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Regina Maria José, interviste

Intervista alla Regina Maria José – di Lazzarini – 1984 – 1

By Novembre 27, 2016Ottobre 24th, 2021No Comments

Un anno fa, il 18 marzo 1983, Umberto di Savoia moriva all’ospedale cantonale di Ginevra. Un tumore alle ossa lo aveva costretto a una lunga degenza, prima alla London Clinic, una delle più lussuose della capitale britannica, poi in Svizzera. Con lui se ne andava l’ultimo re d’Italia, lasciando agli storici l’arduo compito di rispondere alla domanda che lo ha accompagnato per tutta la vita: che re sarebbe stato se avesse potuto regnare? A dodici mesi dalla sua scomparsa, e pochi giorni dopo che i Savoia si sono ritrovati nell’Abbazia di Hautecombe a pregare sulla sua tomba, Oggi propone un ritratto di Umberto ricostruito attraverso i ricordi di colei che l’ha conosciuto meglio di ogni altro: la vedova, Maria José. Un ritratto che è anche uno spaccato di vita italiana.

«Durante la sua permanenza in Belgio per i festeggiamenti ufficiali, il mio promesso sposo subì un attentato da parte di un fuoruscito italiano, rimanendo per fortuna incolume», racconta l’ex regina (nella foto qui accanto). «A me non venne detto nulla» – «Al successivo ricevimento, tutti si congratulavano per lo scampato pericolo. lo, naturalmente, tacevo. Lui mi giudicò indifferente e mi tenne il broncio finché l’equivoco non fu chiarito» – «Ci incontrammo per la prima volta vicino a Padova. Avevo 11 anni» – «Alla vigilia del matrimonio ricevetti centinaia di lettere anonime, molte delle quali minacciose, che dipingevano a tinte fosche mio futuro. Qualcuna preannunciava che avrei fatto la fine di Maria Antonietta» – «Quando andai da Bruxelles a Roma per le nozze, salì sul treno una stazione prima di Termini per offrirmi un mazzo di lillà» – «La cerimonia nella cappella Paolina del Quirinale, in un’atmosfera da favola, mi sembrò la sequenza di un film»

«Fin dall’adolescenza sapevo che un giorno avrei sposato Umberto. Questa prospettiva aveva assunto per me la forma di un sogno meraviglioso. Un sogno che d’altra parte mia madre incoraggiava: mi parlava di un principe affascinante in termini così entusiastici che ai miei occhi Umberto era arrivato a rappresentare l’apice della perfezione». Con queste parole Maria José spiegherà, quarantadue anni dopo il «sì», per quali motivi un giorno del 1930 sposò Umberto di Savoia. Un matrimonio di convenienza, deciso dalle famiglie più che dagli sposi. Perché Umberto e Maria José, a detta dei loro biografi, avevano ben poco in comune, erano diversi di carattere, appartenevano a due mondi lontani, coltivavano interessi opposti. E, soprattutto, tra loro non scoppiò mai la scintilla del grande amore. Anche se il destino li aveva fatti incontrare molto presto, addirittura bambini.

Firenze, Poggio Imperiale, febbraio del 1918. Da circa un anno Maria José è in collegio all’Istituto della Santissima Annunziata. I suoi genitori, Alberto ed Elisabetta, sovrani del Belgio, l’hanno mandata a studiare nel nostro paese per realizzare un sogno . Alla ragazza da sempre innamoratissima dell’Italia, ma forse anche per altre ragioni. Nel suo Umberto, edito da Bompiani, Silvio Bertoldi scrive: «Un,accordo preciso esisteva fin da quegli anni tra i Savoia e i Sassonia Coburgo, tale da facilitare più avanti la decisione, già presa dai due re, di unire attraverso le nozze dei figlioli gli interessi delle reciproche dinastie. Non per nulla Maria José era stata mandata ad educarsi a Firenze, perché crescesse “all’italiana” e cominciasse subito a conoscere il paese su cui un giorno avrebbe regnato».

