Skip to main content
Il re in un Angolo di Giovanni Mosca

Il Re in un angolo – di Giovanni Mosca – 7

By Gennaio 2, 2021Gennaio 24th, 2022No Comments

Lo stemma di Gerani

Umberto di Savoia vive nella sua villa solitaria in riva all’Atlantico non diversamente da come vivrebbe in una regga, avendo quello ch’egli chiama “l’incidente dell’esilio” toltogli il regno ma non l’essere re. Un re sugli scogli, senz’altri sudditi che un segretario e un medico, senz’altro esercito che Giovanni Trigatti, un antico corazziere ridottosi a far da domestico; ma la sua giornata è la medesima che condurrebbe al Quirinale.

E’ metodico quasi quanto suo padre . Vittorio Emanuele III costringeva nei limiti di un orario ferreo non soltanto gli svaghi e i divertimenti  ma perfino le manifestazioni d’affetto. D’estate, a San Rossore, usciva tutte le mattine alle sei precise per una passeggiata di  un’ora, un’ora precisa, di ritorno dalla quale entrava nell’appartamento della regina e la regina, non meno metodica, era invariabilmente al tavolino, intenta a scrivere delle lettere. Il re, invariabilmente, le si appressava in punta di piedi e le poneva per un attimo la mano sulla spalla, come per dire: “Son tornato, son qui vicino a te”, ma non pronunciava una parola, né una parola pronunciava la regina che, rimanendo almeno apparentemente, intenta alla scrittura, non si volgeva se non col pensiero a ricambiare con uno sguardo od un sorriso l’affettuoso gesto del re. Un attimo solo. Poi il re, sempre in punta di piedi, usciva, non senza aver deposto in qualche luogo o il fiore, o il ramoscello, o persino nient’altro che la foglia o il sassolino raccolti durante la passeggiata. La regina doveva fingere di non vedere, tanto, in maniera quasi morbosa, Vittorio Emanuele III era dominato dal pudore dei propri sentimenti. Ma uscito il re, Elena prendeva quel ramoscello, quel sassolino, quel fiore, e andava ad aggiungerlo ai mille di cui aveva colma una scatola d’avorio che ancor oggi conserva. I piccoli, silenziosi doni son divenuti polvere, e la scatola è leggera come fosse vuota.

Umberto si leva alle sei d’estate e alle sei e mezzo d’inverno, non un minuto prima, non un minuto dopo. Lavora al tavolino sino alle undici, senz’altra interruzione che per dare il buongiorno alle figliuole, Attualmente come abbiamo detto, lavora all’integrazione della grande opera numismatica lasciata incompiuta dal padre e ad un’indagine sulle numerose sculture dei Della Robbia esistenti in Portogallo. Quanto mia varie le letture, ma le storiche e le politiche sono le preferite. Lo appassionano gli studi d’arte, non gli manca un’ottima cultura letteraria, profonda per quanto riguarda i classici latini e greci. Lo aiuta una memoria non comune. “La memoria dei Savoia”, egli dice. Ha inclinazione per la filologia , le sue ricerche etimologiche vengono seguite con interesse ed ammirazione dagli studiosi portoghesi. Non si può dire che la letteratura contemporanea lo entusiasmi, ma la segue con attenzione. Due libri di autori italiani gli è caro rileggere, “I sette messaggeri” di Dino Buzzati e “Il mulino del Po”, di Riccardo Bacchelli. Ho visto uno scaffale “La corona di cristallo”, di Marco Ramperti. Mia meraviglia. “Si” dice il re, “è un mio crudele avversario. Ma non per questo non ha ingegno e scrive bene“.

Non serba rancore. Parla dei pregi dei suoi avversari e dei suoi nemici, mai dei loro difetti. “Non tanto, forse“, mi spiega, “per generosità, quanto per orgoglio. Mia madre e mio padre, le poche volte che parlavano degli altri, non era se non per dirne bene. Avrebbero considerato un mancarsi di rispetto – sì elevati erano i loro rapporti – l’abbassarsi a dir male di qualcuno“.

