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I Savoia nella Bufera di Giorgio Pillon

I Savoia nella Bufera. Parlano i testimoni – di Giorgio Pillon – 1958 – 16

By Aprile 1, 2020Gennaio 24th, 2022No Comments

COSI’ SI SPENSE  LA REGINA ELENA

Fino all’ultimo dispensò il bene come una fata

Tra le suore sarde dell’orfanotrofio di Montpellier

I ricordi del domestico veneto

Gli anni del tramonto turbati dal rimpianto dei figli lontani e dell’Italia che non avrebbe più riveduto

I ” fioretti” raccolti da suor Giovanna

“Forse non ho ancora sofferto abbastanza”

L’intervento operatorio e dopo diciotto giorni l’embolo fatale

Dapprima il soggiorno a Montpellier fu triste anche se tranquillo. Elena di Savoia stentava a ritrovare la serenità spirituale che sempre l’aveva sorretta persino nei momenti più dolorosi e più drammatici.
A poco a poco però la Sovrana si riprese; fu quando cominciò ad interessarsi di beneficenza. «Non faceva solo del bene», ci ha detto Rosa Gallotti, la fedele cameriera della Regina, «ma nel farlo esagerava addirittura».

Qualche settimana dopo il suo arrivo conobbe una povera paralitica che viveva in uno stambugio assieme alla vecchia madre, anche lei estremamente malandata in salute. Il primo giorno offri alle due donne tutto il danaro che aveva con sé. Poi mandò biancheria, viveri e persino una radio. Un mese dopo ordinò che si acquistasse una casa. Voleva offrirla alle sue protette.

Quel generoso gesto preoccupò non poco il commendatore Gaetano Scalici, segretario privato della Regina e amministratore unico dei modesti beni rimasti alla Sovrana. «Dove andremo a finire», pensò Scalici, «se la Regina appena arrivata a Montpellíer comincia col regalare una casa ad una sconosciuta, la quale ignora persino il nome dell’augusta donatrice?».

Strettezze economiche

Scalici non aveva tutti i torti a pensarla così. Infatti la Regina non si era mai preoccupata di fare economie quando il danaro doveva servire a sollevare le miserie del prossimo. Per lei le ricchezze erano il migliore dei mezzi per avvicinare tanta povera gente, per vivere in mezzo al popolo. «Ma quando avremo finito i fondi », osservava Scalici, «saremo noi a chiedere aiuto!».

«Iddio non ci abbandonerà», rispondeva con infinita dolcezza la Regina continuando a regalare, a donare tutto.

Ma quella volta la Sovrana non riuscì a spuntarla. Non poté, cioè, regalare una casa alla paralitica. Le fu fatto credere che nel quartiere dove le due donne abitavano non c’era in vendita nessuna casa, neppure un appartamento.

Allora ordinò che lo stambugio della paralitica venisse rimesso a nuovo. Spese in lavori edili 450 mila franchi, non solo, ma volle personalmente prendere le misure delle finestre e acquistare in un negozio di Montpellier le tende.

Quando le dissero che in città c’erano alcune suore sarde, volle subito conoscerle. Le suore avevano un orfanotrofio, e s’affrettarono a insegnare alle bambine l’inno sardo.
Quando Elena di Savoia varcò il cancello dell’Istituto e si senti salutare: «Cunservet Deus su Re!», rimase talmente emozionata che non riuscì a trattenere le lacrime. Da quel giorno le suore sarde ebbero ogni ben di Dio, lenzuola, camicie, vestitini, scarpe e quintali di viveri. «Mi piace tanto stare qui», diceva la Regina alla superiora dell’orfanotrofio. «E’ un pezzetto d’Italia».

