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I Savoia nella Bufera di Giorgio Pillon

I Savoia nella Bufera. Parlano i testimoni – di Giorgio Pillon – 1958 – 15

By Aprile 2, 2020Gennaio 24th, 2022No Comments

L’ESILIO IN FRANCIA DELLA REGINA ELENA

Dopo la morte di Vittorio Emanuele la Regina incominciò lentamente a deperire

I medici le consigliano un primo viaggio in Europa, dove rivede la famiglia

Gravi difficoltà economiche al ritorno in Egitto

Il medico di Re Faruk ordina la partenza immediata per una clinica francese

Il prof. Paul Lamarque, famoso cancerologo, prende in cura la Sovrana, offrendole la sua casa di Mas de Rouel

Faceva freddo. Tirava un vento gelido, impetuoso. Il mare davanti a Sète, oltre il porto, era agitato, sconvolto dalle onde. Nessun pescatore aveva osato quella mattina di ottobre del 1952 lasciare l’ampio canale che forma il rifugio naturale delle barche e dei motopescherecci, per avventurarsi al largo. Pure dalla sommità del Mont Clair, nell’interno del semaforo militare, due sottufficiali di marina scrutavano la distesa del Mediterraneo con non celata agitazione. Lontano, oltre i frangiflutti, oltre il lazzaretto, una piccola barca spariva e ricompariva, ora sommersa, ora sollevata verso l’alto da qualche onda più nerastra e più minacciosa. Su quella fragile imbarcazione, a stento guidata da due marinai del posto, una signora pescava. Sembrava che non si rendesse conto del pericolo e, cosa ancora più strana, pareva che neppure i due marinai che la accompagnavano temessero il maltempo. Soltanto un paio d’ore dopo, quando la pioggia cominciò a cadere fitta, la barca volse la prua verso riva. Dal semaforo fu seguito ogni movimento. A terra, nei pressi dell’approdo, una piccola folla di pescatori si era raccolta, pronta ad accorrere in aiuto della signora e dei due marinai. La barca però giunse a riva da sola, con i propri mezzi: quattro robusti remi, abilmente manovrati. Allora quando la signora – una donna anziana vestita modestamente di nero – accennò a scendere, si levò un applauso. Qualcuno gridò:  «Vive la Reine!» e un altro di rimando: « Vive notre Reine!».

Calma, sorridente, per nulla turbata da quella avventura che poteva anche concludersi tragicamente, Elena di Savoia, la pescatrice di Sète, raccolse la sua canna da pesca e il suo cestino, Poi si avviò verso una grossa automobile nera che l’attendeva. Fu quella l’ultima volta che i pescatori di Sète videro l’ex-Regina d’Italia. Un mese più tardi, il 28 novembre., verso le dieci del mattino Elena di Savoia moriva di cancro in una cameretta della clinica « Saint Come » di Montpellier.


Il primo ed ultimo volo

Era giunta in Francia convinta di non ritornare mai più in Egitto, nel maggio del ’50; era stata la sua una partenza affrettata, improvvisa. Infatti la Sovrana si era decisa all’ultimo momento ad affrontare il viaggio in aereo. «Fu quello, ci ha detto il conte Eugenio Jaccarino Rochefort che l’accompagnò, «il suo primo ed ultimo volo». Elena di Savoia non aveva mai voluto servirsi dell’aereo, anche per consiglio dei medici che avevano riscontrato, dalla lettura dei suoi cardiogrammi, delle anomalie tutt’altro che leggere.

Quando l’8 settembre del ’43 i Reali, consigliati da Badoglio, lasciarono precipitosamente Roma diretti verso il castello di Crecchio, in provincia di Chieti, ci fu qualcuno del seguito che propose di continuare il viaggio per Brindisi con un aereo che avrebbe potuto decollare dall’aeroporto militare di Pescara. Ma il Re osservò: «No. Sarà meglio imbarcarci a Ortona. Sua Maestà la Regina non può affrontare i rischi di un volo .
La Regina, dunque, non aveva mai volato. Aveva anzi una certa prevenzione per questi viaggi che giudicava troppo rapidi e troppo pericolosi. Perché, allora. accettò di lasciare L’Egitto in aereo?

