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Interviste 65-83

AFFIDERO’ AGLI STORICI LA VERITÀ SULLA FINE DI UN REGNO

By Settembre 15, 2022No Comments

 

Forse mai l’ex Re d’Italia si è confidato così liberamente – « Non tocca a me lanciare la prima pietra: sono ancora in vita troppe persone che hanno sostenuto una parte di cui non possono vantarsi » – « Altri, più qualificati, attraverso i documenti che sto raccogliendo, potranno riscoprire la storia italiana del dopoguerra » – Le severe regole imposte all’ex sovrano fin dall’infanzia – « Mi piaceva il ballo, che, con certe donne, è uno sport piuttosto violento » – « Mi mancano le piccole cose alle quali si dà il nome di patria »

Re Umberto II. Cascais 1972

Re Umberto. Cascais 1972

di J. L de VILLALONGA

Cascais. giugno

Cascais è un antico villaggio di pescatori, battuto da tutti i venti dell’Atlantico. Vi si arriva da Lisbona in quaranta minuti di strada lungo il mare. Il paese ha un punto di richiamo che in tutto il Portogallo fa concorrenza all’università di Coimbra o al Palazzo reale di Quéluz, ed è la “Boca do Inferno” (Bocca dell’ Inferno), une stretta e profonda fenditura tra due enormi blocchi rocciosi, nella quale irrompe ruggendo la furia dell’oceano.

Cascais è sotto una pioggerella finissima che sembra non debba cessare mai. Tutto è grigio: il mare, il cielo, il volto delle popolane che vendono scialli neri sferruzzati durante l’inverno e tovaglie da festa impreziosite da ricami barocchi. A cento metri dalla “Boca do Inferno” e dai suoi ruggiti da opera buffa, su un lato di questa strada percorsa notte e giorno da automobili con targhe di tutta Europa, al centro di un parco di dimensioni modeste sorge un fabbricato pesante e sgraziato, al quale le intemperie hanno dato una tinteggiatura che ricorda vagamente il cioccolato.

Un sorriso stanco

Il cancello è spalancato; non c’è ombra di guardiano o di portiere; un giardiniere tutto preso da un cespuglio di ortensie fa appena cenno di avermi notato entrare. Eppure sono centinaia i visitatori che nel corso di un anno vengono a suonare al cancello di questa casa alla apparenza fastosa e per nulla misteriosa. “Villa Italia”, dove si è ritirato l’ultimo Re d’Italia, Umberto di Savoia.

È seduto davanti a me, nel suo salone privato, quello in cui di solito non riceve. Quella che era la sua bellezza di un tempo, la bellezza aggressiva, fin troppo “italiana” del principe di Piemonte, si è velata di malinconia, di una austerità toccante. I lineamenti gi sono fatti ancor più affilati, il sorriso è talvolta stanco, anche se i gesti sono sempre vivaci.

Sono anni che si parla di una sua malattia grave. A una mia discreta domanda sul suo stato di salute, il Re si ferma a fissare a lungo le sue mani bianche e curate, poi mi risponde, con diplomazia che direi fiorentina: – Arrivati a una certa età, è la vita stessa che si fa malattia… Ma questo tu non puoi ancora capirlo.

Umberto di Savoia mi ha dato del “tu” fin dall’inizio dell’incontro; però, a differenza dei Borboni di Spagna che danno immediatamente del “tu” ai lo­ro compatrioti, lo ha fatto so­lamente dopo avermene chiesto il permesso.

L’uomo che mi sta di fronte ha un fascino straordinario, al quale si aggiunge quell’arte che spesso è dote regale (ma rara­mente naturale) di instaurare rapidamente con l’interlocutore, non dico l’intimità, ma una cer­ta complicità che conferisce alle parole di entrambe le parti un peso particolare, come se fosse­ro cariche di intendimenti se­greti,

«Perché questa visita? ..

Gliene spiego il Motivo: per vedere, e scrivere, come vive oggi l’ex Re d’Italia, come tra­scorre le sue ore e i suoi gior­ni, e perché continua a trascorrerli in Portogallo, in questo paesetto ai confini del mondo.