Una volta confessò alle suore: «Sono contenta di vedere che queste bambine non soffrono: sono ben trattate, ben vestite, non mancano di nulla, Hanno solo bisogno di giocattoli. Ma di, questo me ne incarico io». E venne con provviste di giocattoli: palle, cerchi, corde dì tutti i colori. Le bambine erano pazze di gioia. E il colmo della gioia era di giocare con la Regina. Sicuro: la Regina sapeva così bene lanciare la palla, farla rimbalzare. Non si poteva gareggiare con lei. Fra le bambine dell’Orfanotrofio ce n’era una, piccola, abbandonata dalla madre. La piccina soffriva terribilmente. Ogni volta che c’era qualcuno al parlatorio, chiedeva ansiosa: «E’ la mia mamma?».

Un giorno alla sua solita domanda fu risposto di sì. Fuori di sé, Mireille (così si chiamava la piccina) irruppe nel parlatorio e singhiozzando Mamma! Mamma!» si precipitò nelle braccia della visitatrice. Era la Regina. Prese Mireìlle sulle ginocchia, la strinse a sé, la cullò, la carezzò, la consolò così maternamente che la disperazione della bambina fu da allora addolcita. E la Regina ebbe sempre per lei una grande tenerezza; ad ogni visita voleva vederla; quando mandava un dono per tutte, c’era sempre qualcosa di speciale «per la piccina che mi ha chiamata mamma».

Quando la Regina tornava dalla pesca passava invariabilmente davanti all’Orfanotrofio. Scendeva un attimo dalla macchina, suonava il campanello e alla suora portinaia diceva: «Fra poco manderò una cesta di pesci. Li ho presi io stessa». La Regina avrebbe potuto lasciare alla suora il canestro che aveva in automobile. Invece preferiva portarselo a casa. Poco dopo un domestico portava i pesci alle suore su di un grande piatto d’argento. «Come sono disposti bene!», osservavano le suore. E il domestico: «Li ha messi così Sua Maestà, con le sue mani, dice che i pesci devono essere ben presentati».

L’ultimo domestico

Di solito veniva incaricato di portare i doni Angelo Teassan, un veneto nativo di Mansuè in provincia di Treviso. Fu per un certo tempo uno dei camerieri della Regina e il suo autista. Ora è rimasto al servizio del professore Lamarque (l’illustre radiologo di Montpellier) e continua a vivere in quello che fu «il piccolo mondo della Regina Elena». Angelo Teassan ha cinquantanove anni. E’ un uomo d’aspetto distinto, volto scavato e radi capelli grigi. Vive in Francia dal 1919, è sposato, e la moglie, Emilia, lavora come lui nella villa Lamarque.

Fu il caso a portarlo al servizio della Regina. Allo scoppio della guerra del 1940 egli viveva a Montpellier. Era titolare di un’impresa edile e gli affari non gli andavano male: aveva alcuni autocarri e dava lavoro a parecchi operai. Quando i tedeschi occuparono la Linguadoca gli sequestrarono gli automezzi. Fu costretto a cercarsi un lavoro, ma la cosa non appariva facile. Sua moglie aveva fatto la cameriera.

Con lei Angelo Teassan si presentò all’Hótel Métropole, dove fu assunto. Rimase nell’albergo per cinque anni, poi, sempre con la moglie, passò al servizio della contessa d’Alyon, una nobildonna che nei pressi di Montpellier possiede una villa. Nella dimora della contessa andò a cercarlo, nell’ottobre del 1950, il commendator Scalici.
Teassan ricorda: «Non volevo accettare la proposta di Scalici. Avevo fatto il cameriere e continuavo a farlo presso la contessa d’Alyon, ma non avevo mai servito una Regina. Temevo perciò di non esserne capace, di essere mandato via dopo pochi giorni. Ma poi mi lasciai convincere, quando seppi che anche mia moglie sarebbe venuta con me. In due, pensai, ci si aiuta. Così, tre giorni dopo, giunsi al Mas de Rouel. Da allora non mi sono più mosso da questi luoghi».

Teassan entra nella villa e apre la porta del soggiorno. E’ una grande stanza con quattro porte-finestre che si affacciano sul parco. Sulla cappa del camino si vede lo scudo dei Savoia. Ai lati del camino sono due grandi librerie; in mezzo alla stanza due divani, qualche poltrona di cuoio, due tavolinetti. Una scala di legno chiaro porta al piano superiore.