All’origine vi è un episodio sconosciuto. Ce lo ha raccontato la fedele Rosa Gallotti, che fu vicina alla Sovrana per quasi venticinque anni.

Morto Vittorio Emanuele, la Regina, pur seguitando a mostrare una forza d’animo eccezionale, andò lentamente deperendo. I medici curanti (il professore Maggiorino Peta, italiano, e il professore Abdel Razek Bey, medico personale di Faruk e capo della sezione malattie interne dell’ospedale egiziano di Alessandria), pur sospettando che causa di tanti fenomeni fosse «qualcosa» di estremamente grave, finirono col consigliare all’Augusta Signora un viaggio in Europa. Indubbiamente (essi pensarono) il soggiorno sulla Costa Azzurra gioverà non poco. La Sovrana troverà un clima più mite ma soprattutto potrà riprendersi spiritualmente, riabbracciare i figli, i nipoti e conoscere la piccola Chantal, figlia di Maria di Borbone-Parma.

Cosi Elena di Savoia venne spinta a tornare in Europa. La Regina accettò il consiglio dei medici a malincuore. Essa non avrebbe voluto staccarsi da Alessandria perché nella cattedrale cattolica di quella città riposava per sempre colui che per quasi cinquant’anni l’aveva chiamata «Mamam». Con questo affettuoso appellativo le si era sempre rivolto Vittorio Emanuele, ora parlandole in italiano, ora in francese e, nei momenti di buonumore, persino in dialetto piemontese.

I fiori per il Re

«Chi porterà i fiori al mio Re? Chi verrà a pregare sulla sua tomba quando io sarò in Europa?», osservò l’ex Sovrana. A convincerla furono le monache italiane dell’Ospizio per i vecchi, un istituto che era stato fondato nel ’29 proprio per il mecenatismo di Vittorio Emanuele. «Sua Maestà», dissero le monache, «avrà sempre fiori sulla sua tomba. Ogni giorno pregheremo per Lui».

Alla fine Elena di Savoia accettò il consiglio dei medici. Ordinò allora al commendatore Gaetano Scalici, suo segretario privato, di disporre la partenza. Sarebbe rimasta in Europa non più di due o tre mesi. Scalici acquistò quattro biglietti: per la Regina, per la contessa Jaccarino, per Rosa Gallotti (la cameriera personale) e per sé. L’amicizia tra la Regina Elena e la contessa Jaccarino Rochefort risaliva al 1889 quando entrambe giovinette frequentavano in Russia lo « Smolnij» , un collegio per fanciulle nobili fondato da Caterina II e divenuto poi la roccaforte dei bolscevichi durante la rivoluzione di ottobre. Rosa Gallotti era invece accanto alla Sovrana dal 1926. Anche Scalici era uno dei veterani. Lo si era incominciato a vedere a Corte intorno al 1910. Col passare degli anni la stima dei Sovrani verso di lui era andata sempre più crescendo, tanto che Vittorio Emanuele aveva finito con l’affidargli incarichi sempre più delicati. Morto il Sovrano, la Regina si era ancora di più appoggiata a Scalici, lasciandogli anzi l’incombenza di amministrare i pochi beni che le erano rimasti.

Scalici, dunque, acquistò i biglietti ma pochi giorni dopo si sentì dire da un funzionario della società di navigazione: «Il nostro direttore prega Sua Maestà di spostare la partenza su altro piroscafo, il Providence».

La repubblica ha paura

Che cosa era successo? Il Governo italiano, informato che l’ex-Regina avrebbe toccato in transito il porto di Napoli, aveva fatto sapere, per via diplomatica, che non avrebbe permesso la sosta. Per evitare incidenti si consigliava perciò un’altra nave che effettuava il viaggio da Alessandria a Marsiglia senza sostare in scali italiani, «Deve essere una repubblica molto debole quella italiana», osservò con tristezza Elena di Savoia, «se qualcuno teme che una vecchia signora possa creare disordini o fomentare rivoluzioni».

