler.

« Fu davvero un evento ineluttabile l’entrata in guerra del l’Italia? – chiedo. – Che cosa fece il re per tentare di impedire che Mussolini portasse il paese alla catastrofe? ».

« I mesi che intercorsero fra la firma del Patto d’Acciaio e la nostra entrata in guerra – dice Umberto – non furono, per il re e il suo più diretto collaboratore, il ministro della Real Casa, Acquarone, come si è voluto far credere, mesi, di abulia, di inerte attesa dell’irreparabile. Furono mesi di angoscia, di speranza, di febbrili iniziative per mantenere l’Italia fuori dal conflitto. Purtroppo ben poco importa ciò che si è f atto, quando lo scopo non è stato raggiunto. Storicamente, tuttavia, anche i tentativi falliti hanno da essere onestamente registrati. I gerarchi fascisti di maggior prestigio erano in maggioranza, è noto, contrari alla guerra al fianco di Hitler. Il re, coadiuvato dal ministro della Real Casa, cercò di trarre profitto da questa circostanza. Ebbe molti colloqui, e molti ne ebbe Acquarone, coi gerarchi notoriamente neutralisti, i quali furono incoraggiati ed esortati ad assumere un atteggiamento fermo davanti a Mussolini per distoglierlo dai suoi propositi di guerra. Uno dei più sinceri antitedeschi era senza dubbio il conte Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri e genero di Mussolini: non nascondeva i suoi sentimenti, anzi ne faceva esibizione, soprattutto negli ambienti mondani, con una coraggiosa franchezza che purtroppo gli veniva meno quando era di fronte al duce. Da molti, comunque, era considerato, a torto o a ragione, l’uomo che avrebbe potuto, volendo, tenere testa a Mussolini, di cui godeva la stima e l’affetto. Mio padre e Acquarone riposero in Galeazzo Ciano speranze che alla fine si rivelarono eccessive. Decisero di legarlo con vincoli sempre più saldi alla corona per averlo alleato nel tentativo di salvezza del paese. Nel 1939 il re gli concesse il Collare dell’Annunziata, nonostante il desiderio contrario di Mussolini, e questo lo portò a una maggiore assiduità di rapporti e a una più fattiva identità di opinioni con il re e con Acquarone. Ci furono lunghi colloqui. Fu possibile indurlo ad assumere un atteggiamento fermo davanti a Mussolini, passando dalla fronda salottiera a una concreta azione politica. E sembrò per qualche tempo che il successo dovesse coronare questa azione ».

« Il 2 settembre 1939 – prosegue Umberto – gli italiani tirarono un gran sospiro di sollievo, dopo tanta angosciosa incertezza, leggendo sui giornali che il Consiglio dei ministri, la sera avanti, aveva approvato un ordine del giorno (redatto da Ciano e dallo stesso Mussolini) che sanciva la decisione del non intervento italiano. Ciano nei tre mesi successivi si prodigò per consolidare il tentennante neutralismo di Mussolini. Il suo successo sembrò pieno e definitivo alla fine del 1939, quando pronunciò, il 7 dicembre in Gran Consiglio e il 16 alla Camera, i due discorsi che suonarono come orazioni funebri per il Patto d’Acciaio: egli denunciò apertamente la violazione degli accordi da parte di Hitler, che si era gettato nelle più spregiudicate avventure belliche senza nemmeno preavvertire il governo italiano, che pure aveva aderito al Patto con lo scopo dichiarato “di assicurare un periodo di pace all’Europa. Il re credette veramente che la tremenda sciagura di una guerra al fianco dei tedeschi fosse scongiurata: del resto tutto il paese lo credette e lo sperò in quell’ultimo inverno di pace. Ma queste speranze, furono calpestate dallo stesso Ciano, sei mesi dopo, nel giugno 1940, quando, conservando la sua carica di ministro degli Esteri, comunicò agli ambasciatori inglese e francese la dichiarazione di guerra ».

« Nient’altro fu fatto, in extremis, per fermare Mussolini nella sua insensata corsa verso l’abisso? ».

