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Mussolini e il Re mio padre di Silvio Maurano

Mussolini e il Re mio padre – di Silvio Maurano – 2

By Dicembre 30, 2019Gennaio 24th, 2022No Comments

L’uomo nuovo al Qurinale

*Mussolini aveva per il Re mio, padre non solo rispetto ma quasi un vero e proprio timore che Hiltler in seguito gli rimproverò

*Alla vigilia della presentazione del nuovo governo, Vittorio Emanuele III si rifiutò risolutamente di rilasciare a Mussolini il decreto in bianco per sciogliere la Camera

*Perchè la Camera eletta nel 1921 avallò due anni dopo una riforma elettorale che praticamente la svuotava del suo contenuto politico e in più faceva perdere ai deputati la speranza di ritornare a Montecitorio?

La sera del 29 ottobre, alle 20,30, Mussolini partì da Milano: il Re, dimessosi il governo il giorno prima e dopo una giornata di consultazioni, aveva deciso di incaricarlo di formare il nuovo ministero. Così l’aiutante di campo di Sua Maestà, il generale Cittadini, aveva telefonato a Mussolini, ma questi, tanto per avere nero su bianco, aveva chiesto, prima di salire sul treno, che la convocazione fosse ripetuta per telegramma. Undici anni dopo Mussolini diceva a Ludwig che era «sempre stato sicuro che avrebbe vinto perché se fosse rimasto in vigore lo stato di assedio». Diceva una verità postuma, poiché Margherita Sarfatti mi confidava molti anni dopo (quando Mussolini l’aveva definitivamente abbandonata, accorgendosi un po’ troppo tardi che la sua preziosa consigliera, e non solo consigliera, era ebrea), che in quelle giornate Mussolini era stato preso dal timor panico, e aveva a lungo resistito prima di sfornare l’ordine di inizio dell’azione. Come che sia, riusciti i primi colpi di mano, la situazione difficilmente poteva essere ripresa in mano dal governo, e Mussolini lo aveva intuito nel tempo a stesso che, dall’altra parte del la barricata, lo intuiva Vittorio Emanuele III.

Il treno sul quale viaggiava a Mussolini giunse in grosso ritardo a Roma: alle 11. Alla stazione di Civitavecchia egli aveva voluto scendere per salutare i fascisti della colonna,che avevano occupato la città.

La famosa frase

Dalla stazione Termini, dov’è atteso da una grande folla, Mussolini si dirige al Quirinale: qui i funzionari della Real Casa che lo ricevono hanno la spiacevole sorpresa di vederlo presentarsi in camicia nera. Altre volte era accaduto che uomini politici si fossero presentati in abito da passeggio, ma questa faccenda della camicia nera faceva presagire cattive intenzioni da parte del vittorioso. Alle 11,15 Mussolini è dinanzi al Sovrano. Fu nel rivolgersi a Vittorio Emanuele III ch’egli pronunziò la famosa frase: «Chiedo perdono a Vostra Maestà di presentarmi ancora in camicia nera, reduce dalla battaglia fortunatamente incruenta che si è dovuto impegnare. Porto a Vostra Maestà l’Italia di Vittorio Veneto riconsacrata dalla nuova vittoria e sono il fedele servitore di Vostra Maestà ».