Così venne scelto il Provìdence. La Sovrana il 24 luglio 1949 si imbarcò. Arrivò a Marsiglia il 29 luglio. Quando la nave attraccò, un nugolo di fotografi e di giornalisti salì a bordo. Elena era sul ponte e si accingeva a scendere. Fu in breve circondata, quasi assalita dai fotoreporters, e, mentre cercava di difendersi in qualche modo dai lampi delle macchine, i cronisti la tempestavano di domande. La Regina non era mai stata oggetto di così irriverente curiosità, non era abituata ai lampi improvvisi del magnesio; si sapeva invecchiata, del resto, e fin dagli anni precedenti, in ogni occasione, cercava di nascondere il volto agli obiettivi fotografici.

Quel giorno, a Marsiglia, dopo un attimo di sbigottimento si difese rientrando sollecitamente nella cabina che aveva occupata durante la traversata. Non volle scendere a terra se non quando fotografi e giornalisti si furono allontanati. Un’automobile l’attendeva sul molo e a bordo di essa la Regina in esilio giunse a quella che sarebbe stata la sua prima residenza.

In terra francese: la villa Araucaria di Cannes. Ma il suo soggiorno in quel luogo durò poche settimane. Abbandonò villa Araucaria verso la metà di agosto e prese dimora alla Croisette. Ma si fermò pochissimo anche lì. Andò a Cap d’Antibes e prese alloggio all’«Eden Roc»; infine si trasferì, nell’ottobre di quello stesso anno, al «Chateau de la Croe», di cui erano stati ospiti fino a qualche giorno prima i Duchi di Windsor, i quali erano partiti per l’America.

A Merlinge

Ella aveva frattanto riabbracciato i parenti: aveva ricevuto le visite di Giovanna e di Simeone, aveva riveduto Maria e finalmente conosciuto la piccola Chantal. Era persino andata in Svizzera, a Merlinge, trattenendosi a lungo con Maria José e con Umberto giunto da Cascais, e ritrovando, accanto ai figli del giovane Re, il tempo perduto, Villa Savoia, quando tutto doveva ancora avvenire, e la vita trascorreva serena nella dolcezza degli affetti domestici.

A Merlinge, la Sovrana parve ritrovare il sorriso. In quella dimora, dove la moglie di suo figlio aveva raccolto le memorie del più recente passato, dove i figli di suo figlio crescevano e si educavano nel rispetto della tradizione, non lontano dalla Patria, l’anziana Regina sembrò dimenticare la propria solitudine e il proprio male. Trascorse a Merlinge giornate che ella stessa doveva più tardi definire indimenticabili, per la rinnovata gioia, per il ritrovato senso di una pace dell’animo che sembrava perduta per sempre. Ma il soggiorno breve in Svizzera non fu che una parentesi effimera nel tempo del lungo esilio, Elena dovette lasciare anche quella essa, dove forse si era illusa di ricreare la nidiata dispersa della famiglia, ch’era l’ultimo compito cui si sapeva chiamata.

Rientrò in Francia con nel cuore un’altra speranza delusa, verso un avvenire altera fatto di attesa, di lontananza paziente, di silenzio e di pena. La vecchia Signora sapeva ormai, per segni diversi di una stessa certezza, ch’era presentimento e timore insieme, che non sarebbe ritornata mai più alla tranquillità di Villa Jela, nel giardino odoroso di mughetti. Sapeva che in Francia. e in una città non lontana dai luoghi dell’ultima residenza, ella avrebbe dovuto d’ora in poi combattere contro il male che l’aveva assalita e la cui sorda natura non le era sconosciuta. Lei stessa aveva sollecitato i medici a non nasconderle nulla, e i medici le avevano parlato di un tumore estremamente pericoloso. Se caso mai le tacquero qualcosa, ella non poteva certamente illudersi. A soccorrerla della discrezione altrui valse senza dubbio la grande conoscenza che aveva della medicina.