«A me piace il Portogallo. La gente è affettuosa, come accade quasi sempre nei Paesi molto poveri. L’inverno è triste, ma la tristezza si confà agli esiliati: ci obbliga a restare all’interno di noi stessi. Per uno come me, profondamente italiano come temperamento, questa introspe­zione forzata è una esperienza appassionante».

Accavalla le lunghe gambe di cavallerizzo e aggiunge, come per consolarmi: Quando poi l’inverno finisce e arriva la pri­mavera, i fiori scoppiano dap­pertutto, e belli come qui non li ho visti in nessun posto d’Eu­ropa. L’estate, poi, è semplice­mente maestosa: un’estate da paradiso terrestre.

LA “MALAFEDE INGLESE”

Fuori, la pioggia batte con forza sulle finestre che danno sul parco avvolto nell’ombra.

«…E poi, non credere che io passi la vita qui a fare l’eremi­ta. Viaggio molto: Londra, Spa­gna, la Costa Azzurra, la Sviz­zera. “Villa Italia” è il mio por­to di attracco e contemporanea­mente il mio posto di lavoro. Questa non è l’anticamera del vuoto.

Umberto lavora pazientemen­te, da anni, a uno studio ap­profondito delle cause che han­no portato alla caduta della mo­narchia in Italia. «I miei archi­vi, dice sono ricchissimi e saranno di grande aiuto a tutti quelli che in futuro vorranno fare piena luce su questo perio­do della nostra storia »,

«Pensa di scrivere un’opera su questo argomento?».

«No, no. Sono ancora in vita troppe persone che in questi av­venimenti hanno avuto una par­te di cui non possono vantarsi, e non tocca a me lanciare con­tro costoro la prima pietra. Non spetta a me e non è nel mio stile. Ma io penso che ci saran­no altri, più qualificati di me, i quali, documentandosi sul materiale che sto classificando da anni, potranno “riscoprire” la storia italiana del dopoguerra. Una storia, credimi, che non è sempre bella».

Il Re mi parla con un misto di serenità e di amarezza de­gli avvenimenti che lo costrin­sero a lasciare l’Italia. Per Um­berto di Savoia sono ricordi vi­vissimi.

«Il referendum era falsato alle radici. Basti pensare che trecen­tomila soldati italiani non erano in Italia, perché internati nei campi di prigionia russi o al­leati. Naturalmente, questi tre­centomila, in blocco, non hanno votato. Calcola poi ancora tutte quelle province che furono esclu­se dal referendum con una malafede perfettamente organizza­ta. I risultati, li conosci…

«La malafede degli inglesi era evidente: secondo loro, la Mo­narchia era venuta a patti con il regime di Mussolini. Le cose erano andate in maniera ben diversa, ma tant’è: bisognava ab­battere la Monarchia. Le ragio­ni autentiche erano meno puli­te: gli inglesi sapevano che la caduta della monarchia avreb­be gettato l’Italia nella confu­sione per un lungo periodo e ne avrebbe ritardato la rinasci­ta. Si sa che l’Inghilterra ha come regola di indebolire seme i suoi amici come i suoi nemici. Noi eravamo l’una cosa e l’altra. Gli americani erano diversi: erano di una buonafe­de da far paura. Per gli ameri­cani, dittatori e re erano da mettere nello stesso sacco: noi non eravamo che tiranni perversi. E allora, via, via… Tolti di mez­zo i re, tutto sarebbe stato più facile: “Tutto democratico, tutto bello…”. Poveretti, si sono svegliati molto presto dalle loro il­lusioni».

Umberto si alza per andare a prendere un piccolo libro che raccoglie alcuni suoi discorsi nei quali, mi dice, potrò trovare il suo pensiero sulla monarchia.

Resto solo per qualche minu­to nel salone e lo scopro arre­dato con la più grande banali‑

E’ curioso come il gusto del­le famiglie reali si avvicini spes­so a quello dei piccoli borghesi assetati di rispettabilità e di tradizione. Un camino di mar­mo, un antico, pallido tappeto, poltrone profonde, senza stile, un divano come se ne trovano a centinaia in Inghilterra, un grande tavolo portoghese in le­gno nero su cui sono sparse molte pubblicazioni d’arte su di­verse città italiane. Qua e là al­cuni souvenirs folcloristici: mi attira un carretto tirato da un cavallo anch’esso in legno, tutto dipinto a colori vivacissimi. Ap­pesa alle pareti, la più bella col­lezione di “croste” che abbia mai visto in vita mia.

