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Discorsi

Il retaggio del Re Umberto II agli Italiani, del Ministro Lucifero

By Settembre 21, 2018Ottobre 24th, 2021No Comments

Amici!

Poiché vedo qui convenute personalità del mondo monarchico, che per quarant’anni hanno dedicato la loro vita alla Patria, ho il dovere di dirvi che io sono con loro soltanto perché gentilmente invitato e per unirmi a voi in questo che è un accorato, sentito omaggio alla memoria di quella grande figura che è stato il Re Umberto II.

In questa villa e nella casa qui accanto, Egli ha trascorso tanti anni della Sua fanciullezza e della Sua giovinezza. E fin d’allora, sotto la guida degli amati genitori, accanto alle dilette sorelle, il Suo unico pensiero, il Suo sogno, la Sua volontà e il Suo desiderio profondo erano di dedicarsi alla Patria, di vivere per l’Italia.

E mi par di vederlo, fanciullo e giovinetto, già appassionato di ricordi storici, uscire talora furtivo dalla casa, e col viso rivolto verso il cielo scintillante di stelle, ripetere e far Sue le famose parole pronunciate dal proavo Vittorio Emanuele II, entrando in Roma liberata: Abbiamo fatto l’Italia grande e unita; ora dobbiamo renderla prospera e felice.

E, oggi, in questa stessa villa, che ha visto l’allora Principe Umberto correre, giocare, sognare e auspicare quello che più tardi Gli fu vietato dall’ingiustizia e dall’antidemocraticità degli uomini, noi, uniti nel rimpianto, mettiamo accanto a questa stele, che ne ricorda la vita ed i propositi,

« … tutte le rose sbocciate stanotte,

      tutte le perle che in grembo alle foglie

      fino al mattino la fresca rugiada raccoglie. » (1)

Dal mistero, ove Lo raggiungeremo, Egli è, ancora una volta, accanto a noi, unito a noi, particolarmente grato a tanti amici che hanno affrontato un lungo viaggio per essere presenti a questo rito.

Sono stato invitato a dire poche parole in Suo ricordo. Ma, può la parola rappresentare e illustrare, far rivivere una figura come quella di Umberto? Può la parola esprimere quello che c’è nel nostro animo commosso, colpito, ferito, come nel momento in cui Egli ci ha lasciati? Io non credo che la parola possa tanto. Forse, solo la poesia o la musica, – due cose che Egli tanto amava – potrebbero, forse, dare una immagine di questa grande figura, di questa esistenza così varia e complessa, di quest’uomo saldo sulla terra, sul concreto, ma con gli occhi sempre rivolti verso il cielo, verso i grandi ideali, verso quelle che sono le ragioni stesse della nostra esistenza d’italiani amanti della Patria.

Egli giunse alla Luogotenenza Generale, in, momenti assai difficili. tanto difficili per l’Italia, eravamo nel giugno 1944 – e immediatamente, pur avendo dedicato la Sua giovinezza soprattutto alla vita militare, affronta i problemi dell’ora, dimostrandosene profondo conoscitore,

Il Quirinale, sotto la Sua guida, diviene il centro propulsore della Nazione. Non c’è questione, sociale, sindacale, economica, finanziaria, culturale, morale, politica, che non venga considerata, studiata, ed Egli vuole che, quanto sia possibile, venga subito risolto, non rinviato al domani.

Le Sue giornate di lavoro cominciavano all’alba, spesso recandosi sulla linea gotica, dove facevano servizio i nostri soldati, che gli anglo-americani non avevano voluto come combattenti. Essi lavoravano e vigilavano affinché, finalmente, quella linea si spezzasse e la Patria ritornasse unita. Ed Egli, la mattina era lì, accanto a questi giovani, che, nella loro fatica e nella loro ansia, erano lieti di vedere questa grande figura fraterna e, allo stesso tempo, decisa a far sì che la Patria ritornasse presto libera e unita.

