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Interviste 65-83

Articolo di Lino Rizzi, 1965 I parte

By Dicembre 16, 2020Novembre 19th, 2021No Comments

Umberto disse: “Preferisco lasciare l’Italia per evitare nuovi lutti e dolori”

di LINO RIZZI

Il 2 Giugno 1948 il referendum monarchia repubblica divise profondamente gli italiani: furono ore drammatiche in cui il Paese rischiò di cedere nel caos. Per una notte Romita visse nell’incubo che Casa Savoia avesse trionfato.

 

Re Umberto II, 3 giugno Seggio di Via Lovanio

Re Umberto II, 3 giugno Seggio di Via Lovanio


Le prime notizie, attendibili se non ufficiali, sull’esito del referendum istituzionale cominciarono a circolare a Roma la mattina del 5 giugno 1946. Si era votato il giorno 2 e fino alle 14 del giorno 3. La lentezza con cui giunsero i risultati non può non sorprendere chi è abituato alla rapidità di oggi. I conteggi venivano compiuti con mezzi rudimentali, il sistema di trasmissione era assai meno efficiente, il ministro dell’Interno, Romita, aveva fatto l’impossibile per tenere celati i dati parziali, preoccupato come diceva di essere delle “intempestive reazioni della folla”.

Roma non si turbò granché apprendendo che i voti repubblicani sopravanzavano quelli monarchici di circa due milioni. Ma anche questo era scontato: nella capitale le repubbliche nascono come nascono e muoiono i regni come crollano gli imperi, senza chiasso e senza orgasmo.

Nel pomeriggio davanti al Quirinale, mentre dal Cupolone giungeva la luce del tramonto, dietro i cordoni della forza pubblica c’erano i romani del popolo minuto. Un cronista ricorda una ragazza che singhiozzava senza ritegno al braccio del fidanzato. Nella piazza tra i cordoni e il portone del Bernini erano rimasti dei bambini che giocavano un po’ stancamente, come fanno i bambini quando la giornata sta per finire. Nel giardini dentro la reggia altri ragazzi, i figli del re, avevano giocato fin verso mezzogiorno rincorrendosi con le biciclette per i viali. Un giornalista monarchico, uno dei fedelissimi, aveva chiesto e ottenuto di vedere la regina. Era un po’ bianca in viso, un po’ più bianca del solito. Era chiaro che cercava di controllare l’amarezza, dì apparire distesa, serena: un’operazione che alle regine riesce sempre. Disse con un sorriso che gli italiani disposti a credere nel Savoia erano molti, erano quasi la metà del Paese, e questo era confortante, questo in un certo senso la ricompensava degli sgarbi, delle amarezze subite negli ultimi due anni. Il giornalista chiese se era vero, come si diceva, che la regina sulla scheda per l’elezione della Costituente aveva dato il voto a Saragat. Rispose che era vero. Alla fine annunciò, come un particolare trascurabile, che nel pomeriggio avrebbe lasciato la capitale insieme con i figli.

Lo stesso giornalista cercò di vedere anche il Re. Gli fu risposto che sua maestà era a colloquio con De Gasperi. Quando il presidente del Consiglio uscì dallo studio di Umberto, la sua faccia era tirata in una commozione in quel momento inspiegabile. Raccontò poi ai giornalisti che il re aveva scorso con calma le cifre sul bigliettino sul quale egli le aveva appuntate, e aveva incassato con estrema dignità. Quei dati Umberto li conosceva già, non v’è dubbio, dalla sera prima. E non si era ucciso sulla spiaggia di Castelporziano, come aveva telegrafato alla sua agenzia un fantasioso giornalista americano.