 

 

«MI AVEVANO INVITATA»

 

Di sicuro c’è, comunque, che a fare il primo passo perché i due si incontrino sono i Savoia. Ricorda Maria José: «Un giorno si presentò al Poggio un gentiluomo della Corte d’Italia, il conte Solaro del Borgo, per annunciarmi che il re e la regina d’Italia mi avevano invitata a Battaglia, presso Padova. Prima della partenza il conte corse in un negozio per comprarmi gli abiti più adatti della mia uniforme collegiale e ritornò con un mantello e un cappello blu con i quali mi sentivo un po’ goffa».

E forse, insinuano i biografi più pettegoli, sente il cuore battere un po’ forte: perché ha capito che se conoscerà il re e la regina, di sicuro incontrerà anche l’erede al trono. Sì, proprio quel giovanissimo principe che tante volte ha ammirato sull’Illustrazione italiana, ritratto sempre in divisa grigioverde da marinaretto, come quella dei fanti di marina del battaglione San Marco. Un ragazzo molto bello, slanciato, dai lineamenti fini, occhi castani e pensosi come quelli della madre montenegrina, bocca carnosa e dentatura perfetta, sempre sorridente, elegante e aggraziato nei gesti. Quanto a lei, poi, è una bambina bionda, dai capelli ricci ricci, gli occhi azzurrissimi e le gambe lunghe. I capelli ricci la fanno disperare, dal momento che a lei piacciono ‘ lisci e quindi è costretta a passare ore e ore davanti allo specchio.

«Prendemmo il diretto che andava a Padova», continua Maria José, «da dove proseguimmo in aut, verso la stazione termale di Battaglia. Ci fermammo davanti alla villa reale, non appena giù dall’auto, una signora alta e forte, vestita di pesante lana blu, mi diede un bacio era la regina. Mi sorprese la sua tenuta un po’ troppo campagnola: accanto ; lei vidi la sua copia perfetta, ma più giovane e più snella, la sorella Jolanda. E un ragazzino di tredici anni in costume da marinaretto: era Umberto… Ne giorni successivi, ìn auto scoperta nonostante il rigore della stagione, esplorammo i dintorni. Seduti sugli strapuntini, Umberto ed io non ci scambiavamo nemmeno una parola. Non scendevamo mai dal l’auto se non per dei pic nic, mentre la regina Elena non faceva altro che scattare fotografie…».

Un giorno la comitiva reale va a Venezia e Maria José prende posto sulla gondola accanto a Umberto. La principessa Jolanda, che ha da poco compiuto diciassette anni li osserva attentamente l’uno vicino all’altra e commenta: «Ma come sta te bene insieme, voi due» Di quella vacanza spensierata alla principessina belga rimane una foto a lei molto cara: «Quando ritornai al Poggio, a poco a poco i miei ricordi d Battaglia si offuscarono. Ma conservai preziosamente nel mio banco la foto di Umberto».

 

 

PRINCIPE PLAYBOY

 

Arrivano le vacanze dell’estate 1918 e Maria José torna in Belgio, nella residenza di La Panne, vicino alla mamma infermiera e al papà soldato. Trova il maggiore dei fratelli, il futuro re Leopoldo, in divisa da fante e l’altro fratello Carlo in divisa da cadetto della marina britannica. Sogna l’Italia e a un’amica di collegio scrive: «Pensa che gioia, i miei genitori mi hanno finalmente dato il permesso di stare con voi nel dormitorio. Mi farò dare un letto accanto a te, sarò come tutte le altre».

Una gioia, quella accarezzata dalla principessina incline a non far pesare il proprio rango sulle pur aristocratiche compagne, che rimarrà un sogno. Perché la guerra finisce e i sovrani del Belgio non ritengono più necessario rimandare la loro figliola a Firenze. Maria José e Umberto si rivedono per la seconda volta nel 1922, quando lui, sottotenente di fresca nomina imbarcato per la crociera sulla nave Ferruccio, tocca il porto di Anversa e compie la visita di rito alla famiglia reale belga. Poi nel 1923, lei è invitata per qualche giorno a Racconigi, ma si vedono poco.