In questa dimora borghese e quasi gozzaniana, la Regina d’Italia visse i suoi ultimi giorni d’esilio. Da questa casa bianca, seminascosta fra i larici, partì verso la clinica di Saint-Cóme, dove l’attendevano ì ferri del chirurgo: in questa casa fece ritorno, ormai immobile nel sonno delta morte, su una lettiga del pronto soccorso, sei anni fa.

Al Mas de Rouel

Fin da principio Elena amò il Mas de Rouel (mas in linguadoca significa appunto casa di campagna) e le terre che si stendevano intorno, a perdita d’occhio. Lontane, nel cielo chiaro, si scorgevano le guglie dei campanili di Montpellier, la distesa dei suoi tetti di ardesia, i giardini dell’Esplanade. Lamarque e la sua famiglia si erano ritirati a poca distanza della villa, in altra cascina di loro proprietà.

Cominciarono per la Regina gli anni del tramonto, turbati dal rimpianto dei figli lontani, della famiglia dispersa, dell’Italia che non avrebbe più riveduto.
Questo pensiero, sopra ogni altro, le dava un infinito dolore. Ma non vi era in lei ombra di risentimento. «Mai ch’io abbia udito dalle sue labbra un giudizio sugli ultimi drammatici avvenimenti che portarono alla caduta della Monarchia in Italia. Mai ch’io l’abbia udita pronunciare una parola di condanna o soltanto di rampogna verso l’uno o l’altro degli uomini che governavano allora il Suo Paese», ci ha dichiarato il professor Lamarque. Non c’è ragione di non credergli.

Durante il lungo periodo del suo regno, Elena non colse mai l’occasione di partecipare, sia pure indirettamente, alle vicende politiche; e di lei non si ricorda che la frase pronunciata il 25 luglio, quando apprese l’arresto di Mussolini. Ma anche allora, probabilmente, non si trattava di un atteggiamento politico era soltanto l’espressione di un rammarico tanto più comprensibile ove si pensi ch’ella aveva vivissimo il senso dell’ospitalità regale. Del resto, quelle vicende apparivano ormai lontane alla sua memoria. Dai giorni felici del regno la separavano il ricordo tragico della guerra, la scomparsa di Mafalda a Buchenwald, l’abdicazione di Vittorio Emanuele, la sua morte in terra d’esilio e il referendum istituzionale. Un altro dolore l’avrebbe colpita in quegli anni: la morte di Elena d’Aosta, avvenuta all’albergo Quisisana di Castellammare, nel gennaio del 1951.

Umile generosità

La vecchia Sovrana aveva ormai accettato la propria sorte. Sapeva che i giorni della sua vita volgevano al termine. Si era ancor più accostata alla Fede con rinnovato ardore. Con altrettanto fervore voleva ripetere a Montpellíer le opere che in Italia l’avevano consacrata all’affetto degli umili quelle per cui era stata amata da tutti. Soccorrere, consigliare, sorreggere, consolare: a questi sentimenti ispirò ogni suo giorno d’esilio, con silenziosa umiltà.

Da quell’umiltà, da quel suo saper donare, nacque l’immagine d’una Regina triste e generosa. Qualcuno ha voluto diffonderla e sono nati i «fioretti».
Li ha raccolti una suora, che vive al convento domenicano di Tourelle. 2 suor Giovanna, un’italiana di Palermo che risiede ìn Francia da molto tempo. Suor Giovanna (che ha seguito in quegli anni ogni passo della Regina in esilio) ha voluto racchiudere ogni gesto della nascosta bontà di Elena in uno scrigno ideale; ne è nato un libretto che è dedicato ai francesi, e a quegli italiani non dimentichi che giungono a Montpellier per posare un fiore sulla tomba della loro Regina.