Ma ormai il tempo stabilito per rimanere in Europa era trascorso. Bisognava rientrare a Villa Jela soprattutto per essere più accanto a Lui, al vecchio Re che dormiva il sonno eterno nella chiesa di Santa Caterina ad Alessandria. Così Elena tornò in Egitto, ma il nuovo trasferimento sembrò subito non giovare affatto. Il professore Abdel Razek Bey, dopo nuove analisi e nuovi accertamenti, confermò la diagnosi: la Regina era malata di cancro, di una forma di tumore tra le più gravi e le più difficili da curare. Era impossibile, anzi, in Egitto pensare ad aggredire il male con mezzi efficaci. Bisognava tentare in Europa.

Elena ora povera

Abdel Razek Bey conosceva personalmente uno dei più celebri cancerologhi di Francia, il dottore Paul La Marque, professore nella facoltà di medicina di Montpellier. Al medico di Faruk era altresì noto che il professor Lamarque disponeva di modernissimi apparecchi per la cura del cancro a mezzo radium. Perché la Sovrana non tornava in Francia, ma questavolta forse per sempre? Elena non volle, sulle prime, prendere in considerazione il consiglio del professore Abdel Razek Bey. Voleva restare ad Alessandria, anche a costo di seguitare una vita ancora più modesta di quella che ormai conduceva. Infatti ai timori per la sua salute, le persone che le erano vicine aggiungevano altre preoccupazioni di carattere finanziario. L’ex-Regina d’Italia era povera. I fondi che Vittorio Emanuele aveva depositato in una banca londinese seguitavano a rimanere bloccati.
Dall’Italia non era stato portato quasi nulla. Il Re d’Egitto era venuto con tatto incontro ai nostri Sovrani aprendo un conto bancario che Vittorio Emanuele però non aveva mai volute toccare. Alla morte del vecchio Sovrano, Elena si era trovata ad essere così povera che aveva persino pensato (quanto raccontiamo non è frutto di nostra invenzione) di ritirarsi con Rosa Gallotti nel locale Ospizio dei vecchi. Era un edificio costruito dall’architetto Alessandrini, padre del noto regista.
L’architetto oltre alla parte ospitaliera aveva previsto cinque appartamentini. Quattro erano occupati dalle suore, un quinto (due camere, cucina, bagno) era vuoto. «Ci ritireremo là», diceva senza alcun velo di tristezza nella voce la Regina a Rosa Gallotti. «Ci faremo da sole la cucina. Non disturberemo nessuno e spenderemo pochissimo».

Ma questo progetto venne scartato. La Regina doveva tornare in Europa, se voleva vivere ancora qualche anno. Elena, forse, non avrebbe accettato il nuovo viaggio se non avesse seguitato ad accarezzare un sogno: riunire tutti i suoi figli, tutti i suoi nipoti. Questo ormai doveva essere l’unico scopo della sua vita. Ma per condurre a termine una missione tanto grande doveva innanzitutto curare il male insidioso che la minacciava.

Così villa Jela cominciò a sentire aria di sgombro. Rimase vuota, prima del tempo previsto. Un rapido peggiorare delle condizioni di salute della Sovrana, consigliarono il professore Abdel Razek Bey a ordinare la partenza. La nave che avrebbe potuto essere utilizzata toccava però il porto di Napoli. Così venne scelto l’aereo. Con il piroscafo sarebbero invece partiti la contessa Jaccarino Rochefort, i coniugi Squarzanti, domestici, l’autista Paolo d’Auria. L’aereo, un Dakota , avrebbe portato a Parigi la Sovrana e la fedele Rosa Gallotti, il commendatore Gaetano Scalici e il conte Eugenio Jaccarino Rochefort, figlio della dama di compagnia della Sovrana.

Sosta a Parigi

L’arrivo a Parigi passò quasi inosservato. La Regina prese alloggio all’Hotel Napoleon, ai Champs Elisées. Il giorno dopo, accompagnata dal conte Jaccarino, si recò a trovare il fisico Federico Joliot Curie. «Io ignoravo lo scopo di quella visita», ci ha raccontato la scorsa settimana il conte Jaccarino.  Sapevo solo che la Regina era malata ma non riuscivo ad associare la sua infermità al nome di Joliot Curie.
«Fu solo mesi dopo che compresi lo scopo di quella visita, quando seppi che la mia Regina era sofferente di cancro: aveva voluto parlare con Joliot Curie della efficacia del radium e della radioattività nella cura dei tumori».