Chiedo a Umberto se la frase fu effettivamente pronunciata; egli sorride dicendo: «Credo che presso a poco sia vera. Effettivamente, Mussolini chiese scusa per l’inopportuna camicia nera, che aveva indossato pensando forse di dover affrontare una situazione tesa; ma dovette rimanere colpito dalla serenità cortese del Re mio padre, come avverrebbe a chi si presentasse armato di fucile e si vedesse porgere la mano. In realtà, il Re mio padre aveva passato ore difficili. Soprattutto lo preoccupava il pensiero che Mussolini intendesse dare un carattere rivoluzionario al nuovo governo. Invece, il solo contegno del Re bastò per imporre a Mussolini un rispetto che non abbandonò mai, nemmeno negli anni più difficili. Mussolini aveva per il Re mio padre  non soltanto rispetto ma quasi un timor reverenziale, il che gli fu poi rimproverato da Hitler. Comunque, al primo incontro il Re mio padre comprese che poteva dominare la situazione e, superati i convenevoli del tipo “incontro di Teano”, espose subito la sua intenzione di vedere un governo che non fosse di colore fascista, ma fosse qualcosa come un governo di concordia nazionale. Ormai il Re mio padre conosceva il parere dei capi dei gruppi parlamentari, e sapeva che Giolitti avrebbe dato al nuovo gabinetto alcuni dei suoi seguaci, e altrettanto avrebbero fatto i popolari e i democratici-sociali, Mussolini accettò l’indirizzo senza risentirsi, sebbene poi, nel primo discorso alla Camere, dicesse che intendeva temporanea la soluzione. Viceversa rimase colpito dalla seconda esigenza presentata dal Re mio padre, a proposito d’Esercito: le Forze Armate erano rimaste molto scosse dalle vicende insurrezionali, e occorreva ripristinare al più presto la disciplina e la apoliticità fra gli ufficiali, per cui Mussolini due giorni dopo tenne il famoso discorso dal balcone dell’albergo Savoia agli ufficiali che si erano adunati per acclamarlo, e ribadì subito dopo il suo pensiero con una lettera in data 2 novembre al comandante della divisione militare di Roma, in cui espressamente diceva: ” L’Esercito nazionale non può, non deve applaudire, né disapprovare: esso deve soltanto e sempre fedelmente obbedire”».

Una misura eccessiva

Infine, Mussolini dovette accettare che i dicasteri militari fossero affidati nelle mani del generale Diaz e dell’ammiraglio Thaon di Revel, che il Re mio padre volle prendessero in mano la situazione; pare che Mussolini avesse in mente altri nomi per altre situazioni, ma tuttavia non batté ciglio. Il fatto nuovo, d’ordine psicologico e quindi politico, si ebbe nelle udienze successive, allorché Mussolini si recò al Quirinale addirittura in “tight”, come a voler dimostrare che accettava la continuazione d’una etichetta democratica ma non rivoluzionaria ».

Il «tight> o la redingote era l’abito di prescrizione per le udienze sovrane; le sole eccezioni a quella regola le avevano fatte Filippo Turati e Leonida Bissolati.

«Un fatto curioso – prosegue Umberto – avvenne il giorno prima della presentazione del nuovo governo dinanzi alla Camera. Il Re mio padre era tornato da un breve soggiorno a San Rossore appositamente per questo, e ricevette Mussolini nel pomeriggio del 15 novembre. Il nuovo presidente del Consiglio manifestò qualche dubbio sulla lealtà di qualcuno del gruppi politici, che avevano dato i loro esponenti al governo, e temeva qualche sorpresa. Perciò chiese il cosidetto “decreto di scioglimento in bianco”, forma di pressione che talvolta serviva per influire sul Parlamento. Il Re mio padre si oppose risolutamente; affermò che tale procedura era stata raramente usata e nei soli casi in cui un governo avesse in corso l’esecuzione di un programma importante che non si poteva interrompere senza grave pregiudizio. Per un governo nuovo, un decreto di scioglimento della Camera in bianco avrebbe esposto la Corona in una misura eccessiva, in quanto avrebbe fatto pensare che il Sovrano volesse in ogni caso imporre il governo fascista al Parlamento, il che non rispondeva alla realtà. Andasse Mussolini, dinanzi alla Camera dei deputati, esponesse il suo programma in modo convincente, e certamente avrebbe ottenuto il voto favorevole ».

Umberto e io abbiamo sotto gli occhi la lista del primo governo formato da Mussolini, che aveva per sé i dicasteri degli Esteri e degli Interni. I ministri fascisti erano cinque su quattordici: Mussolini, De Stefani, Federzoni, Oviglio, Giuriati; apolitici erano i due ministri militari: Diaz e Thaon di Revel; del partito popolare: Cavazzoni e Tangorra, più i sottosegretari Gronchi, Vassallo e Milani. Liberali: Da Capitani, Gentile e Teofilo Rossi: democratici – sociali: Carnazza e Colonna di Cesarò.