Raccontano i « fioretti » che Elena un giorno chiamò Angelo Teassan perché preparasse la macchina. Era una automobile nera di marca americana, sempre carica di medicinali, di caramelle e di giocattoli. Con Teassan la Sovrana sarebbe andata a Saint Jean de Vidas, un paesino a trentacinque chilometri da Montpellier. Aveva saputo che una donna, madre di quattro bambini, aveva recentemente perduto il marito in una sciagura sul lavoro e che era in condizioni dì grande miseria. Giunse a Saint Jean de Vidas verso le diciotto.

Fece fermare la macchina all’ingresso del paese e si avviò a piedi, sola. La vedova si chiamava Madeleine Rochart. La Regina chiese a un gruppo di contadini dove abitasse la donna, poi si diresse verso la sua casa. Restò via quasi un’ora. Quando fece ritorno aveva gli occhi rossi, come se avesse pianto. Nel ritorno non disse una parola. Sembrava. profondamente turbata. Soltanto più tardi Angelo Teassan seppe che la Regina aveva lasciato a quella vedova una grossa somma di denaro e che l’aveva aiutata a rifare i letti e a lavare i bambini. Se n’era andata senza dire chi fosse né da dove venisse.

Il dono d’una bambola

Un’altra volta (leggiamo nei « fioretti » dì suor Giovanna) la Regina passeggiava per una via di Montpellier. Ad un tratto scorse una donna che teneva per mano una bambina. La piccola si era fermata davanti alla vetrina di un negozio di giocattoli e inutili erano gli sforzi della madre per trascinarla via. La Regina si avvicinò alla donna. Sorridendo le domandò se poteva «prestarle» per qualche minuto la bambina. Prima ancora che la donna avesse compreso, entrò con la bambina nel negozio. «Scegli una bambola, quella che vuoi». «Quella là disse la piccola».
Era la più bella, naturalmente. Elena la comprò, gliela mise fra le braccia, poi riportò la piccina dalla madre.


Che questi episodi siano veri non solo ce l’ha confermato il professor Lamarque, ma anche le stesse persone che ne furono protagoniste. Una di esse è il guardiano del canale RhóneSète, Pierre Ollombel, dove spesso Elena si recava a pescare in compagnia di Lamarque. Pierre Ollombel ha quattro figli, di cui tre bambine e un maschietto. Un giorno di settembre la Regina si trovava con il professore su una barca, al centro del canale. Lamarque aveva gettato l’amo e stava facendo scorrere il filo nel verricello.

A un tratto Elena lo pregò di accostare. Aveva scorto, presso la casetta del giardino, una bambina. Raggiunse la casa degli Ollombel, e all’uomo che si era fatto sulla soglia domandò una sedia. Si sentiva stanca, disse, e voleva riposare un poco. In realtà desiderava soltanto conoscere la piccola che aveva veduto di lontano.
Quando seppe che la casa ospitava ben quattro bambinì sorrise allegra, li fece chiamare, li vezzeggiò. In breve Jacqueline, Monique, Michèle e Nicole, i quattro figli del guardiano del canale, diventarono i suoi piccoli amici, i suoi beniamini. Ad essi recò spesso ninnoli e giocattoli. Il Natale di quello stesso anno fece giungere alla casa del guardiano -una bambola, un orsacchiotto, piccole lenzuola di lino e un pagliaccetto per l’ultimo nato.

Anche una vecchietta di Montpellier, che ha un negozio di libri antichi dietro place de là Comédie, riceveva spesso la visita della Regina. Con la scusa di acquisti Elena sapeva trovare il modo di lasciare somme che talvolta costituivano per chi le riceveva piccole fortune.
Così trascorrevano le giornate della Sovrana, fra un’opera buona e una gita verso i luoghi di pesca, quasi sempre in compagnia di Lamarque. Con il medico la Sovrana aveva orinai stretto i vincoli di una calda, riconoscente amicizia, rafforzata da un comune passatempo: la pesca. Due volte la settimana si recava poi alla clinica del cancerologo per sottoporsi alle cure dei raggi. Le sedute sotto gli apparecchi si sarebbero fatte via via più lunghe, a mano a mano che il male avanzava e che la scienza rivelava la sua pochezza.

