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Intervista di Nando SampietroInterviste 46-64

Intervista di Nando Sampietro, Epoca, 1951 1

By Luglio 2, 2020Gennaio 24th, 2022No Comments

Con Umberto, tutta una giornata

Epoca 12 Maggio 1951

 

Di buon mattino Umberto passò a prendere i nostri inviati per accompagnarli in una gita nell’interno del Portogallo, un viaggio a quattro sulla vecchia «1100» grigia. Umberto, i nostri inviati e l’autista mangiarono in un piccolo albergo e bevvero una frizzante bottiglia di «vino verde ». A Lisbona la giornata si concluse con una lettura di poesie italiane. La spalla dì Umberto ebbe un tremito quando il dicitore declamò finendo con voce rotta, l’ode carducciana «Piemonte». E Maria Pia, pallida, sorrideva per non piangere.

Re Umberto II Cascais 1951

Re Umberto II Cascais 1951

Allora telefonammo al Marchese Graziani, a Villa Italia, per chiarire la faccenda. Una domenica mattina, uscendo  dalla chiesetta di Cascais, il Re ci venne incontro sorridendo, ci tese la mano e disse che sarebbe venuto a prenderci l’indomani mattina per fare una gita in macchina nei dintorni. Disse chiaro: «Vengo a prendervi io con la 1100, alle nove e mezza». Ma noi subito dopo, incominciammo a pensare che doveva esserci stato un malinteso. Figurarsi, dicevamo, se il Re viene a prenderci, se manda l’autista a suonare il campanello della pensione, a dirci: Sua Maestà è qua sotto che li aspetta.

Tagliammo corto dicendo a Graziani che ci era parso di capire così e così ma che non era assolutamente il caso che il Re si disturbasse a tal segno per due giornalisti. «Veniamo noi a Villa Italia cinque minuti prima delle nove e mezza e Umberto, quando scende, ci trova ad attenderlo nel giardino della Villa». Ma il Marchese Graziani fece capire che lui non poteva farci niente. Disse, da toscano: «Quel che il Re gli ha detto, gli ha detto, figlioli». E lo disse, quasi a significare: Ma che andate cercando? O che, volete suggerire voi, al Re, come deve fare?

Andò così che la vecchia «1100» grigia del Re si fermò sotto la piccola pensione di Cascais, andò così che il proprietario della piccola pensione di Cascais ci piombò addosso con le mani nei capelli dicendoci tutto affannato: «Oh Dio! C’è qua sotto o Rey, o Rey de Italia!»

Umberto ci fece un cenno con la mano e disse di montare alla svelta, ché la sosta in quel luogo era proibita. «Andiamo a vedere il palazzo di Mafra» soggiunse, «e intanto, passando da Sintra, vi faccio vedere la casa dove trovammo ospitalità nei primi tempi del nostro soggiorno in Portogallo».

Incominciò la gita con Umberto II, con l’ultimo Re del nostro Paese, quel Re partitosi da noi cinque anni fa all’improvviso su un piccolo aereo che non si sapeva se avrebbe vinto la tempesta ch’era nel cielo, in quel pomeriggio sordo, pesante, carico ancora di tanto odio. Adesso Umberto era lì, al nostro fianco impegnato a trattenere la lunga persona nel ristretto della modesta automobile, e parlava della campagna che attraversavamo (verde ma aspra, talvolta selvaggia) e diceva che solo i nostri contadini potrebbero fare il miracolo di trasformarla, addolcirla, riempirla di grano. Parlava di una chiesa, ne valutava le proporzioni e gli stili, ma subito soggiungeva che in Italia la tal chiesa nella tale città, è un esempio inarrivabile. Diceva i nomi delle nostre città in un dato modo, diceva Padova, Genova, Firenze, Perugia, Vicenza, dando a questi nomi lo stesso suono che noi avevamo sentito sulla bocca dei nostri minatori in Belgio, sulla bocca di una donna veneta emigrata in Palestina, il suono che viene sulla bocca di quelli che sono andati lontano dal loro Paese, dalle città e dai villaggi dei loro Paese, e che talvolta possono anche pensare che la strada del ritorno non ci sia più, la strada che riporti a Padova, Firenze, Vicenza.