Alle dieci precise Umberto abbandona il tavolino, abbia o no terminato il lavoro che c’era promesso di fare. Ma il non fatto non viene rimandato a domani: semplicemente a questa sera, dopo cena, o a questa notte, dopo il teatro. Sei ore di sonno gli sono sufficienti. Dormi anche di meno non gli nuoce. Ha una salute di ferro. Alle dieci, invariabilmente, quale che sia la stagione o la giornata, esce per una passeggiata di due ore. D’estate e per buona parte dell’autunno la passeggiata si riduce ad un’ora. L’altra viene dedicata al nuoto. “Un paio d’ani fa”, mi dice il re sorridendo, alcuni giornali illustrati pubblicarono una fotografia nella quale apparivo in costume da bagno commentandola ironicamente, come se a un uomo della mia condizione non si addicesse il nuoto o non fosse lecito di entrare in acqua se non interamente vestito.

A mezzogiorno preciso Umberto è di ritorno a Villa Italia, e dieci minuti dopo discende nel bel salotto al pianterreno dove Vittorio Emanuele II vestito da cacciatore dorme sotto la luna nel bel quadro salvato dalle acque. Nel salotto lo attende il segretario per il rapporto quotidiano. Il segretario è il capitano Mario Castellani. Se a lui si aggiungono il medico che è l’illustre scienziato Aldo Castellani, ex senatore del Regno, e l’aiutante di campo, che sino a poco tempo fa era il generale Giovanni Graziani, ecco tutta la corte dell’esiliato.

Una governante per le due piccole principesse, e un’istitutrice per la principessa Maria Pia. Poche le persone di servizio, e infine l’ex corazziere Giovanni Trigatti che fa da domestico, da montagna (quando le principessine gli s’arrampicano fin sulle spalle o sulla testa) e da giardiniere. In gran segreto coltiva in une remoto angolo del giardino un’aiuola fatta a forma di scudo, l’orlo di gerani celesti e la croce di gerani bianchi in campo di gerani rossi: lo stemma dei Savoia. In gran segreto, perché il re, alieno da ogni sentimentalismo, non approverebbe.

Dopo il rapporto le udienze. Cordiali sempre, lunghe se i visitatori son pochi, brevi se molti. E’ nelle anticamere dei commendatori che si deve attendere per ore prima d’esser ricevuti; in quelle dei re neppure un minuto. . Allorché s’apre la porta che divide l’anticamera – sempre tenuta in penombra come il parlatori di un convento – dalla bella sala luminosa, Umberto si fa incontro al visitatore gli stringe cordialmente la mano, lo invita a sederglisi di fronte e senza dargli il tempo di di sentirsi intimidito o in imbarazzo porta i discorso sull’argomento che un infallibile senso lo avverte esser quello nel quale si trova più a suo agio. I luoghi comuni, le considerazioni sul tempo, quei famosi vuoti propri delle conversazioni tra due che si vedono per la prima volta evitati. La conversazione corre subito facile, spontanea, piacevole. Ad Umberto piace far molte domande, non sfiorar le questioni ma approfondirle, anche quelle di poco conto; e sempre si avverte in lui l’amor della precisione e della chiarezza. Possiede vivo il senso dell’umorismo, e sa garbatamente volgere in scherzo gli argomenti nei quali non vuole impegnarsi. Se anche  non sapessi che egli è re, te ne accorgeresti dal distacco che fin nel più cordiale dei colloqui rimane fra te e lui, un distacco che nulla toglie al calore dell’affettuosa confidenza cui non è raro ch’0egli ammetta anche chi per la prima volta gli si trovi di fronte, ma è sempre lì, nell’aria , ad impedirti ogni atto, ogni gesto, ogni parola che anche solo di un nulla trascorrano certi limiti. Impossibile, anche ai suoi amici, se pure un re possa aver degli amici, di penetrarne l’animo.

Un esagerato pudore dei propri sentimenti lo tiene continuamente in guardia, sì che di essi si può solo intuire, intravedere la delicatezza e la nobiltà,e mai sarà dato di conoscerli a fondo come pur vorrebbe chi, come noi, è convinto che sarebbe di gran giovamento alla causa della monarchia se gli italiani conoscessero meglio la figura di Umberto di Savoia.

S’è già detto aver egli ereditata dal padre la gelosa cura che one nel nascondere la parte migliore di se stesso, i più generosi e i più gentili dei suoi sentimenti. Molti anni fa morì a Roma l’ammiraglio Capomazza, e Vittorio Emanuele III, che aveva sempre onorato d’affettuosa stima il vecchio, valoroso soldato volle recarsi a dar l’estremo saluto alla salma.