« Un tentativo estremo fu fatto – dice Umberto – e fu un tentativo serio, meditato, disperato ma non assurdo. Il conte Acquarone (mi incontravo con lui di frequente, in quei mesi, per esternargli le mie apprensioni e caldeggiare i miei punti di vista) mi rivelò in ogni dettaglio un piano sul quale la corona faceva affidamento per evitare al paese la sciagura della guerra: era l’estrema speranza, una pallida speranza, in verità, ma viva e reale. Il sovrano riteneva di avere una sola possibilità di levare dalle mani di Mussolini il potere, con un margine di rischio accettabile, seguendo una prassi costituzionale: provocare un voto di sfiducia del Gran Consiglio del fascismo ».

« In altre parole, il re puntava la propria speranza su un vero e proprio ” 25 luglio ” anticipato di tre anni: un bel sogno davvero. Ma fu possibile tentare qualcosa di concreto in tal senso? ».

« Si tentò, certo. Questo è un fatto che forse merita d’essere chiarito: io so con quanto impegno Acquarone si dedicò all’impresa, so che l’azione fu spinta molto più avanti di quanto si possa immaginare e che il re per breve tempo sperò davvero di raggiungere lo scopo. Nelle ultime settimane del 1939 e nei primi mesi del 1940 Acquarone avvicinò quasi tutti i gerarchi di un certo prestigio, sondò le loro opinioni sulla politica filo-tedesca di Mussolini e sulla eventualità di una guerra al fianco di Hitler. Ne ricavò la certezza che i membri del Gran Consiglio, se si fossero trovati a dover esprimere un voto secondo coscienza, avrebbero votato in maggioranza a favore della neutralità e contro il duce. Il personaggio sul quale il re dovette fare affidamento fu ancora una volta il conte Galeazzo Ciano: lui solo, per la sua particolare posizione che gli derivava dall’essere genero di Mussolini, poteva prendere l’iniziativa, senza troppo rischio personale e con buone speranze di successo. L’essere lui il promotore dell’iniziativa e magari il nuovo capo del governo avrebbe inoltre sdrammatizzato la crisi, facendo apparire la sostituzione del duce quasi un provvedimento deciso “in famiglia”. Considerando tutto ciò, il ministro della Real Casa, per incarico del sovrano, mise Ciano al corrente del piano per il quale era necessaria la sua collaborazione ».

« Come quando, con che esito ebbe luogo quel colloquio?».

« Gli incontri fra Ciano e Acquarone furono diversi, nei primi tre mesi del 1940. Dapprima il ministro della Real Casa si mantenne un po’ sul vago: malgrado il neutralismo del conte Ciano, non erano dei tutto prevedibili le sue reazioni di. fronte a una questione di tanta gravità messa in tavola senza reticenze. Poi Acquarone si decise a parlare chiaro, unico modo per giungere a un risultato concreto. Ciò avvenne il 14 marzo, al golf, di cui Ciano era assiduo frequentatore. Di quel colloquio, che il ministro della Real Casa mi riferì poi minutamente, posso citare le battute più significative: ricostruite con una certa approssimazione, s’intende, nella forma, ma esattissime nella sostanza.

« ” Caro Ciano – esordì Acquarone – la situazione diventa di giorno in giorno più drammatica: il duce, e mi perdoni se parlerò male di un uomo che le è pur sempre suocero, sembra ormai deciso a portare l’Italia nel baratro di una guerra senza speranza. Il re conosce il disagio che attanaglia il Paese, sa che gli italiani non vogliono combattere questa guerra per Hitler, che la nostra preparazione è tale da garantire soltanto sconfitte: il re non vuole e non può attendere impassibile la catastrofe che incombe sul paese “».

« Io conosco bene – disse Ciano – i sentimenti di Sua Maestà, so con quanta sincerità e passione ha sempre aborrito l’eventualità di una guerra al fianco dei tedeschi, ma la corona, purtroppo, non può fare più nulla: il destino è nelle mani del duce, il quale, non più tardi di una settimana, mi ha detto che quando il momento di marciare verrà, l’Italia marcerà, sicura e possente, con o senza il beneplacito del sovrano ».

«  Ma il re, caro Ciano, la pensa diversamente: è pronto ad agire con energia, fino alle estreme conseguenze, fermo restando soltanto il principio della legittimità costituzionale, indispensabile per evitare disordini nel paese e, Dio non voglia, un intervento tedesco col pretesto di ristabilire la legalità».