A Mafra, nel vasto grigio palazzo ora ridotto a museo, il guardiano ci pregò di attendere intanto che sarebbe giunto il Conservatore. Umberto aveva fatto qualche passo in una sala accanto, impaziente di rivedere e riconoscere cose notate in sue precedenti visite e di dare un’occhiata ai cambiamenti che nel frattempo erano stati apportati. Ma il bravo guardiano si fece prestamente alle spalle del Re per dirgli – zelante – che non si poteva entrare nella sala fino a quando non fosse giunto il Signor Conservatore. Ed ecco Umberto chinarsi al piccolo inserviente, sorridergli, chiedergli scusa e ritornare nel vestibolo. Con naturalezza, con semplicità, sorridendo anche a se stesso e a quel giovane principe ch’era stato, quando nessuno avrebbe ardito dirgli quello che ora gli diceva il povero guardiano di un museo portoghese.

S’illuminò quando il Señor Conservator, alfine giunto, lo accompagnò nella bella biblioteca dove migliaia di volumi, tutti pregevolmente legati, si allineano in scaffali chiari, quasi allegri, tutt’intorno alla grande sala. Riconobbe alcuni volumi, ne trasse altri dagli scaffali centrali e sedette nel vano di una finestra per sfogliare un grosso codice pesantemente rilegato in pergamena. Uscendo dalla biblioteca il Conservatore gli fece notare, in un angolo, una grande tela di pittore italiano raffigurante Umberto I che passa in rivista, a cavallo, la divisione di Milano. «E’ un quadro dell’anno tale» notò il Conservatore con noncuranza. Ma Umberto, subitamente: «Non può essere; nell’anno che dice lei mio nonno non aveva ancora assunto il comando della divisione di Milano» . E Poi, volgendosi a noi: «Guardate, si vede il Duomo». E si fermò ancora un momento davanti al quadro, a tutti quei colori del quadro che lui non vedeva, così come non vedeva suo nonno che, a cavallo, in una nube di polvere azzurrina, sì accingeva a passare la rivista: guardava Umberto II, all’ombra del Duomo sullo sfondo, a quel profilo appena accennato in mezzo alla nebbia, netto soltanto nella punta estrema, dove la Madonnina guarda al di là dei camini, dei fumi e delle nebbie, al bel verde della Lombardia.

Ci portò a vedere una lapide romana che lui, su indicazioni avute da vecchie carte trovate a Sintra, scoprì lo scorso anno in una casa di campagna nei dintorni di Mafra, a Santo Isidoro. Fu così che, nel portarci a vedere la sua scoperta, il Re ebbe modo, quel giorno, di farne un’altra altrettante curiosa. Poiché trovammo, nel cuore dei Portogallo, addirittura il discendente di un doge veneziano. Andò così: nel cortile della casa dove Umberto aveva rintracciato la lapide, ci incontrammo piccolo signore vestito di nero che passeggiava solitario. Umberto ci disse: «Ahi, questo qui sarà il padrone della casa. Non ebbi modo di incontrarlo le altre volte che venni qui e adesso gli dovrò raccontare tutta la storia della lapide». Si trattava infatti del proprietario, che ci venne incontro piuttosto incuriosito togliendosi il cappello. Non ci furono presentazioni vere e proprie. Umberto chiese di rivedere la lapide e il piccolo signore si offrì di accompagnarci. Poi volle mostrarci la sua casa e fermò la nostra attenzione su alcuni vecchi piatti d’argento sbalzato, raffiguranti fregi e scene veneziane. E davanti allo stupore di Umberto disse: «Io sono un Pisani, discendo direttamente da una famiglia di veneziani che abbandonarono Venezia ai tempi di Napoleone e che diedero un doge alla città di San Marco». Subito dopo, d’improvviso, non sappiamo come, quel piccolo signor Pisani intuì l’identità dell’uomo che gli stava davanti e che con tanta affettuosa attenzione esaminava il piatto d’argento veneziano. Fece un passo indietro, s’inchinò rigidamente e: «Maestà, Maestà », disse. Umberto sorrise e s’incamminò  verso l’uscita. Alle sue spalle il piccolo signore vestito di nero diceva ancora: «Io non sapevo che la lapide era stata trovata da Vostra Maestà. M’avevano detto che si trattava di un giovane professore straniero, uno studioso, e io non potevo pensare che Vostra Maestà… »Rimontammo in macchina. Una «1100» vecchia serie, con le solite frecce che ogni tanto si incantano. Con le porte che talvolta non chiudono, con gli altri inevitabili inconvenienti di una macchina che s’è già mangiato qualche centinaio di migliaia di chilometri. Ma quando il nostro Naldoni, ironizzando, disse al Re accennando alla macchina: «La cosiddetta automobile», Umberto  rispose pronto: «E’ una buona macchinetta, sa? Qua sopra mi ci trovo come… ». E non terminò la frase.