Umberto non ha molto tempo per pensare all’amore con l’A maiuscola, troppo preso da una vita gaia, fatta di feste da ballo per le quali è contesissimo, perché è un ballerino infaticabile, suona il pianoforte, canticchia le canzoni alla moda. E la fama di ardente amatore lo segue ovunque. Annota Silvio Bertoldi: «Era di sicuro largamente popolare. Ma quali fossero i suoi pensieri, che desideri, che temperamento e che grado di autentica spregiudicatezza avesse, nessuno potrebbe dire. L’animo del principe mostrava mille facce. Un uomo su cui è difficile dare un giudizio. E arrivato ad apparire, ad un tempo, confidente e riservato, sensuale e casto, intraprendente e timido, stravagante e abitudinario, aggressivo e prudente, bizzarro e formalista, parrocchiale e libertino».

Il terzo incontro avviene in occasione delle nozze del duca Amedeo delle Puglie (poi duca d’Aosta, eroe dell’Ambalagi) con Anna d’Orléans, celebrate a Napoli nel 1927. Nel corteo nuziale il cavaliere che dà il braccio a Maria José è proprio Umberto di Savoia. E al passaggio di questa giovane coppia, la folla applaude per la simpatia istintiva che i due suscitano.

Nel settembre del ’29 il fidanzamento ufficiale. Umberto va in Belgio in automobile, accompagnato dal conte Santorre di Santarosa. Ma se la prende comoda, prima soggiorna un po’ in Germania, poi fa tappa ad Amburgo. Incontra Maria José, con la quale deve sancire l’accordo per l’annuncio del fidanzamento, nel castello di Losanges, vicìno a Bastogne. Arriva guidando personalmente l’auto e in abito sportivo. Il suo charme incanta tutti e la contessa Van den Steen, una madama di compagnia, rapita, confesserà di «aver avuto l’impressione che tutto fosse stato con amore predisposto dalla Provvidenza per la gioia di queste due creature di Dio».

Da Losanges i due principi si trasferiscono poi al castello reale di Laeken dove li attendono i sovrani belgi. Tenendo il principe per mano, Maria José dice semplicemente ai genitori: «Papa, maman, nous sommes fiancés». L’annuncio ufficiale avviene il mese dopo. «Sono felice», confida la principessina alla sua prima istitutrice, «io bionda, lui bruno, saremo una coppia perfetta. Andrò a vivere per sempre in Italia. Mi pare un racconto di fate».

«Quanto mi sembrano lontani quei giorni», spiega Maria José. «Quando durante i festeggiamenti ufficiali Umberto si recò a deporre una corona al monumento del Milite Ignoto e un fuoruscito italiano, Ferdinando De Rosa, sparò contro di lui, a me non venne detto nulla. Soltanto dopo seppi quel che era accaduto e riuscii a capire perché alla colazione all’ambasciata d’Italia tutti si congratulavano con lui per il suo comportamento coraggioso. Anzi, io mi domandavo: “Si complimenta un fidanzato per il suo coraggio?”.

«Udito lo sparo il principe nemmeno si era voltato. Tra le personalità che lo accompagnavano vi fu uno sbandamento, ma egli rimase impassibile, calmissimo. I belgi erano ammirati per il suo contegno.

 

 

«MOLTI TENTATIVI»

 

«Alla colazione dell’ambasciatore Durazzo eravamo seduti vicini e Umberto si aspettava naturalmente che anch’io gli dicessi qualcosa, che mi felicitassi con lui per lo scampato pericolo, che gli manifestassi il mio rincrescimento per l’attentato. Invece non gli dissi nulla poiché ignoravo completamente i fatti. Umberto si imbronciò per questo e più tardi non mi nascose di essere rimasto sorpreso per la mia indifferenza. Era così che l’amavo? Ridiventò di buonumore quando il malinteso poté essere chiarito.