E, poi, al Quirinale, cominciavano le udienze. Tutti potevano avvicinarLo. Colloqui con uomini politici, – da Bergamini a Pajetta, – economisti, industriali, sindacalisti, scienziati, uomini di pensiero e scrittori, tutti si recavano da Lui per avere, da questa grande figura, sempre fraterna e sempre vigile, appassionata, concreta, quella guida, quell’incitamento, quella volontà che doveva portare a superare le tante difficoltà del momento. Riceveva anche i più umili ed i più semplici, senza chiedere chi fossero, per sentire quello che desideravano, quello che volevano, e aveva per tutti una parola d’incoraggiamento e di certezza per l’avvenire della Patria.

Questo era stato anche l’insegnamento del Suo Augusto Genitore, Vittorio Emanuele III, il nostro Re Soldato, che chiunque ha combattuto nelle trincee ricorda coraggioso e paterno, e che fu ingiustamente accusato di viltà, per essersi allontanato da Roma l’8 settembre 1943. Egli aveva dovuto farlo per salvare la città impedirne i distruttori bombardamenti aerei, per le continue insistenze del pontefice Pio XII.

Per questo e solo per questo, Egli si allontanò da Roma, pur se il Suo acuto ingegno e la Sua esperienza Gli fecero certo prevedere che quel gesto, necessario e salutare per la Patria, come han finalmente riconosciuto storici, quali, ad esempio, l’ambasciatore Antonio Cottafavi (2) e Ernesto Ragionieri, ordinario di storia contemporanea all’Università di Firenze, nonché membro del comitato centrale del PCI (3) avrebbe nociuto all’istituto monarchico. Ma lo fece ugualmente, con quel coraggio che aveva sempre contraddistinto la Sua vita. E fu accusato di viltà.

Io, che ho avuto l’onore, – tra i tanti che non ho capito perché hanno solcato la mia vita, – di essere per breve tempo ministro con Sua Maestà Vittorio Emanuele III, ho più volte rilevato il Suo coraggio e la Sua forte personalità.

Fermezza che contraddistingueva anche il figlio: Umberto sarebbe stato un magnifico Re, un Re popolare, fraterno, un Re che poteva dare al Paese la prosperità, come Egli agognava e avrebbe certo realizzato. E fu Re, dal giugno 1944 al giugno 1946, anche se, fino al 9 maggio 1946, cioè fino all’abdicazione del Padre, Egli si chiamasse Luogotenente Generale del Re. Ma esercitò tutte le funzioni di Re, nessuna esclusa, e non ebbe mai bisogno di ricorrere al consiglio del Suo Augusto Genitore, Volle, Umberto, agire sempre da solo, perché aveva tutte le doti per poterlo fare.

E vorrei ricordate. che, talora, la sera, dopo una giornata d’intenso e vario lavoro, mi diceva (Egli mi chiamava affettuosamente cosi): «Falcone, vogliamo andare stasera a vedere le zone più bisognose di Roma? », Roma del ’44, ’45, ’46, quando tutto mancava e tutti avevano bisogno di qualche cosa, specialmente nei quartieri popolari. Io guidavo una piccola macchina ed Egli stava accanto a me. E giravamo e guardavamo e pensavamo: « Ecco, questo si può fare e lo faremo ». Era il grande concetto di Umberto: nella vita d’una nazione ci sono tante cose che, purtroppo, non è possibile realizzare subito. Ma alcune, si. Anche se con difficoltà. E non domani, ma oggi. Questa era la Sua ansia, il Suo desiderio, la Sua volontà, di uomo concreto e di pensatore, e sperava di poterlo realizzare. Ma, come dicevo, Gli fu ingiustamente vietato.