La camera ardente era piena di ministri e di generali. Si fece largo al re, il quale, accostatosi alla salma, rimase così a lungo in atto di sì intenso raccoglimento presso di essa, “che io” mi racconta il gentiluomo dio corte che lo accompagnava, “pur senza rendermi conto della sua precisa intenzione compresi che voleva rimaner solo, e non mi fu facile coi soli gesti, persuadere i presenti della necessità  d’abbandonare la stanza. Uscii dietro di essi, ma nel varcar la soglia non resistetti alla tentazione di voltarmi indietro per un attimo, e vidi il re togliersi rapidamente qualche cosa di nascosto nel petto della giubba e rapidamente cacciarlo sotto il cuscino nel quale era affondato il volto cereo dell’ammiraglio. Era un fiore. Un piccolo fiore  che prima di uscire dal Quirinale era andato a cogliere nel giardino,. Poi s’allontanò impassibile, senz’ombra di commozione nell’impenetrabile volto grinzoso”.

All’una, terminate le udienze, Umberto pranza con le figliuole, verso le quali vedremo che padre affettuoso egli sia. Ma spesso ha ospiti, e allora è un anfitrione di conversazione piacevole e varia non priva, con le signore, di raffinata galanteria. Si è molto parlato e si parla tuttavia  della vita privata di Umberto di Savoia, ma s’inganna chi sia ancora fermo al luogo comune che lo vuole perduto dietro le gonnelle. Certo, egli non s’è mai distinto per una particolare insensibilità nei riguardi dell’altro sesso, della quale, d’altra parte, il grande bisavolo Vittorio Emnanuele II non avrebbe mancato di rimproverarlo severamente scotendosi dal sonno nel quale, nel bel quadro del salotto, lo si vede immerso sotto la bianca luce della luna; ma la tragedia italiana, la morte del padre, l’esilio hanno spiritualizzato la sua vita distaccandola anche da quei piaceri cui egli era forse meno insensibile, e la sua condotta privata è oggi irreprensibile.

Dopo pranzo Umberto legge la posta, i giornali e scrive lettere. Poi esce per una breve passeggiata, al ritorno dalla quale trova ogni giorno ad attenderlo quelli che per lunga assiduità alle conversazioni e alle discussioni che fanno del salotto di villa Italia un vero e proprio centro di studi storici e letterari, possono ormai considerarsi o compagni più cari della sua vita d’esilio.

Si conversa fino alle otto. dopo cena Umberto non esce se non per recarsi a teatro. Il cinematografo non lo attira. Gli piace sentir cantare il fado, che è il canto nazionale portoghese, dalle mille variazioni, ma sempre triste, malinconico, evocante felicità perdute. La bellissima Amalia Rodriguez, la cui voce profonda e dolorosa esprime a meraviglia il rimpianto e la nostalgia contenuti in ogni fado, è un personaggio nazionale. Appassionato com’è di sport, è raro, la domenica, non vedere Umberto o alle partite di calcio o alle corse dei cavalli. Nei limiti che le quasi modeste possibilità economiche gli impongono, e molto spesso superandoli, continua, come fosse ancora re, a far della beneficenza. Nessuno mai batte alla sua porta invano. Soccorre quanti connazionali gli chiedano aiuto, i pescatori della costa e i contadini delle campagne che percorre nelle sue passeggiate lo hanno spesso generoso visitatore delle loro povere case; non è raro che anche qualche italiano in Italia giunga la tangibile prova del suo spirito caritatevole. “Naturalmente si dice che lo faccio per propaganda, e me ne duole. Dare a chi chiede è per me un bisogno prima ancora che un dovere“.

M’accompagna al cancello. Un vento furioso soffia dal mare scompigliando le chiome dei pini e curvando i tronchi gementi. Inginocchiato in un angolo del giardino , l’ex corazziere Giovanni Trigatti sta ricoprendo con un panno il segreto del suo stemma di gerani rossi. Guai se il re sapesse. Al rumore dei passi scatta in piedi, rosso in viso. Umberto sorride.

Guai se io sapessi“, mi dice sottovoce, “guai se io sapessi del suo stemma di gerani. Sono sentimentalismi che non approvo. Dovrei ordinargli di toglierlo“.