Quello che si dissero il re e De Gasperi nessuno lo seppe mai, anche se qualcuno ha creduto di poter ricostruire quel colloquio. Le cose sarebbero andate in questo modo: lette le cifre sul foglietto che De Gasperi gli aveva porto, Umberto disse: «Dunque è così». Stette un po’ soprappensiero, poi soggiunse: «Però anche quelli che hanno creduto in noi sono molti. Non le pare signor presidente?», De Gasperi corrugò la fronte e guardò il re. Che cosa significava quella domanda? Quali conseguenze voleva trarre il sovrano, facendo ammettere al capo del governo che gli italiani che avevano votato per la monarchia erano molti? I due uomini si guardavano senza parlare finché il Re avverti il disagio di quella situazione, comprese il dubbio, le perplessità, il riserbo dell’uomo politico e lo rassicurò: «No, signor presidente, volevo soltanto dire che sono molti». E il presidente del Consiglio, il capo di un governo già di fatto repubblicano, trasse un profondo sospiro.

IL SOVRANO SPERAVA

Non c’era del resto motivo di dubitare della correttezza costituzionale di Umberto. Durante il periodo della luogotenenza, durante il brevissimo mese di regno il suo formalismo, il suo equilibrio, la sua grazia sorridente avevano finito con il colpire anche i repubblicani più accesi. Con Nenni una volta parlarono del doloroso destino della principessa Mafalda, sorella del luogotenente, e di una delle figlie del ministro socialista, morte entrambe in un campo di concentramento nazista. Il conte Sforza disse di lui che « era migliore del padre»; Parri rese omaggio alla sua imparzialità, De Gasperi si lasciò sfuggire al termine di una udienza: «Ma che brav’uomo!». Aveva accolto con animo sereno, con cordialità, i ministri repubblicani, aveva firmato leggi che gli ripugnavano, come quella sulla epurazione e quella sui delitti politici, si era sottomesso alle imposizioni dei partiti nella formazione del governo. Probabilmente non poteva fare altro, questo è vero; ma il fair-play di Umberto è fuori discussione, il suo abbandonarsi agli eventi senza progettare colpi di mano, i suoi scrupoli, la sua calma restano un punto fermo di quel periodo tempestoso.

Il Re era preparato alla sconfitta? Oppure durante la campagna per il referendum accarezzò la prospettiva di una vittoria monarchica? E’ significativa a questo proposito una testimonianza del giornalista Luigi Barzini, oggi deputato liberale Barzini incontrò il sovrano nel suo studio al Quirinale. «Nell’ombra della grande stanza che era stata lo studio dell’altro Umberto», egli racconta, «c’era la luce verdognola della lampada sul tavolo che gli illuminava appena il volto. Mi chiese ad un certo punto cosa pensassi del referendum che stava per venire. Ne parlava pacatamente. Gli uomini attorno a lui, per antichissima consuetudine, affettavano il più smaccato ottimismo. Non permettevano al dubbio di appannare le loro previsioni di successo trionfale. Ma i sovrani non si nascondevano nessuna delle difficoltà. La regina non era certa del risultato. Il re prevedeva una piccola maggioranza in un senso o nell’altro, senza poter decidere da quale parte si sarebbe inclinata la bilancia. Cosa ne pensavo io?

Io con dolore non vedevo molto probabile una vittoria monarchica. Perché? Spiegai: la pressione della parte repubblicana era fortissima. Partiti organizzati per la resistenza, partiti legati alle organizzazioni alleate, partiti sorti in funzione della guerra alla Germania, che avevano ricevuto grossi vantaggi iniziali, conducevano ormai da anni una dura campagna. L’atteggiamento degli alleati, soprattutto degli inglesi, era per la Repubblica. Sconfiggere l’Italia e lasciarle la monarchia sarebbe sembrato loro come lasciarle la flotta, come non avere completato il compito. La propaganda fascista al Nord aveva predisposto le grandi masse all’idea di una Repubblica. Gli argomenti della propaganda di Salò erano quelli che in quei giorni si leggevano sui muri. Il governo era repubblicano, era stato repubblicano dalla liberazione di Roma. In un paese conformista e disabituato alla politica il peso della opinione ufficiale, della propaganda, il prevalere di certe correnti risolute avrebbero spostato quei pochi milioni di voti sufficienti a far vincere la Repubblica.

C’era poi da aggiungere l’ambiguo atteggiamento della Chiesa, che non poteva farsi accusare, più tardi, di avere appoggiato la parte perdente e che non aveva dimenticato che i Savoia erano entrati a Porta Pia il 20 settembre.