Scendemmo alla costa e lui fece fermare la macchina in riva all’Oceano. « E’ un mare brutto» disse. «E sempre freddo».Tornammo sulla cosiddetta automobile. «Dopo le lapidi romane, dopo i dogi e i piatti veneziani» disse il Re «direi di scoprire un posto per farei colazione».

Un pescatore gli venne vicino e gli parlò della pesca del giorno prima. Un ragazzetto che passava in bicicletta sulla strada lo salutò agitando la mano.

«Volete assaggiare il vino verde?» ci chiese esaminando la lista dei vini sulla terrazza dell’albergo di Ericeira. Poi ordinò gli stessi piatti per tutti e tre, omelette dei pescatori, pesce in bianco con patate lesse, dolce e frutta. Sedendo a tavola volle che ci disponessimo alla sua destra. Mangiò di buon appetito, accompagnandosi sempre col pane, come fanno gli italiani. E’ lontano da cinque anni e mangia sempre il pane, a buoni bocconi, con gusto, con gioia, come mangiava una volta il pane di Torino (gli piacevano anche i grissini), il pane di Napoli, di Roma e – in guerra – il pane dei soldati, un po’ bigio ma sempre buono e saporito. E a tavola rideva. «Ecco: c’è gente, nel mondo, che a tavola mangia e basta, ci sono popoli che mangiano in silenzio, mangiano immusoniti, tutt’intenti all’operazione del nutrirsi; solo gli italiani mangiano e parlano, mangiano e ridono». E lui, mangiando, ride ancora, è ancora uno di noi, è sempre uno di noi, e cinque anni di solitudine, cinque anni di esilio usiamo noi la parola che lui non ha mai pronunciato – non gli hanno fatto niente.

 

Volle accompagnarci fino alla nostra pensione e ci diede appuntamento per qualche ora dopo nella sala del Conservatorio Nazionale di Lisbona. Un professore di Torino avrebbe eseguito la lettura di alcune poesie e il Re sarebbe intervenuto alla manifestazione in forma che possiamo dire quasi ufficiale insieme alla Principessa Maria Pia.Continuando la nostra gita lungo la costa oceanica, fino a Cascais parlammo del campionato di calcio e del crollo della Juventus. Lui raccontò della squadretta del reggimento di fanteria che comandava a Torino, tanti e tanti anni fa. «C’era Bigogno» disse «e c’erano altri assai bravi. Era una squadra molto in gamba».

Nella sala del Conservatorio c’erano tutti gli italiani residenti nella capitale portoghese buona parte della nobiltà, diplomatici e signore eleganti. Umberto arrivò puntualmente e sedette alla destra di Maria Pia. Non conosceva il programma della manifestazione. Anzi, era convinto che il dicitore avrebbe presentato alcune espressioni di poesia dialettale piemontese. Invece si cominciò col Canto di Casella del Purgatorio, poi Foscolo, D’Annunzio ed ecco Carducci, Piemonte. Il Re fece un piccolo movimento con la testa e Maria Pia sì voltò a guardare la gente. Nella sala s’era fatto un silenzio incredibile e a Margherita Carosio, ch’era presente, luccicarono subitamente gli occhi. Piemonte disse il dicitore- Umberto era immobile, teneva i piedi saldamente uniti e guardava il fondo del piccolo palcoscenico, guardava oltre quello e chissà che cosa vedevano i suoi grandi occhi neri. La vecchia Aosta, Ivrea la bella, Cuneo possente e paziente, e al vago declivio il dolce Mondovì ridente… Poi la voce del professore sembrò scoppiare di passione e di pianto e tutta la gente d’improvviso fu in piedi, con la bocca serrata, in silenzio, mentre sedie cadevano a terra: alte ondeggiando, le sabaude insegne, surse fremente un solo grido: Viva il Re d’Italia!».

Soltanto lui stava ancora seduto sulla poltrona rossa, lui solo in tutta la sala, col viso teso, con le mani strettamente incrociate mentre il professore, a voce rotta, giungeva alla »…sola e cheta in mezzo de’ castagni – villa del  Duoro ».

Forse gli tremò un poco la spalla a Umberto, quando il dicitore aprì le braccia supplicanti e disse dando alto nel vuoto: «Per il dolore che le regge agguaglia – a capanne». E Maria Pia, pallida sorrideva per non piangere.

di Nando Sampietro