« Agire con energia – disse Ciano – sta bene, ma cosa può fare, ormai, il sovrano? ».

«Molto, tutto: può capovolgere la situazione, salvare il paese, purché gli sia offerta la possibilità di agire nell’ambito costituzionale ».

«Non comprendo ancora ».

« Esiste – disse Acquarone – un organo creato per controllare l’opera dei governo: parlo del Gran Consiglio dei fascismo, il cui giudizio, bene o male, è per il sovrano indice della volontà del paese e garanzia di legittimità. Se il Gran Consiglio esprimesse un voto di censura o sfiducia per la politica di guerra del capo del governo, il sovrano inviterebbe Mussolini a rassegnare le dimissioni ».

« Comprendo – disse Ciano – ma il Gran Consiglio non esprimerà un voto di, censura per la politica del duce, perché il duce in persona mi ha detto che non lo riunirà più per molto tempo: ha già deciso che, al momento giusto, la guerra sarà dichiarata senza che si debba disturbare il Gran Consiglio per questa piccola formalità, come si è espresso lui stesso».

«Ma è inaudito – esclamò Acquarone – è un affronto a voi che ne fate parte. Non potete permettere che l’Italia sia trascinata in una guerra catastrofica, di cui sarete corresponsabili, senza essere prima consultati. Voi potete esigere, in qualsiasi momento data la gravità della situazione attuale, che il Gran Consiglio si riunisca: il sovrano si impegna a sostenere ad ogni costo una vostra richiesta in tal senso, mi comprende? Mussolini non potrà rifiutare. Spetta a voi agire, con la fermezza e l’autorità che vi deriva dall’essere i custodi della legittimità costituzionale. In Gran Consiglio potete discutere e condannare la politica di guerra del capo del governo: potete emettere un voto di sfiducia. Non le nascondo, caro Ciano, che il re guarda a lei, in questo momento, con grande fiducia e speranza».

« Io sono grato a Sua Maestà, ma non so proprio cosa potrei fare per non deludere la sua speranza ».

«Una cosa molto semplice, caro Ciano: fare il censimento delle coscienze fra i membri del Gran Consiglio. accertare quanti sono coloro che giudicano disastrosa la nostra eventuale entrata in guerra al fianco di Hitler e quanti, di costoro sono disposti ad alzare un braccio per impedire la rovina del paese: se la maggioranza c’è, e io ho motivo di credere che ci possa essere, non resta che tradurla in voto di sfiducia per il. capo del governo. Questo è il compito che lei potrebbe assumersi e di cui l’Italia le sarebbe grata».

« ” Ma sarebbe un tradimento ” disse Ciano con scarsa convinzione».

«Non deve dire questo esclamò Acquarone.  Un voto liberamente espresso, in seno a un organismo qualificato, per porre fine a una politica sbagliata, per evitare una immane sventura al paese, noli è un tradimento: è un normalissimo atto di procedura costituzionale, che lei ha diritto di compiere in quanto membro del Gran Consiglio».

«Ciano era visibilmente scosso: riconosceva la verità di ciò che Acquarone aveva detto. Chiese tempo per riflettere».

« Questo colloquio fra Ciano e Acquarone — dico a Umberto – è senza dubbio di grande interesse: un episodio che ha sapore di rivelazione e getta luce nuova sui personaggi e gli eventi cui si riferisce, che ci lascia sgomenti…».