«Ormai – dice Umberto la situazione si legalizzava: il Parlamento avrebbe deciso sulla soluzione proposta dalla Corona; ma non per questo si dica che la Corona se ne lavava le mani! Non sarebbe giusto, in quanto spettava proprio al Parlamento dare il giudizio definitivo, e non sarebbe stata la prima volta che il Parlamento avesse bocciato un governo proposto dalla Corona! Il che, quella volta, non avvenne».

Non avvenne, nonostante che Mussolini avesse rivolto al Parlamento riunito la tagliente frase: «Avrei potuto fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco per i miei manipoli… . La Camera eletta nel 1921 subì l’offesa e quasi si mostrò paga di non essere disciolta, accordando con largo margine la fiducia al governo. Non si era rinnovata la sorte di Robespierre caduto dinanzi all’assemblea che egli aveva minacciata. Non vi erano state le sorprese temute da Mussolini. Vittorio Emanuele III poté cosi rafforzarsi nel suo intimo convincimento di avere bene deciso e di avere evitato alla Nazione una disastrosa guerra interna. Il Sovrano aveva giocato una carta pericolosa: ma il Parlamento, votando la fiducia al governo di Mussolini, si assumeva intera la responsabilità in merito alla legalità della soluzione.

Un fatto che avvenne qualche mese dopo l’insediamento di Mussolini al potere riesce inspiegabile ad Umberto: il fatto, cioè, che la Camera votò la nuova legge elettorale maggioritaria, che pur segnava implicitamente la sua condanna. Il sistema maggioritario stabiliva che quel partito che avesse ottenuto, in lista nazionale, la maggioranza anche se relativa dei suffragi avrebbe beneficiato dei due terzi dei seggi in Parlamento. Per esempio, su dieci liste se nove di esse avessero ottenuto in complesso un po’ meno del 75 per cento, ed una avesse ottenuto qualcosa più del 25 per cento, a questa sarebbero andati due terzi dei seggi. Mussolini aveva voluto quella legge perché temeva che, essendo tuttora molto forti sia il partito socialista che il partito popolare, da elezioni col sistema ordinario proporzionale uscisse una Camera ancora troppo frammentaria.

«Vi fu qualcosa di incomprensibile – dice Umberto nell’atteggiamento della Camera in merito alla nuova legge elettorale. Se si può comprendere la sua remissività di fronte al capo ribelle che la ingiuriava e quasi la terrorizzava con argomenti di umana psicologia piuttosto modesta, è meno facile capire perché la Camera abbia avallato una, riforma elettorale che praticamente la svuotava del suo contenuto politico, e soprattutto faceva perdere alla maggior parte dei deputati la speranza di tornare a Montecitorio. Avrei compreso ma ribellione a questo punto, piuttosto che al momento della prima presentazione del governo: questa volta si trattava di difendere perfino il posto a sedere in Parlamento, e in genere gli uomini sono molto sensibili a questo tipo di cose. La legge detta ” maggioritaria ” non dava molte speranze agli oppositori, la cui falcidia massiccia era sicura, dato che le operazioni elettorali sono dappertutto quello che sappiamo! Lo stesso Mussolini si sentiva poco sicuro di spuntarla, tanto che chiese l’approvazione della legge con decreto reale, previo scioglimento della Camera. Il Re mio padre si oppose molto risolutamente ».

