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Regina Maria José, interviste

La mia vita nella mia Italia – di Giacomo Maugeri 1958 – 2

By Ottobre 26, 2018Ottobre 24th, 2021No Comments

Intervista a S.M. la Regina Maria José

La mia vita nella mia Italia – II

di Giacomo Maugeri

Una bambina bionda

Era una bambina bionda, dai capelli ricci ricci, gli occhi azzurrissimi e le gambe lunghe lunghe. I capelli ricci, fitti, la facevano disperare. A lei piacevano lisci e per ore e ore davanti allo specchio, se li tirava col pettine, così energicamente da farsi male. La vita dei sovrani, a Laeken era senza fasto. Re Alberto era un uomo dai gusti semplici. « Papà ha avuto la gloria e l’ha portata come un peso», dice Maria José, e soggiunge: «Altri hanno sempre cercato la gloria e non l’hanno avuta». Alberto del Belgio era il secondo figlio del conte di Fiandra e non era destinato al trono. Divenne erede presuntivo a 15 anni, quando suo fratello Baldovino, che avrebbe dovuto succedere allo zio, il vecchio re Leopoldo II, morì. Nel 1900, Alberto aveva sposato Elisabetta, una principessa bavarese, donna intelligente, intraprendente, vivace, piena di humour, per lui tenera compagna. Alberto
ed Elisabetta personificavano l’amore coniugale, erano un esempio di virtù domestiche e borghesi. Nel 1901, nacque Leopoldo; due anni dopo. Carlo. Il 4 agosto del 1906 nella villa Osterrieth di Ostenda, nacque la principessa Maria José. Niente, nella giornata dei principi, veniva lasciato all’imprevisto o alla iniziativa dei maggiordomi. Alberto si alzava alle 6. Alle 11, sua
moglie Elisabetta suonava il violino. A mezzogiorno, pranzo intimo: antipasto, un primo e un secondo piatto, un dessert. Vino soltanto quando c’erano ospiti; altrimenti, acqua minerale. Alle 6 di sera, tassativamente, i bambini andavano a letto e il principe Alberto e la principessa Elisabetta  si recavano a dar loro la buonanotte prima che si addormentassero. Alle 7 precise veniva servita la cena per quattro: principe, principessa, ufficiale e dama di servizio. Quando, all’età di 74 anni, morì a Laeken Leopoldo II e Alberto I salì al trono, questo ritmo di vita non mutò sensibilmente. «Si conquista il cuore delle folle con la grazia, lo si tiene con la bontà», aveva detto Adolphe Max, sindaco di Bruxelles, nel suo indirizzo di omaggio ai sovrani il giorno dell’incoronazione. « La bontà regna sui cuori», doveva divenire il loro motto. Venne inciso sul retro di una medaglia con l’effigie dei reali messa in vendita nel 1910 per finanziare un sanatorio tubercolare. Accanto all’aitante Re Alberto, la Regina Elisabetta appariva più piccola e fragile di quel che era. Ma era una fragilità apparente, giacché ancora oggi a ottantadue anni la sua resistenza fisica e il suo  coraggio sono formidabili. «Se c’è qualche luogo pericoloso», disse una volta Re Alberto all’egittologo che li scortava durante un viaggio nella terra dei Faraoni, « non parlatene alla Regina perché altrimenti vorrà andarci ».

Nei figli si ritrovano la modestia e la semplicità del padre e la intraprendenza della madre. Maria
José era la più vivace, era lei che organizzava i giuochi, che dirigeva i fratelli. Aveva una fantasia fervida e il parco di Laeken con i suoi grandi viali solitari, il grande palazzo con i suoi immensi arazzi mitologici mettevano in moto la sua immaginazione. C’era una costruzione nella tenuta reale, chiamata la torre giapponese: un gran de carillon di cinque piani, con quattro campane per ogni piano. Maria José smaniava di salire su quella torre che l’attirava per il suo stile insolito, stridente con il paesaggio nordico. Davanti agli arazzi del Castello i suoi fratelli si divertivano a incuterle paura. Ce n’era uno che raffigurava un uomo che si trasforma in ranocchia. « Se non sarai buona ». le dicevano i fratelli, « diventerai così ». « E io », mi ha detto Maria José, « rabbrividivo dal terrore». A quell’età tutte le cose che vedevo mi trasportavano in un mondo fantastico. Negli studi, mi appassionavo alla storia sacra e mi piacevano quei risonanti nomi biblici: Baltazar, Nabucodonosor. Invece non potevo sopportare la grammatica. Mio padre decise una volta di mandarmi a St. Jean-de-Luz con due signore che dovevano costringermi a studiare bene il francese. Ricordo che ero la disperazione di quelle poverette. Da quelle parti, in chiesa le donne prendono posto in una specie di balconata, mentre gli uomini stanno sotto. Io legavo delle monetine a un lungo laccio (le monete belghe hanno un foro nel mezzo) e le lasciavo cadere per terra. Quel tintinnare metteva in agitazione gli uomini e tutti guardavano per terra per vedere dov’erano cadute. Ma intanto io avevo già tirato il filo. Poi fui scoperta e la mia governante mi rimproverò severamente. Mi vendicai quando dovemmo lasciare la villa che avevamo preso in affitto per i tre mesi della nostra permanenza e la governante mi disse di stare buona perché doveva venire un signore per fare l’inventario. Le chiesi che cosa fosse un inventario e lei mi spiegò che si mettevano tutti gli oggetti bene in ordine e poi si contavano uno per uno. Allora io appena fui lasciata sola, misi sottosopra tutto. Sento ancora l’urlo di vero terrore della governante e della persona che era venuta per l’inventario. Un’altra volta ero in viaggio con mia madre e il treno stava entrando nella stazione di Hendave dove c’erano personaggi ufficiali che attendevano. musiche, tappeti rossi,fiori. Ero molto piccina allora, mi tolsi una scarpetta e la buttai dal finestrino ».