Il buon compagno

Lamarque la rasserenava, cercava di nasconderle il pericolo, l’accompagnava a Palavas, il porticciolo sul Mediterraneo dove Elena aveva stretto amicizia con molti pescatori, le stava vicino anche quando, come accadde qualche volta, la Regina voleva rompere la monotonia dei giorni eguali e andare a visitare le città vicine. Furono assieme a Nimes, ad Avignone, a Sète, ad Aigues Mortes.

Egli fu, in quel periodo, veramente il buon compagno della Signora che si spegneva fra le tristezze della lunga vita. Era lui che, nelle lunghe sere d’inverno, al Mas de Rouel, intratteneva Elena in placida conversazione sui temi cari alla mente di entrambi: la storia di Richelieu, di Mazarino, di Enrico IV; le vicende della Navarra e della Provenza.

Talvolta veniva Umberto da Cascais. Allora madre e figlio, non più separatí dall’etichetta di Corte, restavano lungamente insieme. Anche Faruk andava ogni tanto a renderle visita; e Maria, la figlia che più le somigliava, arrivava al Mas de Rouel dalla sua villa presso Mandelieu, portandole le nipotine. Gli altri della famiglia erano lontani, in Egitto o a Merlinge o a Madríd.
I primi giorni di novembre del ’52 il professor Lamarque ebbe la prova che le cure radioattive – che sino ad allora erano parse giovevoli – non sarebbero mai riuscite a combattere il male efficacemente e a stroncarlo. Egli stesso, d’accordo con il preside della facoltà di Chirurgia di Montpellier, professor Luigi Roux, consigliò la Regina di sottoporsì a un intervento che appariva difficile ma non impossibile.

La riunione di famiglia

Elena era ormai rassegnata da tempo al peggio. Accolse la proposta dell’amico radiologo con un sorriso d’amarezza. Disse: «Se è necessario affrontare anche questa prova io sono pronta. Forse non ho sofferto ancora abbastanza. Volle, prima, avere accanto i figli. Si avvicinava una data cara alle tradizioni sabaude: San Martino, l’11 di novembre, genetliaco di Vittorio Emanuele III. In quel giorno negli anni passati tutta la famiglia si raccoglieva attorno al Re per rinnovargli la devozione e rendergli omaggio. Adesso i Savoia avrebbero dovuto ascoltare la relazione di Lamarque sulla malattia della Sovrana e decidere sul da farsi.

Arrivarono tutti: Maria di Borbone dalla sua villa di Mandelieu, Umberto da Cascais, Jolanda di Bergolo da Alessandria d’Egitto, Giovanna da Madrid. L’operazione fu decisa.
Elena entrò alla clinica di Saint-Cóme il 10,novembre alle 10 del mattino. Alle 15 fu trasportata in sala operatoria. L’intervento durò due ore e mezzo, cominciando alle 15,15, quando Elena, dopo aver contato per una decina di secondi e aver bisbigliato il nome dei figli, si addormentò sotto l’effetto dell’anestetico. L’operazione venne eseguita magistralmente dal professore Roux ed ebbe un esito felice. La Regina si destò alle due di notte, nella camera numero 4 della clinica. Accanto al suo capezzale scorse la sorella Xenia del Montenegro e la contessa Jaccarino. Aveva molta sete e soffriva dolori atroci.

Quello stesso giorno le agenzie di stampa diramarono la notizia che Elena era in condizioni gravissime. Gli inviati dei giornali di tutto il mondo corsero a Montpellier ma si trovarono davanti a un muro di silenzio. Fu loro dichiarato che la Regina d’Italia godeva buonissima salute, che era al Mas de Rouel ma che non intendeva vedere nessuno. I figli rifiutarono qualsiasi intervista e giustificarono la loro presenza a Montpellier con ragioni di carattere familiare: lasciando pensare ch’esse fossero da vedersi in questioni finanziarie conseguenti alla morte di Vittorio Emanuele III.