«L’incontro non dovette essere soddisfacente. Forse il comunista Joliot Curie non fu eccessivamente gentile con la Sovrana o forse le notizie che egli poté darle non furono tali da tranquillizzare l’ospite. Elena uscì dalla casa di Joliot Curie triste, buia in viso, preoccupata come mai l’avevo vista. Pochi giorni dopo tutti noi lasciavamo Parigi per Montpellier» .

La clinica Sainte Eloise, dove il professor Lamarque si reca ogni mattina, sorge all’estrema periferia di Montpellier, nel cuore del rione sanitario. E’ un edificio imbiancato a calce, con grandi vetrate, in mezzo a un parco. In quel luogo il professore trascorre la maggior parte della sua giornata.

Da quando il suo nome è stato accomunato a quello di Elena di Savoia nel lungo periodo in cui la Regina in esilio lo ebbe vicino, come medico e come amico, Lamarque si è fatto assai guardingo con i giornalisti, che considera una specie di necessario flagello della società contemporanea. Il professor Paul Lamarque ha sessantaquattro anni ed è piuttosto un bell’uomo dall’aspetto molto più giovane della sua età, sanguigno nel volto, che gli occhi grigi illuminano di intelligenza. E’ snello, elegante, porta i capelli tagliati corti sulla nuca e subisce con una certa rassegnazione la propria notorietà di grande cancerologo.

Un simpatico guascone

E’ guascone d’origine ma risiede in Linguadoca da molto tempo. Come tutti i guasconi riesce subito simpatico. Fu nel 1950 che egli conobbe Elena di Savoia. Parla di quell’incontro con molta lentezza, come se cercasse di ricordare ogni particolare.

«Sì», dice, «se non sbaglio fu proprio in quell’anno ch’io conobbi la vostra Regina. Il conte Federico di Vigliano mi aveva fatto avvertire che la Sovrana sarebbe giunta a Montpellier di primo pomeriggio e che sarebbe scesa all’Hotel Métropole. Fu là, appunto, ch’io andai a presentarmi e a offrirle, come mi era stato chiesto, i miei servigi di medico. Ricordo che l’atrio dell’albergo era gremito di gente. C’erano dei poliziotti all’ingresso. Sua Maestà appariva molto affaticata, ma acconsentì a ricevermi e fu con me di una affabilità e di una confidenza che direi umili se non fossero state regali».La Marque si interrompe spesso per tirare lunghe boccate alla sigaretta. Poi continua a narrare: «C’erano ragazzini che si rincorrevano per la strada e le loro grida giungevano fino all’appartamento della Regina. Ricordo che Sua Maestà, accennando al suo male, dimostrava molta competenza, e una serenità che non era rassegnazione. Era qualcosa di diverso, e io credo che, fosse la testimonianza di una forza intima: quella che le ha poi permesso di accettare l’ultimo intervento chirurgico quasi con indifferenza. Quel pomeriggio, però, la Regina non volle insistere su quell’argomento. Mi domandò informazioni sulla mia famiglia e ci mettemmo a chiacchierare come se fossimo due persone che si conoscevano da gran tempo. Parlava un francese perfetto, e conversando, con un gesto che in seguito dovevo riconoscerle abituale, tormentava con le dita il filo di perle che aveva al collo».

«Si informò se la città era tranquilla e parve piacevolmente sorpresa quando seppe che uno dei miei passatempi preferiti era la pesca. Anche lei pescava. Me lo disse con un velo di malinconia negli occhi. Mi raccontò anche che in Italia, a San Rossore, mi pare, le piaceva organizzare delle vere gare di pesca cui non di rado partecipava tutta la famiglia. Volle sapere se i fiumi erano ricchi di pesci, perché, aggiunse, contava di trascorrere molto tempo all’aria libera. Io le dissi che ciò le avrebbe sicuramente giovato e le promisi di indicarle i luoghi in cui, secondo la mia esperienza, ella avrebbe fatto buona pesca».