Umberto mi dice anzi di ricordare che Mussolini aveva intenzione di proporre una legge elettorale ancora più drastica, per la quale soltanto i due partiti meglio classificati avrebbero diviso i seggi, dando i tre quarti circa dei posti al primo classificato e il rimanente al secondo. Ma Vittorio Emanuele III aveva consigliato di non irritare troppo le minoranze, anche in considerazione del fatto che dei due maggiori partiti di opposizione eventuale almeno uno sarebbe stato in quel modo tagliato fuori, il che appariva pericoloso. Chi sarebbe rimasto fuori? Il partito socialista o quello cattolico? In ogni caso le ripercussioni sarebbero state gravi. Né minore sarebbe stato il danno se fossero scomparsi del tutto i liberal-democratici, nelle cui file si trovavano i migliori uomini di stato, a cominciare da Giolitti. Si trattava, invece, di conoscere la opinione del paese, l’opinione pubblica in un modo soddisfacentemente, onesto. Alla parola «opinione pubblica», Umberto sorride e cita una frase di Hegel: «il popolo è quella parte della nazione che non sa quello che vuole». Poi, per evitare equivoci, spiega: Il popolo è un po’ come i bambini che non hanno ancora perfetto l’uso della parola. e di cui quindi si devono interpretare i desideri anche se male espressi. Ma si devono anche respingere i desideri pericolosi per la loro salute, e Dio sa se, col sistema della propaganda politica posta su basi commerciali, si chiedono troppo cose pericolose in nome del popolo, che viceversa non sa niente! Veda, nessuno più di un buon sovrano ha il dovere di amare molto il popolo, per impedire che si faccia male per inesperienza o per vaghezza di novità! L’opinione della massa non esiste, in quanto la massa, in genere, adotta per pigrizia mentale l’opinione del predicatore più abile. E crede forse che se fosse possibile chiedere, con un mezzo che non esiste ma che bisognerebbe inventare ad ogni singolo cittadino la sua opinione sui grandi problemi politici si avrebbero risultati migliori? Purtroppo bisogna accontentarsi del sistema meno difettoso, senza tuttavia giurare su questo come su altri».

La legge Giolitti

«Sa lei che, l’Unità d’Italia venne realizzata con un Parlamento che rappresentava una esigua minoranza? Ancora nel 1876, quando l’Italia aveva già circa 30 milioni di abitanti, gli elettori iscritti nelle liste erano soltanto 622 mila, di cui la terza parte era sistematicamente assente alle urne. Dica pure che le Camere tra il 1861 e il 1876 furono elette da non più di 400 mila italiani. Avevano allora, diritto al voto soltanto i cittadini che contribuivano alle spese dello Stato pagando almeno quaranta lire di tasse (equivalenti a non meno di 25-30000 lire attuali) avevano compiuto venticinque anni e possedevano un grado medio di cultura. Non era certo una legge molto liberale, ma assicurava un discreto apporto di competenze da parte degli elettori. Poi a con la legge del 1882, si concedette il voto ai cittadini che avessero ventun anni d’età,pagassero almeno 19 lire di tasse (circa 15.000 attuali) e provassero di avere una istruzione equivalente alla seconda elementare. Gli elettori divennero cosi circa tre milioni: ma si accentuò lo scompenso fra Nord e Sud essendo enormemente maggiore la percentuale di analfabeti e di non abbienti nel Sud. E, tuttavia, si andò avanti con questo sistema fino al 1912, quando con legge Giolitti si aprirono le porte delle cabine di votazione a tutti i cittadini, con esigue eccezioni: e gli elettori divennero 8 milioni.

Cose assurde

Infine con la legge Nitti del 1919, la competizione si spostò dal piano dei valori personali dei candidati su quello dell’efficienza delle segreterie dei partiti. Indubbiamente non si potevano lasciare fuori della porta del potere masse enormi di cittadini non forniti di censo o di istruzione; ma doveva trovarsi una formula diversa per migliorare la spontaneità, direi la genuinità della votazione.

«Con la legge del 1923 le cose divennero ancor più assurde, in quanto non si trattava più di una competizione fra i partiti, cioè fra le segreterie dei partiti, ma della decisione dell’unico partito che aveva la matematica certezza di ottenere la maggioranza assoluta dei seggi. Sicché, in definitiva, Mussolini sceglieva in precedenza gli uomini, che poi avrebbero formato la maggioranza nella Camera».

«Indubbiamente in tutti i paesi del mondo, con indirizzo socialista o borghese, si sviluppa la tendenza alla egemonia parlamentare. Mi pare che quando un Parlamento viene eletto con i moderni sistemi, ben poco resti della tradizione democratica classica, in quanto i governi così appoggiati non hanno alcunché da temere dal Parlamento, che ha la sola funzione di mettere lo spolverino su provvedimenti deliberati in altra sede. Si ha l’impressione che, cosi stando le cose, i governi agiscano in perpetuo stato dì pieni poteri; il che non è altro che una forma mascherata di dittatura o di oligarchia. In tali condizioni, lo stesso potere di una Corona non rappresenta che una lustra, l’autorità essendo in mano di una o poche persone poste a capo della segreteria del partito dominante ».