«L’attentato di De Rosa fu l’incidente più clamoroso; ma in quel periodo i tentativi di fuorusciti, autorevoli o sconosciuti, che tentavano di dissuadermi da quel matrimonio, furono molti: dicevano che, diventando la moglie di un principe italiano sotto il fascismo, sarei andata incontro alle peggiori catastrofi. Mi giunsero centinaia di lettere anonime, moltissime dall’America del Sud. Alcune erano minacciosissime e mi avvertivano che avrei fatto la fine di Maria Antonietta, che in Italia sarebbe scoppiata la rivoluzione e che a me avrebbero tagliato la testa. Dicevano che la monarchia non sarebbe durata in Italia, e mi dipingevano l’avvenire a tinte fosche.

«Però io ero così entusiasta di diventare la moglie di Umberto che nulla mi spaventava. Facevo vedere le lettere a Umberto e lui rimaneva impassibile, non spiegava niente. Mi diceva soltanto: “Devi capire che in Italia non si può fare quello che si vuole”. Tutto questo mi incuriosiva, rendeva ancora più interessante la mia prospettiva di andare in Italia. Umberto ha una posizione difficile, pensavo. Questo me lo renderà più simpatico».

Il treno reale mandato da Roma per la sposa, parte da Bruxelles il 3 gennaio 1930. Lascia la stazione della capitale belga fra applausi, inni e fiori: i belgi acclamano in massa la loro principessa che va a sposare l’erede al trono. Alla stazione di Trastevere, ultima sosta prima dell’arrivo a Termini dove attendevano i reali d’Italia, sale sul treno Umberto, accompagnato dal suo aiutante di campo. Una gentile improvvisata non prevista dal protocollo. In divisa da colonnello dei granatieri, l’erede al trono d’Italia fa un compito baciamano alla sposa, poi la bacia sulla guancia, le offre un mazzo di lillà e un altro mazzo di fiori lo offre alla futura suocera. Maria José indossa un abito bianco, gli occhi azzurrissimi le luccicano di commozione. Alle 10 del 5 gennaio il convoglio entra alla stazione Termini: i binari sono stati ricoperti da una pedana rossa, anche la pensilina è addobbata di rosso, con bandiere e stemmi. Vittorio Emanuele III e la regina Elena aspettano il treno raggianti.

L’8 gennaio del 1930 le nozze, celebrate a Roma nella cappella Paolina del Quirinale, dall’arcivescovo di Pisa cardinale Maffi. Testimoni per Umberto, i duchi d’Aosta e di Genova; per Maria José i fratelli Leopoldo e Carlo. Il presidente del Senato, Luigi Federzoni, funge da ufficiale di stato civile. Ovunque, nella capitale in festa, lo scudo di Casa Savoia appare accanto al fascio del regime fascista.

«Il mio abito di velours bianco panna»,  continua Maria José rievocando quel giorno, «era stato disegnato da Umberto personalmente, come anche il mantello ricamato d’oro lungo cinque metri, che, per quanto portato da quattro gentiluomini di corte, mi pesava incredibilmente sulle spalle. Mio padre mi condusse all’altare situato in fondo a una lunga serie di saloni pieni di regine e di re, per lo più detronizzati. La cappella offriva una visione incantevole. Gli scintillanti diademi delle dame di corte e gli abiti ricchi di decorazioni dei dignitari attribuivano all’ambiente un aspetto particolarmente mondano. Al momento dello scambio degli anelli centinaia di colombi bianchi spiccarono il volo dalla piazza del Quirinale. Il cielo era nuvoloso e la pioggia si alternava a qualche breve schiarita. Il popolo vi riconobbe un felice presagio secondo il detto “sposa bagnata, sposa fortunata”. Dopo la cerimonia fummo ricevuti da Pio XI».

Poi incominciarono i festeggiamenti. «Un cinematografo», rammenta Maria José ripensandoci dopo tanti anni. Forse perché sono festeggiamenti di una eccezionale solennità: il corteo delle carrozze lungo la via Nazionale, il ricevimento intimo a Villa Savoia, il gran ballo al Quirinale, i saloni della reggia gremiti di invitati. Ammette con una punta di nostalgia: «Se ripenso a quel giorno, a quei giorni, mi sfilano davanti agli occhi un’infinità di immagini, i fatti mi paiono così labili, così inconsistenti. Come le immagini di un film, appunto».