Venne la guerra

Le marachelle di Maria José, di cui erano vittime le persone che erano incaricate di sorvegliarla e di farla rigar diritto, sono forse un segno della sua innata insofferenza al conformismo e all’etichetta. Ma presto sarebbe venuta la guerra e quella spensieratezza se ne sarebbe andata. Il Belgio fu invaso dai tedeschi il 4 agosto 1914, proprio nel giorno in cui MariaJosé compiva gli otto anni. Da Bruxelles la famiglia reale si trasferì ad Anversa e subito dopo i tre ragazzi vennero condotti in Inghilterra. L’esercito belga, comandato dal Re  resisté valorosamente ma l’avanzata dei tedeschi non poté essere frenata. Il Re a cavallo, con le sue truppe e la regina in auto lasciarono Anversa per Ostenda.
Era il 7 ottobre. Fu fatto saltare il ponte sulla Schelda e i belgi si schierarono sull’Yser mentre venivano inondate le Fiandre. La batta glia dell’Yser ebbe l’effetto di stabilizzare il fronte, ma ormai soltanto un lembo di territorio belga non era stato invaso dal nemico.

Fra la sabbia e le dune del villaggio di La Panne, nelle immediate retrovie del fronte, il Re e la Regina decisero di fermarsi e di affrontare vicino ai soldati tutti i rischi e le privazioni della guerra.
«Ce n’est qu’un peu de terre avec sa mer au bord – et le deroulement de sa dune infeconde, – ce n’est qu’un bout de sol etroit – mais qui renferme encore et sa Reine et son Roi » (  E ‘solo un po’ di terreno con il suo bordo del mare – e il flusso della sua infertile duna – è solo un pezzo di terra stretta – ma che contiene ancora e la Regina e il Re ). Così scrisse il poeta Verhaeren repubblicano. Elisabetta non aveva voluto abbandonare suo marito. Era andata in Inghilterra ad accompagnare i figli ma poi era ritornata indietro. A chi le diceva che c’era pericolo, come effettivamente ce n’era, poiché i tiri dell’artiglieria tedesca raggiungevano La Panne, la Regina rispondeva . «Sono così piccola, non possono colpirmi! ». Anche nel 1940, allorché il Belgio venne invaso per la seconda volta, la Regina madre volle rimanere al suo posto. Paracadutisti tedeschi vennero lanciati nel parco di Laeken e vi fu una furibonda sparatoria con i gendarmi di guardia, La Regina non si mosse. «Se mi prendono mi prendono» disse. «Ma non potranno fucilarmi: sono un bersaglio troppo piccolo ». Elisabetta rimase a fianco del re dei Belgi, soldato fra i soldati, fino al termine della guerra. E una volta che un giovane ufficiale, visto dal Re in compagnia di una signora, si scusò confuso: «Confesso a Vostra Maestà che sono qui con mia moglie», Alberto bonariamente gli rispose: «Anch’io sono qui con la mia».

“Posso farle una fotografia?”

La Panne, sulle dune battute dal vento del nord, era stata la località preferita di vacanze dei sovrani
quando erano sposini. Alberto ed Elisabetta affrontarono con il loro piccolo seguito il primo inverno di guerra in una villetta non riscaldata, senza acqua corrente né elettricità. Si faceva luce con le lampade ad acetilene e nei caminetti venivano bruciati i legni di vecchie scialuppe abbandonate dai pescatori sulla spiaggia. Nel grand hotel ’’L’Océan’’ la madre di Maria José fece organizzare un ospedale militare, diretto dal dottor Depage. Quivi, al fianco di sua madre, per la prima volta Maria José ha prestato la sua opera di crocerossina. I ragazzi erano rimasti in Inghilterra soltanto dieci mesi, ma nel l’agosto del 1915 erano stati fatti venire a La Panne. E nella cappella di una scuola per  bimbi profughi, nel villaggio di Vinckem.