«Poi parlammo di altre cose. Mi chiese cosa vi fosse di interessante da visitare a Montpellier; si interessò molto alla origine del museo Fabre, in cui sono contenuti molti libri, stampe e disegni piemontesi. Le dissi quello che sapevo su Vittorio Alfieri e 1a duchessa d’Albany, alla quale il poeta, morendo, aveva lasciato gran pari te della sua fortuna. Quando la duchessa d’Albany divenne, successivamente, amante del barone Fabre, volle lasciargli ogni cosa di cui era proprietaria. Fu cosi che Fabre venne in possesso di libri, di quadri e di altri oggetti di Alfieri che, morendo, lasciò alla città di Montpellier, con l’obbligo di istituire un museo. Infine la Regina mi congedò. Quando uscii l’atrio dell’albergo era sempre affollato e anche nella strada si era raccolta gente. Il portiere dell’Hotel faceva grandi gesti e i poliziotti sembravano molto seccati. Il “Métropole” non era certo il luogo ideale per un tranquillo soggiorno di Elena. Fu in quel momento che pensai al Mas de Rouel».

Un’offerta gentile

Il Mas de Rouel è la residenza di campagna del professore Lamarque, il quale vi trascorre la maggior parte dell’anno con la moglie e i figli. Sorge a pochi chilometri (la Montpellier, nel quartiere di Figuerolles, sulla strada che conduce a Lunel, ed è costituito da tre fabbricati: una villa addossata a una torre quadrata: una dependance dov’è l’autorimessa e, alquanto più discosta. una cascina. I tre edifici sono recinti da un muretto e seminascosti alla vista di chi passa sulla strada da un folto gruppo d’alberi.

«Avrei voluto ritornare indietro e proporre alla Regina la mia idea», prosegue il professore, «ma pensai subito che non era opportuno. Prima volevo consigliarmi in famiglia. E poi non ero affatto sicuro che la proposta sarebbe stata gradita. Sapevo che il conte di Vigliano e alcuni altri del seguito di Sua Maestà avevano ricevuto l’incarico di cercarle una residenza ma sapevo anche che una Regina non poteva adattarsi a una dimora qualsiasi. E la mia casa al Mas de Rouel non era certo attrezzata per offrirle l’ospitalità appropriata». Il professore si interrompe, il suo viso emerge dalla nuvola di fumo in cui era nascosto. Sorride arguto, poi continua: «Non sapevo ancora che la Regina d’Italia era la semplicità fatta persona e che nella mia casa avrebbe trascorso delle buone giornate ».

La Sovrana infatti non soggiornò a lungo al Metropole. La vita d’albergo non le era mai piaciuta e le riusciva adesso quasi insopportabile. Il Métropole », poi, pur essendo il migliore fra gli alberghi di Montpellier, non era sicuramente il più adatto a garantirle quella pace di cui sentiva profondamente bisogno.

Posto nelle vicinanze della stazione, era meta quasi obbligata di molti turisti a quell’epoca vi alloggiavano pure alcuni studenti che a Montpellier frequentavano i corsi d’Università.
Quando la notizia dell’arrivo della Regina si diffuse in città, molta gente pensò che quella era una buona occasione per mettersi in vista e non furono pochi quelli che il giorno stesso della sua venuta chiesero di essere ricevuti pei porgerle i loro omaggi.

Curiosità popolare

La contessa Jaccarino e il commendatore Scalici faticarono non poco a tener lontani i visitatori e a vagliare i nomi di coloro che, con un pretesto o con l’altro si presentavano all’albergo. Elena invece avrebbe voluto ricevere tutti. più indulgente alla voce del cuore che a quella della ragione che le suggeriva di non affaticarsi. A pochi giorni dal suo arrivo il «Métropole appariva come assediato: non erano soltanto personaggi illustri che volevano salutarla; erano italiani emigrati da chissà quanto tempo, che restavano in attesa sui marciapiedi per poterla soltanto intravedere, quando usciva per qualche breve passeggiata ed erano donnette intenerite e ragazzini, che la seguivano mormorando: «La Reine d’Italie, La reine d’Italie».
Per sottrarsi a tale curiosità la Sovrana dovette ricorrere spesso a sotterfugi, come quello di abbandonare l’albergo per la porta di servizio mentre all’uscita principale l’attendevano la macchina e qualche personaggio del seguito.