E, tante volte, ritornando, a notte inoltrata, verso il Quirinale, mi chiedeva: «Falcone, mi ripeta quei versi del D’Annunzio, quei versi che ricordano la Patria sofferente e ferita. »

Li ripeto anche oggi, davanti a questa stele, a voi che l’avete amato e ne serbate perenne memoria nel cuore:

«Quando la notte cade

su la città che strascica l’arsura

della fatica

 pei labirinti delle sue contrade,

 e nella casa amica

 è la lampada accesa da man pura,

 e tra le quattro mura

 il silenzio si fa ne’ cuori attenti

 e l’immagine cara della Patria

 viene e trema nel cerchio del chiarore,

e tu senti sgorgare il sangue suo

 presso e lontano,

 e una santità gli occhi ti vela

 che non è pianto ed è più che dolore,

 e nell’anima tua stilla quel sangue,

gronda quel sangue sopra la tua mano:

quivi è l’Iddio verace e sia lodato. »

Ecco le due cose che Egli amava, le due cose per cui ha vissuto: la Patria e la grande fede in Dio.

E, non so se a proposito, voglio qui ricordare un episodio che riuscì a Lui doloroso e pur caro. Partendo, Egli m’aveva detto di fare la prima visita al Santo Padre Pio XII, che con Lui era stato sempre tanto largo d’incoraggiamento e d’affetto. lo mi recai subito dal Pontefice a portare questo accorato saluto e Pio XII, tra l’altro, mi disse: « Anche Noi la mattina del giorno 4 – parlo del 4 giugno 1946 avevamo avuto la notizia della vittoria monarchica, e l’avevamo avuta dall’Arma». Voleva dire dall’Arma dei Carabinieri. « Poi, il giorno 5, vinse la repubblica. »

Ma, oggi, in questa villa ove tutto parla di Lui, davanti a questa stele che ne ripete l’amato nome, riaffermiamo la nostra fede nel Suo insegnamento, per noi sacro retaggio, di servire la Patria in ogni momento e in ogni evento, oggi, domani, sempre.

Tutti i Suoi messaggi ci hanno esortato a questo, durante i 37 dolorosi anni d’ingiusto esilio. Quante volte mi diceva: « Carlo Alberto è stato in esilio tre mesi, poi la morte lo colpì, e tutti ricordano l’esilio di Carlo Alberto. »

Per Lui passarono tre anni, tredici anni, trent’anni, trentasette anni, trentasette interminabili anni, durante i quali non mancò mai il Suo messaggio rivolto a tutti gli Italiani. Erano messaggi di critica costruttiva, denunciava i danni del partitismo, delle lottizzazioni, dell’assistenzialismo, degli sperperi. Ma, sempre, con l’esortazione a correggere subito gli errori, subito, non quando la monarchia fosse democraticamente tornata. Questo è il grande insegnamento che tutti, noi monarchici per primi, dobbiamo cercare di realizzare, decisamente, senza titubanze, senza lungaggini, senza rinvii. Certo, vi sono problemi formidabili, come la disoccupazione, le finanze, le riforme, tutti difficili da risolvere in poco tempo. Ma altri, come il funzionamento di tutti gli organi dello Stato, è possibile e doveroso risolverli subito.

Questo dovere Egli ha sottolineato anche nel Suo ultimo messaggio, quello del 31 dicembre 1982: «Bisogna tornare ad amare la Patria». Perché, questa parola cara, bella, nobile, per cui tanti sono caduti e per cui Re Umberto ha vissuto. rappresenta appunto gli interessi comuni, di tutti gli italiani, gli interessi collettivi che devono sempre superare quelli di categoria, di gruppo, di singoli. E così non si è fatto e non si fa.

Amici!

Dobbiamo, ora, distaccarci da questo luogo a Lui sì caro; ma, lasciandolo, facciamo nostra l’ultima Sua parola, che riassumeva il perché della Sua vita. La pronunziò quel triste 18 marzo 1983: quando la Sua mano, che stringeva la mia e si andava man mano raffreddando, si irrigidì per sempre, le Sue labbra mormorarono: « ITALIA!».

(1) Ada Negri, I canti dell’isola.

(2) Antonio Cottafavi, Mondo contemporaneo – Mezzo Secolo di storia politica, Cappelli edit., 1962

(1) Ernesto Ragionieri, Storia d’Italia, Vol. IV, Tomo terzo, Einaudi edit., 1976.