Due giorni dopo l’operazione, i giornalisti videro partire Maria per Matidelieu, Giovanna per Madrid e Jolanda per l’Egitto. Allora, convinti di un falso allarme, abbandonarono anch’essi i dintorni della clinica Saint Cóme e l’albergo Métropole. Umberto si trattenne ancora a Montpellier qualche giorno e poi ripartì anch’egli, ma si fermò a Parigi.
Frattanto Elena andava lentamente migliorando; il suo vecchio cuore aveva ottimamente resistito. Non aveva saputo degli allarmi diffusi dalla stampa né della commozione dei molti che la ricordavano con affetto. Adesso che si avviava alla definitiva guarigione ricominciava a fare progetti.
Diceva che a primavera sarebbe ritornata a pescare con Lamarque e che i malati della clinica avrebbero avuto spesso del buon pesce fresco. Soltanto la sera, dopo la telefonata di Umberto da Parigi, mentre suor Maria veniva a rimboccarle le coperte, le tornava il pensiero della morte. Ma diceva di non averne paura: «Se però dovesse accadermi qualcosa», confidò alla suora, «si ricordi che non voglio mi veda nessuno soltanto i miei figli».

Una mattinata piena di sole

La mattina del 28 novembre la stanza della Regina era inondata di sole. Il professore Lamarque, che ogni due ore si recava a visitarla, trovò Elena sorridente. Aveva bevuto un bicchiere di latte ma sentiva ancora appetito. «Come mangerei volentieri una bistecca», disse al medico. « Se non proprio una bistecca vi prometto che a primavera vi farò mangiare delle buone cose tenere», le rispose Lamarque.

«Dottore», disse ancora Elena, «mi avevate promesso che stamane un sarei potuta alzare per mettermi un po’ in poltrona. Voi forse non potete capire ma per me questo significa liberarmi completamente dal male ». Lamarque consenti e le infermiere la sollevarono dal letto e la deposero nella poltrona, in faccia alla finestra. Restò così dieci minuti, guardando la campagna di là dai vetri. Poi fu rimessa a letto. Lamarque stava rimboccandole la coperta quando vide che gli occhi della Regina cominciavano a rovesciarsi e il volto a contrarsi. Un embolo la stava uccidendo. Fu questione di pochi attimi. Il cappellano fece appena in tempo a impartirle l’Estrema Unzione, mentre ella mormorava qualche parola: i nomi dei figli, Italia.

Morì alle dieci e trentacinque del 28 novembre. L’8 gennaio seguente avrebbe compiuto ottant’anni. Fu coperta con un lenzuolo e poco dopo. senza dir nulla a nessuno, Lamarque la fece trasportare al Mas de Rouel su un’autolettiga del pronto soccorso. Nella stanza di soggiorno, al pianterreno della villa, fu allestita la camera ardente. La notizia della morte fu comunicata soltanto a Re Umberto. Però, poche ore più tardi, le agenzie di stampa la diffondevano in tutto il mondo.

Giunsero nuovamente i figli, meno Jolanda che, rientrata ad Alessandria d’Egitto, si era ammalata. Elena fu composta in una cassa di legno chiaro; sul corpo le fu steso il grande velo di merletto di Burano che aveva portato sul capo in Santa Maria degli Angioli, quando andò sposa a Vittorio Emanuele. Quel velo non fu sollevato che dai figli, come lei aveva voluto. Fu sepolta provvisoriamente nella tomba dei Lamarque, al cimitero di Saint Lazaire, un mattino piovoso. Un anno dopo, nel primo anniversario della morte la Salma fu inumata in una tomba di semplicità francescana, costruita in marmo di Carrara. Lacrime. Fiori e pugni di terra portata dall’Italia le diedero il definitivo addio. Elena entrava nella leggenda. Sul luogo dove riposa ora si legge soltanto il nome: Elena.