Allora, sfuggita agli sguardi indiscreti della gente, Ella passeggiava sola lungo le strade di Montpellier fermandosi a volte davanti alle vetrine nei negozi. e facendo di persona qualche piccolo acquisto.

I primi giorni furono dominati dalla presenza dei curiosi e trascorsero in una atmosfera quasi turbinosa. Poi, a poco a poco, Montpellier si abituò ad avere fra i suoi ospiti l’anziana Regina d’Italia. Così Elena di Savoia ritrovò la pace.

Anche i reporters dei piccoli giornali di provincia abbandonarono l’assedio al «Métropole» e la strada riprese il suo aspetto tranquillo. Soltanto il proprietario di una grande libreria e un antiquario continuarono a farsi sull’uscio ogni volta che la Signora vestita di nero passava davanti alle vetrine dei loro negozi. La guardavano con simpatia e le facevano un inchino.

Alla Regina piacque quella città di provincia, con le case di pietra grigia, raccolta attorno alla grande Università, dove alle nove di sera le strade si facevano deserte, e gli unici due caffè che tenevano aperto fino a tardi, in piazza della Comédie, si affollavano di studenti di ogni colore, che si riunivano a discutere dei loro studi.

Il cielo della Linguadoca si apriva sereno sulla campagna coltivata a vigneti, e la brezza tolte del mare non lontano dava all’aria un buon profumo di salsedine. Come sempre, quando giungeva in un luogo sconosciuto, la Sovrana volle sapere tutto della città, delle sue strade, dei suoi monumenti.

L’orologlo dei lift

E Montpellier le aprì lo scrigno del suo passato di antico feudo dei Re di Majorca, spalancando il gran libro dei suoi vecchi palazzi, delle sue cattedrali, del suo museo. Mentre in questo modo la Regina andava alla ricerca del tempo perduto, sulla traccia del suo amore per la storia, ed era ricevuta dal vescovo, monsignor Duperray, dal professor Jean Claparéde direttore del museo Fabre, e dai personaggi più autorevoli di Montpellier, il professore Lamarque decideva di abbandonare la villa del Mas de Rouel e di offrirla alla Regina.

Tre giorni prima di abbandonare l’albergo, un pomeriggio verso le cinque, Sua Maestà rientrava da una breve passeggiata. Nel vestibolo a quell’ora, non c’era nessuno. Accanto all’ascensore, in attesa di aprire li porta alla Regina, stava Gérard Roussel un ragazzo di diciott’anni che abitava in rue Fagers, vicino alla stazione ferroviaria.

La Sovrana attraversò rapidamente il vestibolo ed entrò nell’ascensore.
Gérard la seguì per accompagnarla alla soglia dell’appartamento. Stava richiudendo le porte della cabina quando la Regina gli domandò l’ora. Il «lift» arrossì, mormorò una scusa e uscì rapidamente. Ritornò subito, dicendo: « Sono le 17,30, Maestà. Elena sorrise e ringraziò, poi chiese al ragazzo come mai non possedesse un orologio. «Je suis pauvre, Majesté», disse Gérard, semplicemente.

Il breve dialogo finì così. Ma il giorno seguente qualcuno consegnò al ragazzo un astuccio di velluto celeste, in cui erano contenuti un orologio d’oro e un biglietto. Sul biglietto era scritto: Elena.

Adesso Gérard Roussel non lavora più al «Métropole». E’ un giovanotto robusto, rimpatriato da poco dall’Algeria, dove ha fatto il servizio militare. Porta ancora al polso l’orologio donatogli da Elena e, quando qualcuno gli chiede l’ora, non dimentica di raccontare l’episodio di sette anni fa.