« LA VITA E’ STRANA »

Vi sono tutti i Savoia: Elena di Savoia, in gran décolleté, con un diadema di smeraldi e di dia­manti tra i capelli; il Re Vit­torio Emanuele in grande uni­forme, collare dell’Annunziata, képi piumato in capo, guanti bianchi, baffi a uncino; la regi­na Maria José, moglie di Um­berto, dipinta da un pittore bel­ga dell’epoca: è giovane, molto bella, quasi troppo bella per una regina, in vestito da sera di ra­so bianco, il collo molto lungo, le mani diafane, immateriali, un lungo ventaglio di madreperla tra le fragili dita. Uno solo di questi ritratti m’è parso molto bello: è del Perrin, un pittore minore del secolo diciottesimo, e rappresenta un’ava di Umber­to, l’Infanta di Spagna Luisa Fernanda. E’ l’unico che si stac­chi da tutta questa mediocrità.

Tra i quadri, sono esposte le insegne di reggimenti, in vetrine piuttosto polverose: una bandie­ra italiana lacerata dalle grana­te, nastri di seta scolorita di vari ordini militari, e, dentro una cornice, una targa comme­morativa con frasi di un discor­so del re che esaltano il corag­gio dei marinai.

Quando Umberto torna nel sa­lone, mi trova in piedi di fron­te a un enorme ritratto di un bambino che ride, tutto vestito di blu e bianco.

«E’ mio figlio Vittorio Ema­nuele, il principe ereditario», mi dice semplicemente. E per la prima volta scopro sul suo vol­to un sorriso, tra il felice e il timido, come una incrinatura sotto la maschera che sembre­rebbe nascondere indifferenza o addirittura leggerezza. Come se volesse liberarsi immediatamen­te di una emozione sconvenien­te, il Re mi spiega: «Questo ri­tratto ha una storia abbastan­za curiosa. L’artista italiano che l’ha dipinto si chiamava Locatelli, un pittore non eccelso, sor­domuto dalla nascita, di una bon­tà infinita, pacifista a tutta pro­va. Pensa che si rifiutava di leg­gere i giornali, perché parlava­no soltanto di guerre e rivolu­zioni. Bene, vedi le stranezze del­la vita: questo Locatelli è finito fucilato nelle Filippine, accusa­to di spionaggio in favore dei guerriglieri comunisti. L’ accusa era totalmente falsa, ma Locatelli era sordomuto, e non ha potuto difendersi. Poveretto…».

In piedi, davanti al ritratto del suo solo erede maschio, Um­berto si lascia andare per un istante ai ricordi. «E’ molto alto, quasi quanto me, che sono uno e novantasette; l’età non gli ha tolto I’ estrema snellezza della gioventù. Veste in grigio (ta­glio italiano smorzato dalla di­screzione di Savile Row), cra­vatta blu unito su una camicia bianca di disegno finissimo. Niente fazzoletto al taschino, niente gioielli. Una semplicità feroce, voluta, quasi esposta.

«Vieni, vieni a sederti ».

Siede in poltrona come su un trono, eretto, le mani incrocia­te sulle ginocchia, le gambe ac­cavallate. Con mio grande stu­pore, vedo che i calzini gli la­sciano scoperto un pezzo di gam­ba, una pelle bianca, levigata co­me l’avorio. Decisamente, con l’uniforme un Re ci guadagna sempre. Questo particolare mi fa ricordare un aneddoto che ha per protagonisti l’ultimo re di Spagna, Alfonso XIII, e il suo aiutante in campo, che era mio padre. Mio padre, ritenuto ai suoi tempi uno degli uomini più eleganti d’Europa, dedicava mol­to tempo alla cura della perso­na. Alfonso XIII faceva una fi­gura superba in uniforme, ma in borghese lasciava piuttosto a desiderare.

«Salvador», domandò un gior­no a mio padre quanto tempo impieghi tu al mattino a met­terti in ordine? ..

« Tre ore, Maestà ».

« Si vede… Io mi vesto in die­ci minuti ».

Anche questo si vede, Mae­stà », rispose mio padre con un inchino più profondo del solito.