Maria José il 15 agosto 1916 fece la sua prima Comunione. «Ricordo che quel giorno». dice l’ultima Regina d’Italia, «appena ricevuta la Comunione ero impaziente di andare a ritrovare una pecorella che mi era stata regalata a Laeken e che mi seguiva dappertutto. Nell’emozione di quei momenti non ricordavo più se prima di entrare in chiesa l’avessi legata o no. E continuavo a pregare il Signore che la mia pecorella non fuggisse. Mia madre mi ha fatto tante fotografie assieme a quella pecorella. Me ne fece una anche quel giorno ».

 

Dai suoi album, che raccontano tutta la storia della sua vita in migliaia e migliaia di immagini, la regina Elisabetta ha acconsentito a togliere, affinché potessero illustrale questi articoli, numerose fotografìe della figlia. Tra queste, ce n’è una eseguita da Maria José il giorno in cui conobbe, durante una sua visita al fronte belga, Vittorio Emanuele III. Lei stessa mi ha raccontato l’impressione che quella volta le fece il nostro Re.

Il Re d’Italia era stato in quei giorni ospite del Presidente francese Poincaré, aveva visitato Arras, Belfort Germrdmeer. A Douaumont, nelle prime linee alleate, aveva assistito a un violento bombairdamento tedesco. «È come da noi» aveva commentato freddamente. A Sainte Amerine un coro di bimbe aveva cantato in suo onore un inno in italiano e il Sovrano si era commosso. Rientrato a Parigi era rimasto ospite una sera del padre di Elena, l’esule Re del Montenegro, e l’indomani era ripartito per il Belgio.
Alberto I gli era andato incontro alla frontiera,   insieme avevano ispezionato le linee belghe, e dopo li si attendeva a La Panne per una colazione intima con la famiglia reale. Una ragazzina compunta e timida era presente all’arrivo dell’automobile, con un apparecchio fotografico in mano: era Maria José. La scena è ancora nitida nel suo ricordo. «Con noi ragazzi», dice, «papà e mamma diventavano severi, quando c’erano visite importanti. Ci raccomandavano di comportarci bene, di salutare educatamente, fare una riverenza e parlare solo se eravamo interrogati. Avevo visto diversi sovrani in visita ufficiale. Seri seri,  non ci rivolgevano mai la parola e nemmeno si accorgevano di noi».

Vittorio Emanuele, invece, appena sceso dalla vettura mi venne incontro. Fu questo suo gesto affabile e, non so se faccio bene a dirlo, anche la sua statura, che mi liberarono di ogni timidezza. Gli chiesi: “Posso farle una fotografia?’’. E lui: “Ma sì, come vuoi, cara”. Io ero esultante. Mi aveva detto “cara”, lui, un Re! Si fermò e attese immobile che facessi scattare l’obiettivo. Mi rimasero impressi i suoi occhi. Sempre, con me,Vittorio Emanuele fu gentile. Gli è stata attribuita una frase: “Le donne debbono fare la calza”. Io però non gliel’ho mai pentita pronunciare. Era un uomo riservato, impassibile, sempre assorto nei suoi pensieri, ma con me diventava loquace. Aveva molto charme negli occhi. E mi sbalordiva per la sua cultura. Sapeva tutto. Parlavamo molto di arte, delle sue monete, di storia, di viaggi. Non c’era monumento, statua, piazza, palazzo d’Italia che non conoscesse ».

 

Questa è la fotografia che la undicenne- Maria José fece al Re d’Italia, Vittorio Emanuele II. Egli era in visita a La Panne, dopo, un lungo giro da lui compiuto in Francia per incontrarsi con alte personalità militari. La fotografia mostra il Re appena sceso dall’automobile. Come la stessa Maria José fu il Sovrano d’Italia a dare affabilmente il permesso alla principessa di fotografarlo. Fu quella la prima volta che Maria José vide colui che sarebbe divenuto suo suocero.

 

 

Forse, al tempo di quella lontana visita di Vittorio Emanuele in Belgio, la decisione di inviare Maria José a studiare in Italia era stata già presa dai suoi genitori, per completare la sua educazione, ciò che a La Panne, in quel paese devastato dalla guerra, non era certo possibile. Maria José smaniava di essere mandata a Firenze. D’altra parte, i suoi volevano toglierla dal pericolo. E inoltre, erano troppo impegnati dai compiti che la guerra imponeva loro per potersi occupare di lei come si doveva. Tutto il servizio sanitario, l’assistenza alle truppe erano personalmente controllati dalla Regina Elisabetta, da quella fragile donna che non aveva paura di nulla. Un giorno i tedeschi bombardarono Adinkerke, dove c’erano i forni militari. I panettieri, spaventati, scappavano. Ed ecco che arriva sul posto la Regina. Entra nella sala dei forni e calmissima dice: « Spiegatemi un po’ come si fa il pane». E non si muove di lì finché il pane non è fatto e caricato per il fronte. Il bombardamento cessò un’ora e mezzo dopo. Nella seconda guerra mondiale. sua figlia avrebbe dimostrato uguale sangue freddo nel corso delle sue visite ai rioni di Napoli bersagliati dalle incursioni aeree.