« Il colloquio, non sarà male ribadirlo, è ricostruito con una certa approssimazione nella forma, ma è esattissimo nella sostanza. Come ho detto prosegue Umberto – io fui informato da Acquarone, che a proposito di quel colloquio si sentì autorizzato a manifestare un certo ottimismo circa gli sviluppi della operazione. Diversi anni più tardi, nel diario di Ciano, pubblicato postumo, trovai, alla data dél 14 marzo 1940, alcune righe che si riferiscono al colloquio con il ministro della Real Casa. Sono poche parole che non dicono molto, comunque non tutto, al lettore ignaro: ma a me che sapevo suonarono come una amara conferma dell’occasione perduta. La reticenza di Ciano al momento di compilare quella pagina di diario, è comprensibile e lodevole: fu prima di tutto doverosa discrezione verso il re e il suo ministro, poi elementare prudenza per se stesso (non bisogna dimenticare che Ciano scriveva giorno per giorno il suo diario: e nel 1940 il racconto completo del colloquio con Acquarone sarebbe stato, se fosse capitato sotto occhi interessati, un fatto enorme, tale da mettere a soqquadro il paese). Ciano si limita a riferire di avere incontrato al golf Acquarone il quale gli ha confidato che il re, allarmato per gli eventi in corso, pensava che da un momento all’altro potesse presentarsi per lui “la necessità di intervenire con netta energia per dare una diversa piega alle cose”. E conclude: “Acquarone dice che il re ha verso di me più che benevolenza, un vero e proprio affetto e molta fiducia. Acquarone, non so se d’iniziativa personale o d’ordine, voleva portare più oltre il discorso, ma io mi sono tenuto sulle generali”. In questa breve annotazione, benché incompleta e prudenziale, appena allusiva, c’è tuttavia la piena conferma dell’episodio, almeno per me che ne ero a conoscenza. Soltanto che Acquarone, come ho detto, portò effettivamente oltre, assai oltre, il discorso: e Ciano non si mantenne sulle generali, ma dimostrò interesse, quel giorno, e lasciò sperare in una sua azione concreta che potesse portare all’evento vagheggiato dal re. Fu in seguito che Ciano preferì ritirarsi sulle generali: invano il re e Acquarone attesero sviluppi che non maturarono ».

« C’è davvero di che restare sgomenti: due gentiluomini, quel giorno di marzo del 1940, al golf, in una cornice squisitamente mondana, interrompendosi di quando in, quando per salutare con un sorriso una bella signora, discutevano su come preservare o meno il paese dalle immani sciagure di una guerra, insensata: poi non se ne fece  più nulla… ».

« Oggi – prosegue Umberto – mi rendo conto che fu ingenua illusione pensare che Ciano potesse veramente assumersi la responsabilità di mettere in movimento la macchina che strappasse il potere a Mussolini. Eppure allora,  sia pure per breve tempo, ci aggrappammo a quella speranza. E dico aggrappammo, perché io stesso, qualche giorno dopo il colloquio del 14 marzo fra Acquarone e Ciano, avvicinai quest’ultimo per sondare le sue intenzioni, senza rivelare, ovviamente, che di quel colloquio ero a conoscenza. Parlai a Ciano con molta chiarezza delle condizioni disastrose delle nostre Forze Armate, sulla scorta di mie esperienze personali: avevo infatti eseguito sopraluoghi e controlli nei punti chiave del nostro schieramento militare. Purtroppo lo trovai già svuotato di ogni energia e rassegnato all’ineluttabile. Condivideva, certo, le mie opinioni e apprensioni (di cui mi diede atto nel suo diario menzionando sia pure parzialmente il nostro colloquio). Ma compresi che nulla avrebbe fatto, ormai, per mutare le sorti del paese. A mano a mano che la guerra si avvicinava, egli sembrava chinare sempre più il capo davanti alle esigenze di una ” superiore disciplina ” cui si sentiva vincolato. Il 19 maggio, parlando a Milano, il conte Galeazzo Ciano si esprimeva così: ” La parola d’ordine verrà a noi tutti dal duce, da colui che è il nostro unico capo in pace e in guerra, dall’uomo il cui nome. è sinonimo di vittoria e di gloria”. Oggi un tale atteggiamento, in così stridente contrasto con le opinioni espresse in privato fino a pochi giorni innanzi, può. apparire inqualificabile e aberrante: ma dobbiamo rifarci al clima dell’epoca, non per giustificare, ma almeno per comprendere come Ciano, in quel sacrificio delle proprie idee alla ” superiore disciplina” potesse addirittura avvertire un senso di malintesa nobiltà. In giugno, a pochi giorni dal conflitto, Ciano ebbe un ultimo colloquio col sovrano, che aveva voluto rendersi conto di persona se si poteva ancora riporre in lui un’ombra di speranza. Ma il giovane ministro degli Esteri, questa volta sì, fu evasivo, si tenne sulle generali. si mostrò imbarazzato e avvilito. A proprio conforto, scriveva poi sul diario:”Il re è rassegnato, niente più che rassegnato, all’idea della guerra”».

Rassegnato: ma come ha potuto, il Re, rassegnarsi a una simile idea?